E-Book, Italienisch, 160 Seiten
Reihe: Amazzoni
Stupar Trifunovic / Parmeggiani Gli orologi nella stanza di mia madre
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-6243-495-9
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 160 Seiten
Reihe: Amazzoni
ISBN: 978-88-6243-495-9
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nata nel 1977 a Zara, in Croazia, è autrice di poesie e prose e redattrice della rivista 'Putevi'. Le sue raccolte poetiche hanno ricevuto numerosi riconoscimenti e sono tradotte nelle maggiori lingue europee. Gli orologi nella stanza di mia madre, suo primo romanzo, è stato insignito nel 2016 del Premio dell'Unione Europea per la letteratura. Attualmente vive a Banja Luka.
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III
Forse bisogna cominciare dall’infanzia. Nell’infanzia le impressioni si imprimono profondamente nell’uomo, come un piede nel cemento ancora fresco. Ora non restano che tracce di fango, che si lavano via facilmente. Io sono da tempo una piazza lastricata, un lungomare completato sulla costa, un marciapiede liso accanto a una strada e tutto in me è indurito. I passi altrui non sono più tracce profonde. Il passato è una casa nella quale termina un pensiero imprudente, i ricordi premono come pareti ricoperte di quadri.
Camminavo sulla riva e raccoglievo conchiglie. Mia madre strillava per il troppo sole sulla mia schiena. La pelle imbruniva, la pelle punzecchiava, la pelle si tendeva. Non sentivo nulla. Venne dopo. Ora cercavo e basta. E i miei occhi erano predatori in caccia e magneti che attirano e mendicanti supplichevoli che chiamano. Le conchiglie giacevano sulla riva tra le pietre. Preziosi che attendevano di essere trovati dalle mani. Quando le voltavo, erano bianche e perlacee (come la mia pancia), all’esterno più scure (come la mia schiena). Come la vita. Bianco e perlaceo. La vita che viene da una qualche parte, che comincia nella testa delle bambine, perlacea e bianca come l’interno di una conchiglia marina. Nelle teste delle bambine che sono in attesa, spaventate e solenni.
Il matrimonio fu modesto. Senza bianco. Senza perlaceo.
La conchiglia non si era aperta fino in fondo. Troppo tagliente l’orlo. Mi tagliai un dito. Il mare salato morsicò il mio sangue, bruciava (immersi il dito nell’acqua perché mia madre non vedesse). Il mare risucchiò una parte di me dal dito, parte di me entrò nel mare. Il mare non era ingiusto, parte del mare entrò in me (spesso mi dondolo da rive sconosciute, spesso mi sbilancio, resto a malapena in piedi).
Come un gabbiano mia madre sorveglia dall’alto quale ingenuo pesce agguantare. Qualche movimento disattento mi tradirà e interromperà l’avventura al sole. Un movimento della mano e un richiamo col quale si finisce dentro al suo becco, all’ombra. Al sicuro. Sotto alla verde tamerice. Sotto al pino resinoso. Sotto al fico dal cui frutto acerbo gocciola un latte appiccicoso e pruriginoso lungo il dito.
L’appartamento in affitto era stretto, umido e sicuro. Lontano dal mare. Sulle mensole sistemavo le conchiglie. Mi soffocava. Mi intimoriva. La vicinanza delle pareti. La confidenza della dispensa che di proposito offre l’ammuffire: prima che tu abbia afferrato un vasetto di marmellata già ti racconta la storia della povertà tua e altrui.
Tremavo fissando la strada grigia attraverso le finestrelle. Il mare era lontano, ma le maree bassa e alta erano qui. Dentro. E la bora sul mare. E le mattine con i pesci gettati sulla riva. Qualcosa cresceva. Qualcosa un giorno sarebbe nuotato fuori da me.
Tu sei scivolata lungo le mie cosce salate, bagnate di acqua marina e sangue. È successo di nuovo. Una parte di me è scivolata in te, parte di te è entrata in me. Uno scambio è avvenuto. Entrambe sciabordavamo. D’estate raccoglievamo le conchiglie.
Nei tuoi occhi c’era la stessa luce di chi va alla ricerca. Dello splendore bianco, perlaceo. Tra i sassolini.
Mia madre mi guardava rabbiosa mentre mi trascinavo pigramente verso casa. L’imbarazzo intuito rallentava i miei passi. Lei mi stava aspettando. Mi picchiò. Avevo sconsideratamente confidato al vicino i segreti di famiglia. Ciò che mi avevano detto di non dire a nessuno.
Di noi.
Dentro.
Tra quattro mura.
Qualcosa di nostro.
Avevo rivelato.
Lui aveva chiesto. Ero stata sincera. Pensavo che tutti fossero come noi, che non ci fosse niente di speciale in quei piccoli segreti di casa. Dentro, tutto è sostanzialmente lo stesso. Tutti mentono gli uni agli altri. Per non ferirli.
Non capivo.
Doleva.
Bisogna tacere di questa cosa. Le botte non mi insegnarono la ragionevolezza.
Non ne era valsa la pena. Il matrimonio era stato modesto. Mia madre reclinava il capo da una parte, mio padre dall’altra.
Mio padre andava a pescare in mare. Lo pregai di portarmi con sé. Mia madre disse che non era sicuro, portare una bambina nella bora, in mare aperto, di mattina presto. Portare una bambina così piccola, in un mare tanto grande e forse avrebbe soffiato la bora. Già soffia un po’. Sei forse pazzo? Tu e pure lei. E non lo fare. E ti prego, papà. E mi portò. C’erano lui e degli uomini. Erano ebbri e allegri. Faceva freddo quel mattino mentre albeggiava e caldissimo più tardi. Il sole tirava la pelle. Ero uno di loro. Pescammo una seppia. Il liquido nero sporcò il ventre della barca bianca. Non mi fece ribrezzo, non era brutto, non avevo paura di sporcarmi. Proprio come loro. Neanche dopo, quando li distribuiranno strategicamente tra le parti in guerra scavate nella terra nera, non avranno paura di sporcarsi. Non mostreranno paura. Si alzeranno presto. Accenderanno le sigarette e andranno come a pescare. Io invece comincerò ad avere tanta paura.
Non sarò più uno di loro.
La paura crescerà.
L’inchiostro nero della seppia colerà dentro la storia.
Vergognati, disse mio padre. Vergognati. Mi vergognavo. Degli errori. Sicuramente ce n’erano stati tanti. Come un sacco di mais mangiato dalle galline. Oltre al sacco vuoto di vergogna, davanti a me non resta niente. Mi vergogno. Il tempo ha inghiottito gli errori, ma io continuo a vergognarmi. Anche mio padre si vergogna. Anche a lui hanno detto Vergognati. Hai rubato un giocattolo, spezzato la recinzione, infranto la finestra del vicino. E lui si vergogna nella fotografia, sulla parete, dove la sua testa è piegata da una parte e quella di mia madre dall’altra. Al loro matrimonio.
Dio, come sono grandi. Si era avvicinato alle spalle. Aveva cercato di avvolgerle. Forse hai bisogno di una mano per sostenerle, ti piegano la schiena. Mi scostai. Mi vennero dietro quelle dita come meduse con i polpastrelli, si appiccicavano all’aria, alla pelle, e toglievano l’ossigeno. Ce l’hai un ragazzo? Ti tocca? Perché le meduse si avventano sempre prima sul nostro petto, sui nostri cuori, a lasciare le loro bruciature velenose? Quando ero giovane io, era diverso. Lei non vuole dormire con me. Le meduse sono tristi, trasparenti e velenose. Le meduse nuotano sempre vicino ai bambini. I bambini non dicono niente ai genitori perché i genitori credono di più alle meduse.
Chi è senza peccato afferri la prima pietra, esclamò mio padre con una voce triste e scosse il capo.
E non raccontare mai più quel che si dice in casa, disse mia madre.
Mai.
Che cosa si dice? Che cosa si dice? Il mare mugghiava dentro di me.
Lo sai che cosa si dice di te? disse mia figlia (dicesti tu) e mi guardò direttamente negli occhi.
Lo so, dissi. E cominciai a ridere. A te non piaceva il mio riso. Questo tipo di riso non piace a nessuno. Ma era più doloroso e più rapido di me.
Al nostro matrimonio lui sta diritto. Se volete sapere che cosa sia un angolo retto, guardate le spalle. Guardate la testa di quest’uomo. Lui sta sempre diritto. Io invece reclino la testa da un lato, quello opposto a lui, e il fotografo piega la mano. E tutto è un po’ inclinato.
Nella mia pancia – mare nuota un pesce che non sa ancora di esserci.
Nella pancia – mare di mia madre mi rigiravo nervosamente io che non sapevo di esserci. E di averli catturati.
Il matrimonio fu modesto, senza bianco, senza perlaceo. La stanza in affitto al pianterreno aspettava i corpi stanchi, che storditi dall’umidità dimenticarono di essere giovani.
La funzionaria dell’anagrafe aveva circa cinquant’anni. I suoi occhi erano specchi inespressivi che riflettevano i sì (dietro cui gridavano i no).
Il pesce era già catturato. Il motore della barca ronzava allegramente. Gli uomini erano ugualmente ebbri e allegri. Bevevano e ridevano. Ritorniamo indietro. È andato tutto bene. Le donne hanno sempre paura senza motivo. E portano iella per niente. Ero arrabbiata con mia madre perché non conosceva affatto questa gioia maschile in mare aperto. Il pesce era qui, nei secchi. Anche io ne avevo preso. Ero orgogliosa. La traccia nera della seppia mi distoglieva l’attenzione, c’era qualcosa di appiccicoso e molle nel suo corpo, nella sua traccia, nel suo modo di averci.
Tutti noi uomini allegri nei quali sbadatamente si era scossa dal sonno e risvegliata una donna.
Siamo catturati nella fotografia. Siamo un po’ tutti storti.
Ti ho detto di non parlarne con nessuno, disse mia madre. Non riuscivo a ricordare di cosa. Di cosa, per Dio, avevo parlato. E quel vicino maligno che interrogava furbescamente i bambini. Come una specie di voyeur che gode dei segreti famigliari altrui. La nostra famiglia ha dunque dei segreti? Noi siamo una famiglia noiosa.
Una splendida, noiosa famiglia.
Una splendida, noiosa famiglia, fotografata storta.
Qui, dentro ci sei tu, e in lei ci sono io. Come cipolle, in ciascuna di noi un nuovo strato. Sì, queste comparazioni, queste normali comparazioni che ti fanno piangere mentre le sbucci.
Piangi, dissi a me stessa e piansi. Fino a che l’inchiostro di seppia uscì fuori da me.
Ma prima, prima che cominciasse, prima che l’osso...




