Fredduzzi | La venere di TaSkent | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 180 Seiten

Reihe: Intrecci

Fredduzzi La venere di TaSkent


1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-6243-388-4
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 180 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-388-4
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Unione Sovietica, 1967. Una telefonata alle prime ore del mattino sveglia il commissario Kovalenko: il corpo senza vita di una giovane donna è stato ritrovato sotto un cumulo di neve. La vittima è Anastasija Timokina, affascinante e ambiziosa attrice uzbeka trasferitasi a Mosca per fare carriera. Le indagini si concentrano subito su alcuni personaggi che ruotano intorno al Teatro Taganka, in cui la ragazza si esibiva. Il direttore, Valerij Lebedev, sospettato di dissidenza dal regime, è da tempo tenuto sotto controllo dagli organi preposti; lo scontroso amministratore Platon Sobolev svolge irreprensibile il proprio lavoro; il critico Volodja Miller non sembra condurre la vita del tipico intellettuale. Tutti e tre hanno avuto una relazione con Anastasija, e tutti e tre hanno qualcosa da nascondere. Al commissario Kovalenko spetta il compito di ricostruire la verità, cercando di orientarsi tra quinte, fondali, maschere e false identità.

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1


All’interno dell’appartamento 279, al ventiquattresimo piano del grattacielo che sorgeva alla confluenza dei fiumi Moscova e Jauza, Aleksej Lebedev saltellava alla ricerca dei peluche che avrebbe portato con sé.

Il padre Valerij gli aveva promesso che nel pomeriggio sarebbero andati al Detskij Mir, il più grande negozio di giocattoli di Mosca.

“Grande quanto?”

“Grande così” gli aveva detto il padre, allargando le braccia in modo teatrale.

Alle quattro del pomeriggio la porta di casa si è aperta e Aleksej è corso ad abbracciare il padre. Si è aggrappato prima a una gamba dell’uomo e poi lo ha guardato dritto negli occhi: “Mi prendi in braccio?”

Durante il decollo, il bambino ha percepito l’odore del dopobarba e la pelle ruvida e profumata del padre. È rimasto in orbita in salotto per un tempo indefinito, che gli ha permesso di scorrazzare per la Via Lattea, toccare il Sole e infilarsi tra gli anelli di Saturno.

Dieci minuti dopo, un messaggio radio lo ha fatto atterrare sul tappeto del soggiorno, tra il frastuono dei retrorazzi e l’acclamazione della folla. L’astro nascente della cosmonautica sovietica era tornato a casa sano e salvo, da un viaggio interstellare. Agli ordini dell’ufficiale di grado superiore, Aleksej ha quindi indossato alla svelta la sua giacca spaziale e, mentre ascoltava la nonna impartire le ultime disposizioni di buon comportamento, si è infilato una manciata di soldatini nelle tasche e correndo è uscito di casa.

Non appena si è spalancato il portone principale, ha dato la mano al padre e insieme hanno attraversato il cortile antistante, un boschetto di aiuole e pioppi, in direzione del parcheggio. A questo punto, Valerij Lebedev è salito sull’auto messa a disposizione dall’Unione degli scrittori e alla sua destra si è seduto il piccolo Aleksej, in qualità di comandante delle musiche e copilota. Durante il tragitto, il bambino si è divertito ad aprire e chiudere il cassetto portaoggetti, ad alzare e abbassare il finestrino, a ruotare il parasole:

“Papà, superiamo quella macchina!”

“Quella bianca?”

“Sì, quella lì.”

Valerij Lebedev ha acceso la radio, sintonizzandola sulle frequenze di “Incontro con la canzone” di Viktor Tatarskij. Ma dopo aver ascoltato la trasmissione per qualche minuto, Aleksej ha scosso la testa:

“Papà non mi piace, possiamo cambiare?”

“Va bene. Ora attento Aleksej: metti la terza. Sposta la leva del cambio in avanti.”

“Così?”

“Bene. Tra qualche mese saprai guidare.”

L’auto, diretta verso il centro, ha attraversato la Moscova e ha svoltato a destra, poco prima delle mura del Cremlino. Quindi padre e figlio hanno parcheggiato dietro ulica Kirova e si sono diretti a piedi verso il negozio di giocattoli. Non appena usciti dall’auto, Aleksej ha iniziato a trascinare a forza il padre. Voleva superare tutti: gli altri bambini con i genitori, gli anziani che facevano un centimetro all’ora e le mamme con le carrozzine. Doveva arrivare per primo.

“È lontano il negozio?” ha chiesto con impazienza al padre.

“No, è a cento metri.”

“Andiamo papà. Perché siamo così lenti? E se chiude e non ci fanno entrare?”

“Non chiude.”

“E se gli altri bambini finiscono tutti i giocattoli?”

“Impossibile.”

Ogni domanda è svanita davanti alle imponenti vetrine del Detskij Mir. Un leone ruggiva fiero su un ripiano in alto a destra, un gruppo di biciclette fiammanti era pronto a partire, un aeroplano volava sorretto da un filo trasparente, su un cielo di sfondo.

“Ma qui ci sono mille milioni di giocattoli!”

E poi scimmie, automobili, trenini, palloni, completi per la scuola, zebre, elefanti, e una giostra vera, che si intravedeva da fuori e campeggiava al centro del salone.

Aleksej si è lanciato dentro al negozio, ha guardato estasiato i modellini di treni e aerei in esposizione dentro le teche di vetro e metallo e ha alzato la testa fino al soffitto, per capire dove finiva il collo di una giraffa di legno. Dopo un giro di perlustrazione, ha scelto quello che desiderava da molto tempo, il peluche gigante di Ceburaška. L’orsetto dalle grandi orecchie che in altezza pareggiava Aleksej e che il bambino ha proclamato suo migliore amico, non appena uscito dal negozio.

Nel tardo pomeriggio Valerij Lebedev ha riaccompagnato il figlio a casa e alle sei e mezza circa è arrivato al Teatro Taganka. È entrato prima in biglietteria a salutare le due signore, che hanno risposto con un cenno dall’altra parte del vetro. Poi, nel foyer del teatro, ha scambiato qualche parola con le persone che ha incrociato. È entrato in sala ed è sceso nel sottopalco per parlare con Nikita Abramovic, lo scenografo. Lo spettacolo è iniziato, come di consueto, alle diciannove in punto.

In un silenzio turbato solo dal ticchettio della macchina da scrivere, una farfalla si posò sul lampadario sospeso sopra la scrivania del commissario Kovalenko.

Nel suo inappuntabile completo grigio, Valerij Lebedev taceva in attesa di un’indicazione e intanto indugiava con lo sguardo sulla mappa della città, appesa alla parete di fronte.

Kovalenko scambiò un cenno d’intesa con Zajcev.

“Le chiedo di riferirmi la serata di ieri, cercando di non tralasciare nessun dettaglio riguardo ad Anastasija Timokina.”

“Va bene, commissario. Come le dicevo sono arrivato in teatro attorno alle sei e mezza. Dopo aver fatto un giro in biglietteria e nel sottopalco, sono passato a salutare gli attori nei loro camerini. Di solito non si parla molto. Anastasija, come tutti gli altri, era nel suo camerino a prepararsi.”

“A che ora è andato a salutare gli attori?”

“Diciamo alle sette meno dieci. Alle sette lo spettacolo è andato in scena regolarmente e si è concluso intorno alle otto e quaranta. C’era anche lei sul palco, naturalmente: ci sono centinaia di testimoni. Ho incrociato a fine spettacolo tutti gli attori dietro le quinte, e Anastasija era lì. Mentre loro tornavano verso i camerini io sono andato verso il palco, nella direzione opposta. È una cosa che faccio sempre: dietro il sipario ascolto i commenti degli ultimi spettatori che si attardano a lasciare la sala. A volte riesco a carpire solo frammenti di conversazione, qualche apprezzamento per un attore o una scena.”

Lebedev si passò una mano sulla cravatta per farla aderire perfettamente alla camicia bianca. Il commissario di tanto in tanto beveva un sorso di birra.

“E poi che cosa ha fatto?”

“Mi hanno chiamato dal caffè del teatro per un’intervista. Volodja Miller, il critico della “Literaturnaja Gazeta”, mi aspettava lì. Abbiamo fatto quattro chiacchiere davanti a un calice di vino e a un piatto di crostini con burro e acciughe. Era interessato ad alcuni aspetti della regia e alla riduzione del testo originale, che avevo curato io. Intanto gli attori ricevevano messaggi d’auguri e fiori nei camerini, lo spettacolo si era chiuso tra gli applausi. Dopo quella breve intervista, saranno state le nove e tre quarti, sono andato con l’amministratore, il signor Sobolev, in biglietteria. Abbiamo ritirato l’incasso e l’abbiamo chiuso in cassaforte, nel mio ufficio. Sobolev avrebbe aggiornato i conti l’indomani. A fine serata ci siamo ritrovati tutti insieme al caffè del teatro per il brindisi finale: e anche lì Anastasija c’era.”

“A che ora vi siete incontrati per brindare?”

Kovalenko concluse la domanda soffiando in alto una nuvola di fumo. La punta incandescente di una Novost’ spiccò nella penombra dell’ufficio.

“Alle dieci, più o meno. Eravamo tutti lì e siamo rimasti insieme per una ventina di minuti: è stata l’ultima volta che l’ho vista. Dopo sono uscito dal Taganka per tornare a casa.”

“A che ora è arrivato?”

“Intorno alle undici” rispose Lebedev.

“Sono meno di due chilometri.”

“Sono tornato a piedi, commissario. Ogni tanto lascio l’auto a casa e mi godo Mosca. Sono passato davanti al cinema Illusion, che è all’interno del complesso residenziale in cui abito. L’inserviente stava chiudendo e mi ha salutato. Se non sbaglio si chiama Viktor. Lo conosco di vista, ci vado spesso... Poi sono entrato nell’androne, ho superato la signora Ostapišina, che si era addormentata con le mani posate in grembo: reggeva ancora i ferri con cui stava facendo un maglione per il figlio. Sono salito al ventiquattresimo piano e ho aperto la porta del mio appartamento, cercando di fare meno rumore possibile.”

“È andato subito a dormire?”

“Non subito. Prima sono andato nella camera di mio figlio Aleksej. Il lettino era vuoto. Allora ho aperto leggermente la porta della camera della nonna. Erano abbracciati, la lampada in corridoio proiettava un cono di luce sulle lenzuola. Ho richiuso subito la porta e ho continuato a girellare per casa, senza far rumore. Soffro d’insonnia. Da sempre. Comunque avevo ancora in corpo l’adrenalina per lo spettacolo. Sono andato a bere dell’acqua in cucina e poi nel mio studio a leggere. Cercavo nuove idee, come faccio sempre. Per certi versi la considero una forma di malattia. Ho ascoltato della musica classica a basso volume: Šostakovic.”

Si passò una mano tra i capelli, fece una pausa e riprese il discorso.

“Devo essermi addormentato per un po’, perché ricordo che ho aperto gli occhi e non riuscivo a mettere a fuoco i titoli nella libreria, avevo la bocca impastata. Mi sono accorto che il disco girava ancora,...



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