Becchetti | Capire l'economia in sette passi. Persone, mercati e benessere | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Becchetti Capire l'economia in sette passi. Persone, mercati e benessere


1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7521-757-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

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ISBN: 978-88-7521-757-0
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L'economia, «scienza estremamente complessa e assolutamente inesatta», detta le regole di un gioco che ci coinvolge quotidianamente e in cui il rischio è altissimo, riguardando non solo il benessere delle nostre tasche ma gran parte della felicità di noi tutti e, a lungo termine, la sopravvivenza stessa della nostra specie su un pianeta sempre più esausto. Capire l'economia in sette passi accompagna il lettore in un mondo affascinante, complesso e sinora riservato a una casta chiusa di specialisti, illustrando i principi che sono alla base dell'infrastruttura sociale del nostro sistema, quell'intreccio di persone e mercati che raramente si palesa agli occhi dei comuni cittadini. Leonardo Becchetti, con sentimento e straordinaria chiarezza, ci indica il percorso e gli strumenti per orientare le nostre scelte, ricordandoci quanto l'economia serva a preservare e promuovere valori fondamentali come libertà, giustizia ed equità.

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1. IL CIRCUITO DI BASE DELL’ECONOMIA.
UN INTRECCIO DI PERSONE E DI MERCATI


L’esplorazione del pianeta economia non può che partire dal «circuito del reddito». Se guardiamo a come e dove il denaro circola, ci accorgiamo che l’economia non è altro che una serie di mercati (dei beni/servizi e del lavoro prima di tutto) dove «famiglie» e «imprese» interagiscono con ruoli diversi. Le famiglie (o gli individui o i nuclei familiari) domandano beni o servizi come consumatrici nei mercati dei beni (la domanda di beni) e offrono le proprie prestazioni professionali sul mercato del lavoro (l’offerta di lavoro). Le imprese vendono beni o servizi sul mercato dei beni o servizi (l’offerta di beni) e scelgono le combinazioni di fattori produttivi domandando lavoro sul mercato del lavoro (la domanda di lavoro).

L’economia è essenzialmente e primariamente un intreccio di persone e mercati.

Su questi ingranaggi di base si innestano meccanismi e attori più complessi. Come ad esempio lo Stato, che raccoglie risorse con le tasse ed eroga con la sua spesa beni e servizi pubblici che il settore privato non è in grado di fornire. Come le diverse istituzioni a esso collegate, che creano la moneta necessaria a «oliare» gli scambi e definiscono alcune fondamentali regole del gioco.

Già qui gli economisti di vecchio stampo peccano di insostenibile leggerezza e si rendono colpevoli di un primo difetto riduzionista ignorando gli effetti ambientali della produzione nel circuito del reddito che si insegna tradizionalmente nei libri di primo anno. Lo schema classico del circuito del reddito nasceva in un’epoca in cui i problemi ambientali erano lontani e il vincolo delle risorse ambientali sembrava inesistente. E infatti è come se in questo circuito tutta la pesantezza degli scambi di merci evaporasse, si volatilizzasse nei vari passaggi non lasciando nessuna «scoria». Purtroppo non è così, perché il consumo genera rifiuti, e il processo produttivo dà origine a scorie e residui. Rifiuti e scorie vanno smaltiti, e danno luogo a loro volta a nuovi settori e circuiti economici oggi sempre più importanti. Accanto alle transazioni monetarie e agli scambi di mercato esiste pertanto una contabilità delle risorse ambientali che non può e non deve essere trascurata.

I mercati, elemento fondamentale di quest’intreccio, sono come sappiamo oggetto di dispute ideologiche appassionate tra sostenitori e detrattori. Essenzialmente essi sono un meccanismo quasi provvidenziale che automaticamente incrocia i gusti dei consumatori con la disponibilità/scarsità dei beni e le possibilità offerte dalla frontiera delle tecnologie produttive originando, attraverso l’incontro della domanda e dell’offerta, quei prezzi di mercato che sintetizzano il valore (appunto di scambio) dei beni. Tutto questo avviene attraverso un meccanismo decentralizzato, senza che alcuna autorità centrale debba fare l’immane fatica di raccogliere ed elaborare la domanda dei consumatori e le decisioni di produzione dell’offerta decidendo poi quanto e cosa ciascuno deve produrre. Tutte le volte in cui si è tentato di sostituire il mercato con la pianificazione i risultati sono stati miseri perché nessun pianificatore ha l’onniscienza necessaria per organizzare un processo del genere sostituendosi alle dinamiche spontanee di domanda e offerta e ai loro effetti sui prezzi. Semplicemente, osservando un prezzo che sale sappiamo che c’è dietro una scarsità di offerta o un aumento di domanda e le forze di mercato si adattano ai segnali inviati dai prezzi modificando le loro scelte di domanda e offerta fino ad arrivare all’equilibrio.

I mercati hanno molti pregi ma altrettanti difetti che vengono al pettine quando qualcuno semplicisticamente ci vuol far credere che bastino da soli a condurci verso il traguardo del bene comune.

Il pregio principale dei mercati è quello di produrre la mutua soddisfazione dello scambio. Se due persone decidono di effettuare una transazione sul mercato (o se per esempio due squadre di calcio si scambiano calciatori) vuol dire che quello scambio sta migliorando (o almeno non peggiorando) la situazione di entrambe le persone o le squadre. Questo stesso pregio può diventare un difetto in alcuni scambi che ci appaiono come iniqui e di cui in un certo senso accusiamo il mercato. Una persona molto povera può decidere di vendersi un rene per migliorare la sua condizione economica. O una/un minorenne in un paese tropicale può vendere il suo corpo a un ricco turista straniero. In queste transazioni c’è qualcosa che ci indigna quand’anche il principio della mutua soddisfazione nello scambio venisse rispettato nelle volontà delle controparti che ipotizziamo, per semplicità, perfettamente libere nelle loro decisioni. Il motivo è che il mercato nulla fa per migliorare l’enorme diseguaglianza delle condizioni di partenza che può dar luogo a quest’ultimo tipo di scambi «iniqui». Abbiamo dunque individuato uno dei maggiori limiti del mercato (per il quale esso necessita di correttivi e integrazioni): l’incapacità di risolvere i problemi distributivi di partenza (le differenze di dotazioni di ricchezza) con le quali due individui arrivano alla transazione. Ancora dal lato dei pregi il mercato ha però una straordinaria capacità di soddisfare i desideri della «maggioranza pagante». Ma questo, oltre che un pregio (se mi domando perché alla stazione o all’aeroporto non c’è un buon gelato o una buona pizza, e se siamo in tanti a domandarcelo e a desiderarlo, e il mercato è libero, probabilmente il gelato e la pizza di qualità arriveranno), è anche allo stesso tempo un difetto, perché per poterne godere bisogna appunto essere maggioranza e paganti (inutile aspettarsi che il mercato risolva il problema dei vaccini per le malattie rare, o ti aiuti a trovare quella pellicola del cinema russo d’avanguardia di cui sei uno dei pochissimi estimatori).

Un altro difetto del mercato dipende in realtà dalla nostra incapacità di distinguere tra il prezzo di scambio e il valore intrinseco di un bene o di un servizio. Il prezzo di mercato, come sappiamo, dipende dalla combinazione di gusti/domanda dei consumatori e scarsità/progresso tecnologico/offerta dei produttori/offerenti. Un bene/servizio può costare moltissimo perché la domanda è enorme e la disponibilità relativamente limitata. Ma questo non vuol dire che quello stesso bene/servizio abbia effettivamente tutto quel «valore» in base alla nostra scala di giudizio morale o sociale. In questo caso il difetto del mercato è in realtà quello dell’afasia della nostra cultura, che non riesce per un determinato bene o servizio ad affiancare al prezzo di scambio di mercato un «valore» moralmente o socialmente condiviso. Per fare un esempio, il «salario» di una velina di successo può essere (ed è) enormemente più elevato di quello di un’insegnante elementare, ma questo non vuol dire che la professione della prima «vale» enormemente di più rispetto a quella della seconda (anzi...). Per citare un altro caso famoso e abnorme, il mercato premiava l’amministratore delegato di Lehman Brothers l’anno prima del suo fallimento con una remunerazione lorda che un insegnante di scuola avrebbe potuto accumulare ad oggi solo iniziando a lavorare dall’epoca dei Sumeri. Ma questo divario di reddito non ci dice nulla della differenza di valore tra i due professionisti e del loro effettivo contributo al benessere sociale (anzi...).

Il modo in cui il mercato riesce ad accomodare i desideri delle due parti nell’espressione sintetica di un prezzo di equilibrio, senza alcun intervento formale di un banditore o di un’autorità che raccolga e cerchi di mettere insieme i gusti dei consumatori e le possibilità di produzione dal lato dell’offerta, ha del miracoloso. Il rovescio della medaglia è che quando tentiamo di intervenire in questi meccanismi fissando dei prezzi «amministrati» o «politici» – quando in sostanza vogliamo essere noi a decidere il prezzo al posto del mercato – il mercato «si vendica» creandoci una serie di problemi.

Per dirne una, se decidiamo che un certo bene o servizio (la sanità ad esempio, o in passato le derrate alimentari di base in certi regimi politici) è di importanza primaria e il prezzo deve essere minore di quello stabilito dal mercato per garantire accessibilità a tutti, il mercato «si vendica» e ne riduce l’accessibilità. Prezzi molto bassi infatti creano un aumento della domanda e una riduzione dell’offerta, producendo eccessi di domanda. Gli eccessi di domanda in concreto si trasformano in file per acquistare (se la domanda è maggiore dell’offerta non tutti saranno soddisfatti ed è meglio dunque cercare di essere tra i primi della fila per sperare di trovare qualcosa) e in scaffali semivuoti (quelli che trova chi si è messo in fila troppo tardi). Non è un caso che quando scegliamo la sanità pubblica troviamo prezzi bassi (al netto di ticket oggi sempre più elevati) ma dobbiamo prendere il numeretto (o un disco telefonico ci avvisa che la nostra operazione è fissata di qui a tre anni). Quando invece ci rivolgiamo alla sanità privata le analisi si possono fare e ritirare nel minor tempo possibile (ovviamente pagando di più). Come si risolve il dilemma? Meglio il prezzo politico e doversi sorbire la fila rischiando di trovare lo «scaffale vuoto», o meglio evitare che il mercato si vendichi e quindi non fissare prezzi «politici» col rischio però di non rendere più accessibili ai meno abbienti prestazioni fondamentali? La soluzione pragmatica di tutti i sistemi sanitari nazionali è un un mix di pubblico e privato (con il tentativo di usare la tecnologia, ad esempio nella gestione delle file, per ridurre al massimo il costo dell’attesa nel pubblico)...



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