E-Book, Italienisch, 368 Seiten
Reihe: Intrecci
Aiolli Portofino blues
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6243-701-1
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 368 Seiten
Reihe: Intrecci
ISBN: 978-88-6243-701-1
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È nato nel 1961 a Firenze, dove vive. Ha esordito nel 1995 con la raccolta di racconti 'Male ai piedi'. Il suo primo romanzo, 'Io e mio fratello' (E/O, 1999), è stato tradotto anche in Germania e Ungheria. Sono seguiti 'Luce profuga' (E/O, 2001), 'A rotta di collo' (E/O, 2002), 'Fuori tempo' (Rizzoli, 2004), 'Ali di sabbia' (Alet, 2007), 'Il sonnambulo' (Gaffi, 2014) e 'Il carteggio Bellosguardo' (Italo Svevo Edizioni, 2017). Per Voland ha pubblicato 'Lo stesso vento' nel 2016 e 'Nero ananas' nel 2019, con il quale è stato selezionato tra i dodici candidati del Premio Strega.
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Le pale frullano invisibili sopra il tettuccio. È la mia prima volta in elicottero, e ho paura. Non è paura dell’elicottero, è paura del vuoto, orrore del vuoto, orrore per ciò che non c’è. Il rumore mi squassa, senza volerlo ne seguo l’andamento pronto a coglierne la minima irregolarità. Il pilota simula sicurezza, come tutti i piloti del mondo. Anche mentre si stanno schiantando simulano sicurezza, le avete mai lette le trascrizioni delle scatole nere? Sicurezza apparente fin quando è possibile, fin quando la realtà non diventa troppo presente per continuare a eluderla. Sono addestrati per simulare sicurezza, anche con loro stessi. Ma questo pilota ha un ciuffo bianco sulla nuca, in mezzo al nero dei capelli: forse l’effetto di tutto quell’eccesso di sicurezza.
Laggiù in fondo, quando mi decido a lanciare un’occhiata verso il basso, le sierras sembrano non finire mai. Decine, centinaia di chilometri di terreno desertico e cactus, qualche rarissimo fiumiciattolo, ogni tanto agglomerati di casupole col tetto di lamiera.
Il marito di Magali mi tocca col gomito, indicandomi di guardare dal suo lato. La città di O. è incassata tra colline ricoperte di vegetazione bassa e compatta. Il centro ha vie ortogonali e piazze, e grandi chiese, ma la periferia si sfilaccia quasi subito in stradelli non asfaltati, dove sorgono baracche su baracche e, proprio accanto, qualche supervilla.
Ci stiamo abbassando. Compare una piscina contornata da cactus, diversi però da quelli tutti uguali delle sierras: questi sono di differenti qualità e dimensioni, e sembrano essere stati piantati con una cura estetica degna di un orto botanico. Poco più in là c’è un campo da tennis in erba sintetica, con la rete che pende molle dai paletti. E poi appare la villa. Molto grande, articolata, ruota intorno a un patio. Il vuoto intanto si va riducendo di secondo in secondo, ciò che non c’è si comprime, scompare, ormai anche se andassimo in stallo e precipitassimo non farei quasi in tempo ad accorgermi di stare per morire, e forse neppure morirei in effetti, rimarrei soltanto mutilato in modo orribile, confinato su una sedia a rotelle, incapace di intendere e di volere, un relitto umano/terra, penso, abbiamo toccato terra, il rumore è ancora più forte di prima ma siamo a terra, terra terra terra, non salirò più su un elicottero, penso, non mi affaccerò più verso l’orrore del vuoto, mai più.
I miei amici più cari sanno che almeno da un anno sto scrivendo qualcosa che ha a che fare col Messico. “Anche col Messico” preciso se messo alle strette. Non aggiungo altro. Il motivo per cui sto scrivendo queste frasi che (forse, un giorno) entreranno a far parte di un libro non riguarda i miei amici, e neanche le persone che (forse, un giorno) lo leggeranno. Troppo spesso viene chiesto agli scrittori perché abbiano deciso di scrivere una certa storia (“Come nasce l’idea...?”) e troppo spesso gli scrittori si piegano a rispondere, arrampicandosi sugli specchi per spiegare l’inspiegabile. Quasi mai sappiamo come nasce l’idea. Non c’è quasi mai un vero motivo per scrivere una storia. L’unico motivo è che ci siamo messi a scrivere quella storia per scoprire qualcosa che esisterà solo se riusciremo a scriverla.
Dietro la siepe di cactus che separa l’eliporto dal resto del mondo, El Hombre ci accoglie sulla soglia della veranda in pantaloncini e maglietta, i piedi nudi. Massiccio, barba rada, capelli folti, cinquantacinque anni portati con energia ancora intatta, un puma che si finge gatto, la stretta di mano forte guardandoti negli occhi, apparente rassicurazione in cambio di conoscenza intuitiva.
(El Hombre ha un nome naturalmente, ma è un nome che non rivelerò.)
La televisione è accesa su un canale di video pop a volume basso, l’altarino per el día de los muertos forma una macchia di colori, con una coda arancione di fiori sparpagliati a terra per indicare la strada al morto che arriva. La piscina a sfioro al di là delle vetrate riflette quell’azzurro marezzato di nuvole da cui sono disceso con le gambe tremanti solo pochi istanti fa.
Dopo qualche minuto di convenevoli, El Hombre ci fa un cenno e ci precede (io, Magali e il marito di Magali) alla scoperta della villa, camera dopo camera, bagno dopo bagno. Pavimenti chiari sui toni più tenui del giallo, a metà fra il travertino e la pietra leccese. Ambienti ampi, soffitti alti. Una palestra attrezzatissima, uno spogliatoio con una serie apparentemente infinita di scarpe appaiate sugli scaffali. Poi il patio, circondato da robuste colonne di legno rosso, con una polla d’acqua al centro dell’impiantito in cubetti di granito, un’amaca bianca e una canoa in vetroresina simil-legno poggiata a terra, su cui crescono piante grasse piccole come bonsai. Pochi passi ancora ed entriamo in una cappella con un Cristo sospeso a mezz’aria e, dietro, una vetrata a tutta parete aggettante sulla vallata di O., che col passare delle ore sta prendendo un bel colore biondo scuro: Gesù ascende al cielo nella luce pomeridiana del Messico centrale, libero ormai dal peso (e dal sostegno) della croce, ma ancora con le braccia larghe e i piedi sovrapposti. Sotto, l’altare è cosparso di statuine della Vergine, di altri Cristi, altri Santi. E poi frutta, mele soprattutto. Uno spettacolo.
Appena usciti di là, ancora mezzo rintronati da tutto quel profluvio di immagini sacre, El Hombre ordina (un uomo silenzioso ci è sempre vicino, pronto a eseguire qualsiasi sua volontà) di alzare la saracinesca che nasconde un altro grande ambiente, una stanza da meditazione della quale pare essere particolarmente orgoglioso: triangoli e cerchi in legno rossastro (lo stesso delle colonne del patio, direi, ma piallato e lucido), una pedana che è quasi un palco e uno sgabello ergonomico per poter rimanere a lungo lì a meditare, a svuotare la mente, senza affaticarsi la schiena.
Finita la visita guidata (questa è solo una delle sue tante case, ci ha detto), El Hombre indossa i jeans e un paio di quelle scarpe da ginnastica dello spogliatoio e fa arrivare dal garage un van nero con i vetri fumé. Deve assolutamente mostrarci il Cristo che cresce, ci dice salendo nel posto accanto a quello di guida, occupato dall’autista. L’uomo nel gabbiotto all’ingresso ci fa un cenno senza sorridere e usciamo dal cancello, protetto da un doppio giro di filo spinato e sorvegliato da un paio di telecamere. Ci inoltriamo in una carretera terrosa piena di buche, che percorriamo per un quarto d’ora a zigzag e a passo d’uomo fino ad arrivare con sollievo generale a una specie di superstrada che imbocchiamo in direzione, a giudicare dal sole, sudest. Dal sedile anteriore El Hombre si volta di tre quarti, porta un paio di Ray-Ban con lenti verde scuro, e comincia a raccontare.
A diciassette anni era stato rapito. Non era di famiglia ricca, anzi: era orfano di padre e sua madre lavorava in un negozio di scarpe. Ma quella sera, fuori da un locale a bersi una Corona insieme a un amico che portava i capelli lunghi, era stato scambiato per una ragazza da un gruppo di uomini arrivati su un furgoncino per portarsela via. I due amici avevano reagito, lui aveva spaccato la bottiglietta di birra in testa a uno degli assalitori, ed era andata a finire che avevano portato via lui, il diciassettenne El Hombre, per ripicca. L’amico era riuscito ad avvertire subito l’ufficio del governatore (un amico di famiglia, impossibile altrimenti), che aveva ordinato alla polizia di chiudere tutte le strade di uscita dalla città. Il diciassettenne El Hombre legato, bendato, con il nastro adesivo sulla bocca, era stato lasciato per ore in una stanza di un palazzo in costruzione mentre i suoi rapitori, di là, si consultavano sul da farsi. “¿Lo matamos?” aveva sentito dire. Poi era calato il silenzio. Se ne erano andati. A fatica riuscì a liberarsi e ormai quasi all’alba si diresse verso casa, aprendo la porta con la chiave che si era ritrovato (scivolata) nel risvolto dei calzoni. Sua madre, inginocchiata in mezzo al piccolo soggiorno, stava dicendo: “Jesús, llévatelo pero por favor no lo hagas sufrir.”
Ogni tanto l’autista rallenta fin quasi a fermarsi perché l’asfalto messicano è innervato di topas, dissuasori di velocità capaci di devastare qualsiasi auto se affrontati sopra i dieci all’ora. Qua e là, lungo il bordo polveroso della strada, compaiono baracche e venditori ambulanti. Offrono cibo, giocattoli in plastica. Dietro si aprono a perdita d’occhio distese di agavi per il mezcal.
I figli invece gli sono stati rapiti qualche anno fa, quando erano ragazzini, riprende a raccontare El Hombre. Stavano andando a scuola in macchina quando furono circondati da un commando, che per prima cosa aveva ucciso l’autista. Un proiettile era finito nella gamba di una delle ragazze, a quel punto erano stati prelevati soltanto il fratello e l’altra sorella. Sette mesi in una cisterna, li avevano tenuti, prima di liberarli dopo il pagamento di un riscatto. A questo punto El Hombre si blocca, ha un nodo alla gola, non riesce a proseguire. Scuote la testa, torna a rivolgersi in direzione del senso di marcia.
Usciti dalla superstrada ci addentriamo in un piccolo pueblo. Non c’è nessuno in giro, solo qualche camioncino parcheggiato, tetti di lamiera ondulata, pilastri di cemento da cui spuntano ferri pronti per nuove gettate, accrocchi di cavi che si incrociano sopra le strade strette. Il sole è ancora alto, questa giornata non finisce mai.
Accostiamo, El Hombre ci scorta nel patio di una casa uguale a tutte le altre. C’è un frigorifero con sopra...




