E-Book, Italienisch, 196 Seiten
Pascale Questo è il paese che non amo. Trent'anni nell'Italia senza stile
1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-332-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 196 Seiten
ISBN: 978-88-7521-332-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
In questo libro Antonio Pascale fa i conti una volta per tutte con il nostro paese. E scrive un saggio sull'Italia contemporanea a metà tra l'autobiografia sentimentale e l'inchiesta sul campo. Dall'arrivo dei primi senegalesi nella provincia campana alla nascita delle televisioni commerciali, dal caso Di Bella al caso Englaro, dalle passioni giovanili ai dubbi della paternità. 'Questo è il paese che non amo' è un dialogo con il lettore, chiamato a mettere in crisi le sue false certezze. A riconoscere il razzismo dietro l'interesse per gli immigrati, il voyeurismo dietro la curiosità per il male, la militanza ottusa dietro le nuove ideologie, il sopruso dietro l'amore.
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WE ARE THE WORLD?
Cominciava ad andare di moda allora (1986-87) la teoria di Edward Lorenz, quella dell’effetto farfalla. «Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?» era il titolo di una conferenza tenuta da Lorenz nel 1979. Siccome tanti di noi si guardavano bene dal leggere per intero e con il gusto dell’approfondimento i lavori di Lorenz sul caos o sugli attrattori strani, successe che quella teoria subì un processo di eccessiva semplificazione.
Dunque la farfalla, da allora in poi, diventò per noi il simbolo di una generale chiamata in correità. Le nostre azioni, qui e ora, hanno di sicuro una conseguenza da qualche parte lontana. Ci tocca essere responsabili delle nostre ali. Per farlo, però, è necessario raccontare non come sono fatte le nostre ali ma dove va a finire il vento. Non importa se soffia lontano. L’importante è rappresentare questa lontananza.
Fu per questo, cioè pensando a quelle immagini di fame, sofferenza e guerre lontane, e ancora, agli effetti delle carestie, della malnutrizione, al disagio prodotti dalla condizione di nomadismo, fu per tutto questo che alcuni di noi ventenni casertani decisero di mettere in piedi un’associazione. Era giusto e necessario fondare un nuovo patto di cittadinanza, tra casertani e senegalesi. Una causa giusta.
Ora, una delle prime cose che venne alla luce, diciamo così, nello scambio culturale era che molti di loro non gradivano affatto che questo scambio ci fosse. Non si fidavano.
Gli davamo ragione, naturalmente. Soprattutto sul piano politico, come italiani eravamo indifendibili. Quelli di noi, giovani casertani, che si erano appena iscritti a scienze politiche si davano da fare per ricordare un po’ a tutti l’impatto che l’avventura coloniale aveva avuto sull’immaginario collettivo: l’Africa descritta a fine Ottocento dai primi resoconti dei giornalisti sull’Illustrazione italiana (il modello è Ferdinando Martini, prima che diventasse commissario parlamentare) e attraverso i disegnatori e i reportage degli esploratori, era a tutti gli effetti un continente esotico; per quanto selvaggio e brutale, in fondo rappresentava un paradiso terrestre che, tra l’altro, piaceva contrapporre alla società borghese dell’Italia umbertina.
Nemmeno, poi, ci si poteva fidare dei resoconti scientifici. Peggio. Tutti oleografici. L’esploratore Brunialti, nelle sue pubblicazioni di inizio Novecento sull’Africa, non perdeva mai occasione per ribadire quanto primitivo fosse il continente africano: in ordine sparso, nelle pagine di Brunialti si trovavano belve feroci, sacrifici umani e tanta, ma tanta, natura.
Quelli di noi che si erano iscritti a scienze politiche, insomma, ci tenevano a instaurare con i senegalesi uno scambio alla pari e, per questo, mostravano attenzione alla storia africana. Non si poteva mica abbassare la guardia: il colonialismo con tutte le sue strategie era ancora vivo e forte.
Appunto, disse un giorno, durante una lieta serata in pizzeria, un amico, Mustafà, un laico senegalese. In realtà, non solo avete abbassato la guardia – e chissà se poi avete mai avuto voglia di tenerla alta – ma a parte questo siete, voi occidentali, oggi responsabili di una nuova forma di colonialismo, più subdola: la retorica del corpo.
In una pubblicazione diffusa in Italia a metà del Settecento, l’Africa veniva raffigurata come una donna intenta a conversare con l’America. Il corpo della donna Africa era coperto quasi interamente da una nuvola bianca, chiaro elemento simbolico per indicare un continente poco conosciuto. Tra Ottocento e Novecento, nell’iconografia, quella nuvola si dissolse e apparve il corpo femminile, spesso svestito, deforme, sensuale, nero. Il bianco della nuvola, lo spazio bianco della carta, spinse molti a viaggiare e l’atto di vedere si caratterizzò allora come pratica esotica, in quanto quell’atto svelava l’intento segreto del desiderio: di contemplare, di conoscere ma soprattutto di conquistare l’altro. Da allora la nudità delle donne africane divenne una costante esotica e i viaggiatori, i fotografi cominciarono a raffinare quel progresso moderno che consiste nel ridurre la complessità del mondo a un’immagine.
Finora lo scambio aveva avuto più svantaggi che vantaggi. In effetti, a riguardare l’iconografia del periodo coloniale, non è che venissero dubbi sulle pose utilizzate. Una grande quantità di immagini avevano ritratto corpi femminili lascivamente abbandonati in atteggiamenti provocatori e ammiccanti, o donne in piedi, languide, con il seno scoperto e le braccia dietro la testa: veneri nere da conquistare. La nudità significava anche la vicinanza alla natura e dunque la prosperità e la convenienza del territorio da colonizzare. E non bastò. Dopo i fotografi arrivarono gli antropologi, e allora le donne nere non incarnarono più la sensualità, ma l’inferiorità di una popolazione che solo il progresso poteva risanare. Il corpo nudo della donna, ritratto di spalle, di fronte, di lato, studiato, catalogato, frammentato, un corpo esposto nei dettagli, misurato con strumenti, un fondoschiena sporgente, un seno cascante o una cicatrice: questa tipologia di corpo giustificava la volontà di dominio. E non era finita; ora, ci ricordava Mustafà, un’altra tipologia di immagine si stava imponendo: la povertà. Corpi smagriti, corpi che solo le cure dell’Occidente possono ritemprare.
Mustafà non amava per niente l’immagine che gli occidentali davano dell’Africa. Al Live Aid, per esempio, non ci poteva pensare. Aveva penalizzato duramente l’immaginario africano. La simbologia della povertà stava inquinando l’intero continente nero.
Noi bianchi eravamo quindi, per così dire, colpevoli due volte: prima avevamo raccontato l’Africa come luogo esotico, poi come luogo di povertà. In entrambi i casi, questo immaginario rischiava di bloccare la crescita degli africani stessi, anzi, loro per primi facevano di tutto per assecondare il gusto occidentale e si davano da fare per apparire poveri. E mettersi in posa.
Chi ve l’ha chiesto?, era la domanda di Mustafà. Che ne sapete voi di noi? Soprattutto, perché ci tenete tanto a occuparvi di noi? Per le ali della farfalla? O perché we are the world? Sbagliato: noi, non siamo il mondo.
Prima dell’operazione Live Aid, furono incisi dalle formazioni Band Aid e Usa for Africa due 45 giri, rispettivamente: «Do They Know It’s Christmas?» e «We Are the World». Quello che colpì l’immaginario furono i video. Per la prima volta si vedevano tante star della musica pop darsi la mano come in un girotondo e intonare la canzone. Idoli musicali molto amati e impegnati, come Bruce Springsteen per esempio, cantavano a turno una strofa della canzone e poi tutti insieme, mano nella mano, il ritornello. Il montaggio ebbe in questo gioco una parte determinante. Fece il suo ingresso in campo, con più prepotenza, la tecnica della dissolvenza incrociata, grazie alla quale si sovrapponevano i divi dello star system angloamericano e i bambini etiopi sul punto di morire di fame. Anche in questo caso il disco aveva il (nobile) scopo di raccogliere fondi. Quei video scatenarono molte discussioni. Alcuni di noi sostenevano che erano retorici. Altri che la retorica serviva alla causa. Ricordo ancora un duro confronto con un amico, appena iscritto alla facoltà di legge della Federico II di Napoli. A lui il video era piaciuto. Riteneva giusto che le star della musica perdessero parte del loro tempo a sensibilizzare l’opinione pubblica su problemi così seri e gravi. Stavamo entrando in una società globale, il Live Aid l’aveva dimostrato, con il suo miliardo e mezzo di persone collegate in diretta. Se almeno il dieci per cento degli ascoltatori avesse pensato un po’ di più all’Etiopia di sicuro la situazione di quel paese sarebbe cambiata. Senza considerare poi il fatto che i figli di quegli ascoltatori sensibilizzati sull’argomento avrebbero portato avanti la battaglia. Il problema, non da poco per quegli anni, era che questo amico era di destra, cioè proprio iscritto al Movimento Sociale Italiano.
Insomma, il patto di cittadinanza che Mustafà voleva fondare era un patto di disoccupazione creativa. Disoccupatevi di noi. Per carità, siamo amici, andiamo anche a bere insieme, ci raccontiamo i fatti, ma non provate a rappresentare al nostro posto i medesimi fatti. Non metteteli in scena. Al massimo dateci una mano a smaltare i servizi igienici. A tinteggiare le stanze o cercare case migliori.
Quest’ultima cosa in verità provammo a farla, ma inutilmente. Nessuno era allora disposto ad affittare una casa decente ai senegalesi. La tinteggiatura e la smaltatura, invece, non le prendemmo in considerazione. Per noi, e per me evidentemente, era più importante rappresentare la condizione di sofferenza che contribuire a mitigarla con una passata di candida calce.
Voglio dire, credevamo con molta passione alla teoria della farfalla che batte le ali e provoca il tornado. Il nostro intento teorico era capire, insieme a loro, con loro (come dicevamo spesso) quali erano i punti nevralgici e provare ad argomentarli. Bisognava portare a conoscenza dei casertani (degli italiani, del mondo ecc.) il disagio quotidiano nel quale vivevano, quelle case sporche, quei servizi igienici che avevano perso tutto lo smalto.
I casertani dovevano...




