E-Book, Italienisch, 293 Seiten
Barth La fine della strada
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-3389-179-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 293 Seiten
ISBN: 978-88-3389-179-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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La fine della strada (pubblicato originariamente nel 1958 e finalista al National Book Award) è il romanzo meno «barthiano» di John Barth: alla tendenza barocca, sperimentale e metanarrativa che contraddistingue gran parte della sua opera, qui si sostituisce infatti uno stile asciutto e lineare dallo straordinario mordente. Una situazione quanto mai tipica - un triangolo amoroso sullo sfondo di un'università della East Coast - diventa in queste pagine un formidabile e spietato romanzo filosofico che alterna comicità e nichilismo, satira e tragedia; al centro, uno dei più irresistibili antieroi della letteratura postmoderna: Jacob Horner, il giovane professore adultero che fa della paralisi esistenziale un grottesco sistema di vita.
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Le Muse necessarie di Simone Barillari
But , the proles grouse,
is the funhouse a house?
David Foster Wallace
Si afferma nella prima legge dell’embriologia che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, che in ogni uomo viene ripercorso il cammino della specie umana e che la storia della specie umana ricomincia e finisce in ogni uomo. Questa legge, che appartiene alla metafisica quanto alle scienze, si lascia applicare in modi diversi e sorprendenti alla letteratura di John Barth, che ne era affascinato e desiderò averla enunciata. Il modo di applicazione più immediato è che concerne un tema comune a tutte le sue opere (l’innocenza e la discesa nella consapevolezza), un altro è che si direbbe particolarmente adatta a seguire il suo percorso intellettuale, oltre che, naturalmente, la sua vita in quanto uomo. Ma c’è un modo ulteriore, ed è che John Barth ricapitola in sé la letteratura postmoderna, la riproduce sulla scala di un’esistenza e di una bibliografia, e non solo le sue opere maggiori ma perfino alcuni dei racconti contengono e ripercorrono tutta la sua letteratura che sembra poter contenere e ripercorrere la letteratura postmoderna – forse è così anche per alcune frasi che ha scritto e per alcuni giorni che ha vissuto.
Sottomettere John Barth a questo sguardo, a volte anche costringerlo in questo sguardo, ne farà dunque l’ologramma di un’epoca, e se è così e si decide che lo sia, allora potrebbe essere un inizio plausibile come altri, un tratto o un dettaglio come altri su cui soffermarsi per ingrandirlo, anche un giorno qualsiasi di John Barth uguale a tanti negli anni che vanno tra il 1949 e il 1953, tra il suo ingresso alla Johns Hopkins University quando aveva diciannove anni e il suo diploma universitario, un MA in lettere pochi mesi prima che sua moglie desse alla luce il loro terzo figlio. Ciascuno di quei giorni all’università, di solito, si divideva in due parti. Al mattino Barth seguiva sia le lezioni tradizionali improntate soprattutto su filosofia e storia della letteratura, in cui avrebbe ripercorso il canone della cultura occidentale fino al modernismo e a Kafka, Joyce e Musil, sia poi un corso sperimentale ambiziosamente definito «Writing, Speech and Drama», in cui si scoprì a studiare elementari tecniche giornalistiche, qualche rudimento di scrittura non narrativa e nozioni di retorica. Nel pomeriggio, invece, integrava le sue borse di studio lavorando nella biblioteca della facoltà, e lì, a volte, quando veniva mandato a rimettere a posto un carrello di libri consultati, gli era tacitamente consentito perdersi per ore e ore in quello speciale labirinto infinito che era per lui il William F. Albright’s Classics and Oriental Seminary, la vastissima ala dedicata ai grandi cicli del passato, testi indiani, latini, inglesi o persiani, avrebbe chiamato anni dopo quegli scaffali sterminati dove scorrevano a perdita d’occhio il e il , le remote favole di Bidpai e il , le parabole di Sindbad il marinaio accanto a quelle di Syntpas il filosofo, Chaucer, l’ di Margherita d’Angoulême e i dieci volumi incalcolabili del nell’edizione Penzer del 1924 rilegata in una copertina verde mare, nei quali si riportava il resoconto del poeta Somadeva di come re Satavahana fosse giunto a parafrasare il poema scritto dal suo ministro Gunadhya che raccontava la versione del semidio Kanabhuti della Grande Storia del semidio Pushpadanta detta per la prima volta dal dio Shiva alla sua consorte Parvati – e più di tutti questi volumi, però, le vorticose pagine di Sheherazade nelle molte traduzioni delle . Non solo da allora, ma guardando nella sua infanzia si potrebbe dire da sempre, sovrintesero alla formazione e al talento di John Barth queste due diverse Muse, la Musa del Mito e quella del Modernismo, come lui stesso ama definirle, e quasi non è eccessivo disegnare il contorno e la traiettoria di tutta la sua letteratura e anche di una parte importante della letteratura postmoderna come il tentativo e la tensione di immaginare pagine abbastanza vaste da accogliere l’una e l’altra Musa, il piacere faustiano della sperimentazione e quello primordiale della favola, l’avanguardia e l’icona: o anche, nelle parole prestate a Barth da un racconto di Borges, la moderna algebra e un fuoco antico, .
Di certo John Barth si adoperò da subito per propiziare questa complicata convivenza: la sua tesi di laurea tuttora inedita rimaneggiava volonterosamente il mito di Nesso, mentre il , iniziato nel suo primo anno di insegnamento alla Penn State University e abbandonato di lì a poco, progettava un ciclo di novelle sulla regione del Maryland dove Barth era nato e cresciuto. Entrambi questi insuccessi e la casuale lettura di un autore brasiliano dell’Ottocento generarono quasi di colpo, in tre mesi concitati all’inizio del 1955, . Le intenzioni iniziali, pare, prevedevano la stesura di una lunga ballata triste recitata da un menestrello nero sul palco di uno di quei barconi – – ma è probabile che John Barth avesse appreso da quei due insuccessi la difficoltà di convocare per ora entrambe le Muse come voleva, e dall’esempio impeccabile di Joaquim Machado de Assis una momentanea soluzione. Questa soluzione comprendeva una trama che forse, se confrontata col resto della produzione di Barth, potrebbe anche essere giudicata di stampo realista, ma che in effetti viene piacevolmente confutata da divagazioni metanarrative e generose digressioni di storie dentro la storia. Ecco dunque la trama, che non è difficile riassumere in un modo che ospita anche quella del di Machado de Assis: un avvocato di mezza età, che è anche il narratore, viene coinvolto in una relazione adulterina con la moglie di un amico; la donna resta incinta e ha una figlia ma non sa decidere chi sia il padre; l’avvocato prende poi in considerazione il suicidio, descrive accuratamente il giorno in cui intende commetterlo e la notte va a teatro, dove viene turbato dalla vista della bambina. Entrambi gli autori paragonano la vita a un’opera lirica, sia pur in metafore completamente diverse. Tutto questo non impedisce che i due romanzi differiscano tra loro molto più di quanto si ripetono, e che sia da ritenere più sottile e importante un’altra somiglianza, attraverso cui risalire all’origine occidentale di questa letteratura. La somiglianza è che Todd Andrews e Don Casmurro sentono entrambi per ragioni differenti la vicinanza della morte, ed entrambi – come il Tristram Shandy di Laurence Sterne da cui discendono – raccontano la loro vita come se la vita non potesse finire sino a quando non ne finisce il racconto. Negano qualcosa che Todd Andrews – Todd che in tedesco ha il suono della parola – chiama una volta , la consistenza concreta e inappellabile di ciò che accade: mostrano che la narrazione è artificio e che quindi dev’esserlo ( esserlo) anche la realtà che viene narrata e di cui quella narrazione un fatto. Sussiste da sempre un legame strano e intimissimo tra l’arte di narrare smascherando (e moltiplicando) la narrazione e l’illusione di vivere potendo rimandare la morte – ogni storia è un modo di andare verso la fine rimandando la fine, ha detto John Barth. Non è inopportuno ripetere qui il nome tutelare di Sheherazade.
Si concludeva intanto insieme a quell’anno, il 1955, anche la breve e non appassionata relazione di John Barth con il realismo narrativo. Di nuovo in tre mesi, tra ottobre e dicembre, Barth scrisse , ed è lecito pensarlo come un congedo privo di rimpianti, se non già insofferente. Nessuno ha mancato di notare che il plot di questo romanzo duplica con sospetta fedeltà quello del precedente: un improbabile in cui il protagonista e narratore è l’amante della moglie di un suo amico, dopo che l’amico stesso è parso suggerire o non contrastare il tradimento; anche questa volta la donna resta incinta e non sa decidere il padre. Queste affinità sono innegabili, e non diminuiscono il romanzo. A John Barth piacerebbe probabilmente ricordare ora la sua essenziale vocazione jazz di arrangiatore, l’estate del 1947 alla Juilliard School of Music prima di rendersi conto che non sarebbe mai diventato un grande trombettista, e l’idea che gli lasciò quell’estate che in arte il tema è semmai solo un punto di partenza, come la linea melodica in una buona suonata jazz. esegue in tono meno barocco e più tragico, con un tentativo riluttante di asciuttezza e verità. Decreta la sfiducia di John Barth nelle sue possibilità di essere un romanziere realista, se non anche nelle possibilità del romanzo realista di aderire alla realtà. Ci sono molti segni di questo, come di un sentimento di reciproca inadeguatezza che circola nel libro. Di certi dialoghi si ammette per esempio che sono stati tagliati, o riassunti, che non valeva la pena e sarebbe stato noioso riportarli così come andavano riportati. : è una seccatura, un fastidio. A volte è anche molto peggio di questo: compare alla fine del romanzo la prima e unica vera – o piuttosto, verosimile – descrizione di una morte violenta in John Barth, e lo stile scabro cui di colpo si piega la sua...




