Macdonald | Il falco | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 296 Seiten

Reihe: animalìa

Macdonald Il falco


1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-7452-678-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 296 Seiten

Reihe: animalìa

ISBN: 978-88-7452-678-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Fulmineo, magnetico e aristocratico, il falco è dotato di indubbio fascino sugli esseri umani. Helen Macdonald, autrice di Io e Mabel, avvincente racconto del suo rapporto con un astore, ne traccia con appassionata competenza un ritratto a tutto tondo, dove alle caratteristiche biologiche, naturali ed etologiche di questo abilissimo predatore si sovrappongono le pratiche storiche che incrociano il suo mondo con quello degli uomini, nonché la densa serie di significati culturali, mitologici e simbolici che gli sono stati attribuiti, passando dallo sciamanesimo alla falconeria, dalle leggende alle arti e alla tecnica militare. Eppure, suggerisce Macdonald, nulla sembra esaurire la potenza del falco vivo e reale, che resiste irriducibile a ogni appropriazione umana.

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Prefazione all’edizione 2016


Per leggere questo libro, che ha una vita sua propria, non è necessario aver letto prima Io e Mabel1; se però lo avete fatto, in queste pagine incontrerete richiami familiari. L’uomo che in una foto ha un girifalco bianco al pugno è Erin, l’amico carissimo con cui, l’anno in cui morí mio padre, bruciai un albero di Natale su un prato innevato del Maine. E vi imbatterete in altre cose di cui avete già sentito parlare, solo che qui scendo piú nei dettagli: penso a J.A. Baker, a T.H. White, ai falchi dei nazisti e alla scena d’apertura del film Un racconto di Canterbury. Un libro come Il falco entra dritto nella millenaria storia culturale della falconeria e degli uccelli predatori, e insieme si sofferma sull’anatomia, la fisiologia, le strategie di caccia, la meccanica del volo, e la filosofia e la pratica della conservazione. Nello spirito tuttavia, analogamente a Io e Mabel, racconta di come usiamo la natura a mo’ di specchio. Di come gli incontri con gli animali siano sempre, in certa misura, incontri con noi stessi e con ciò che pensiamo di essere. È la stessa trappola inconscia in cui, pur avendo già scritto questo libro, sono caduta anch’io mentre addestravo la mia astore. Perché è una trappola invisibile e fortissima.

Come è nato Il falco? All’inizio degli anni 2000 stavo scrivendo la mia tesi di dottorato a Cambridge. Non l’ho mai finita: al posto della tesi scrissi questo libro. Una cosa assurda, visto che mi consideravo parecchio dedita al lavoro di ricerca. Amavo il dipartimento della mia università e la mia città; ero felice di poter percorrere ogni mattina strade alberate fino a una delle biblioteche piú belle del mondo e di trascorrere la giornata immersa nell’odore di mandorle e vaniglia della carta invecchiata, circondata da pile di riviste e libri, a controllare fonti e a prendere appunti su testi e articoli, mentre i piccioni scalpicciavano sulle tegole del tetto che sovrastava i tavoli dell’ala nord.

La mia era una tesi in Storia della scienza. Per la precisione, in Storia della storia naturale con focus sulla relazione tra uomo e natura. Ma parlava anche dei confini che tracciamo fra ciò che consideriamo scientifico e ciò che consideriamo non scientifico, confini piú labili di quanto generalmente si creda. Studiare il modo in cui questi nascono e sono presidiati ci dice molto sulla natura della scienza e su come ci accostiamo al sapere e a noi stessi. La mia eterna ossessione per gli uccelli da preda mi aveva spinto ad affrontare tali questioni a partire dai relativi contesti di pertinenza culturale novecenteschi: la conservazione dei rapaci, la falconeria, un interesse dilettantistico per la storia naturale e l’osservazione degli uccelli. Mi sembravano argomenti ideali per un dottorato di ricerca. E lo erano. Solo che io non ero la ricercatrice ideale.

Per scrivere la mia tesi trascorsi diversi mesi negli archivi di storia della falconeria del World Center for Birds of Prey, in Idaho. In quegli archivi si trova di tutto, da lettere manoscritte di epoca medievale a prime edizioni moderne, da giacconi di pelle di foca a un astore appartenuto a Hermann Göring. Piú passavo in rassegna le varie collezioni, assistita con grande gentilezza dal curatore, il colonnello Kent Carnie, piú restavo stregata dal materiale in cui mi imbattevo: i miti, le ossessioni, le schegge atterrate da culture lontane, le missive provenienti da stili di vita perduti, opera di gente vissuta nella soggezione di creature che venerava in modo quasi religioso. Quella parte di me che non era soltanto una studiosa ricercatrice cominciò a dirsi che là dentro c’erano cose straordinarie impossibili da infilare nella mia tesi, fatto che mi addolorava. Ma c’era di piú. Provavo un crescente dispiacere nel rendermi conto che molte delle teorie e dei concetti eleganti e stimolanti incontrati nei miei studi, cose che mi avevano aiutato a capire perché vediamo il mondo naturale come lo vediamo, erano pressoché sconosciute al largo pubblico. E non poteva essere altrimenti, dato che la maggioranza delle persone non ha la possibilità di accedere alle sedi in cui di quelle cose si parla e si scrive. Il che mi sembrò – e mi sembra ancora – terribilmente ingiusto.

Rientrata in Inghilterra, mentre continuavo a rimuginarci sopra, nella caffetteria della biblioteca universitaria incontrai per caso Jonathan Burt, responsabile della collana Reaktion Books dedicata agli animali. Fu lui a propormi di scrivere questo libro. Davanti a un caffè e a un panino, io accettai. E l’ho scritto davvero. L’ho scritto per tutti, non solo per gli storici e i teorici della cultura. L’ho scritto a casa, nelle biblioteche, nei bar e sui treni. Persino mentre ero in vacanza con i miei in Italia, digitando parole su un tavolino traballante e incrostato di sugo di pomodoro in un albergo in riva al lago. Tutti gli aneddoti che mi sono divertita a inserire in questo libro, come i mafiosi di New York che avevano minacciato un falconiere perché il suo falco intralciava le loro gare di piccioni, o i racconti dei piloti di caccia, degli astronauti, e le scaramucce diplomatiche dei primi sovrani moderni… ecco, tutte queste cose nella mia tesi non potevano proprio entrarci, ma qui sí. E intrecciare fatti, aneddoti e immagini per riflettere su vari aspetti della nostra presenza nel mondo attraverso la lente del rapporto che instauriamo con i rapaci, questo era un compito affascinante e del tutto avvincente.

Decisi di concentrarmi sui falchi di alto volo anziché su quelli di basso volo perché, come ho già spiegato in Io e Mabel, erano gli uccelli che amavo di piú e con cui avevo maggiore dimestichezza: predatori aerei calmi e di una bellezza devastante. Non assomigliano molto agli astori, anche se con questi accipitridi nervosi e potenti condividono buona parte della loro storia culturale. Stranamente però, e col senno di poi, dopo l’uscita di questo libro fu proprio l’incontro con un astore a inserirsi nella complicata maglia di casualità che mi condussero fino a Mabel – la mia astore.

Uzbekistan, autunno 2006; alla morte di mio padre mancavano pochi, brevi mesi. Con un gruppo di colleghi ero scesa a bordo di una jeep russa fino alle sponde del fiume Syrdarja, nella provincia di Andijan, dove le acque si insinuavano pigramente nella foresta di pioppi e di tamerici grigie e piumose. Una volta piantate le tende, me ne andai a camminare un po’ nel calore sospeso del sottobosco. Tutto era immobile e silenzioso: solo il ticchettio frusciante delle foglie secche che cadevano. I miei passi scrocchiavano sulla mota incrostata di sale e sul letto di foglie morte che sprizzava cavallette e sinuose lucertole argentee. Dopo circa un chilometro e mezzo sbucai in una radura e sollevai lo sguardo. Sul momento pensai che ci fosse un uomo in piedi su un albero. O cosí mi raccontò per un attimo il cervello. Un uomo in un lungo cappotto, leggermente chino su un fianco. Poi vidi che non era un uomo, ma un astore. Frangenti simili sono molto illuminanti. Prima di allora non avevo mai prestato particolare attenzione all’effettiva somiglianza tra uomo e rapace, da cui devono essere discesi molti dei nessi mitici e mitologici tra le due specie e a cui ho dedicato tanti anni di studio, gli stessi di cui avrei poi scritto qui. Fu come se improvvisamente tutto quello che avevo già scritto sul particolare legame simbolico tra falchi ed esseri umani si fosse colorato di una nuova sfumatura di verità, fatta di cose che non erano libri. Sull’albero c’era un astore, ma io avevo visto un uomo. Curioso, eh? Sarà stato a una trentina di metri di distanza e in controluce appariva cosí scuro che non capivo se fosse girato nella mia direzione o verso il fiume. Testa breve e collo serpentino allungato: guardava me. Sollevai il binocolo con gesti lentissimi, socchiudendo gli occhi contro il sole. Eccolo lí. L’astore. Tutto sommato vedevo abbastanza, i contorni erano nitidi. Nonostante il bagliore, riuscii a scorgere vagamente anche la barratura orizzontale delle pettorali. Era un astore maschio adulto e aveva un aspetto molto diverso da quelli del mio paese. La testa era scurissima, il sopracciglio pallido e vistoso, e la barratura sul petto fitta, niente a che vedere con le striature spaziate degli esemplari europei. Immaginate di ripassare con un grosso pennarello grigio scuro ogni linea orizzontale di un quaderno a righe strette: ecco, cosí si presentava anteriormente l’astore in quella luce abbacinante. E, appollaiato su un ramo spoglio, cercava di decidere che cosa io fossi esattamente, e cosa fare. Lentamente allargò le ali, come se stesse infilandosi il cappotto; poi, senza tanto clamore, quasi con calma, spiccò il volo, lasciando penzolare sotto di sé una lunga zampa dagli artigli rilassati. Rimasi sbalordita dalla sua apertura alare e dalla netta somiglianza con un grosso falco – a parte la coda lunga. Aveva una forma cosí diversa dagli astori delle mie parti. Questo era un esemplare migratore, che prima di essersi stabilito lí doveva aver attraversato pianure e montagne intere.

Soltanto in quell’anno buio trascorso in compagnia di Mabel arrivai a comprendere, anziché semplicemente a sapere in astratto, che usiamo la natura come specchio per i nostri bisogni: e questa è una verità profonda e viscerale. Ma l’avvistamento dell’astore in Uzbekistan segnò l’inizio del mio percorso, il momento in cui cominciai a capire la differenza che passa tra sapere qualcosa a livello intellettuale e sentirla dentro, nelle ossa. Quell’astore migratore e quella breve e fallace visione in cui lo riconobbi come uomo anziché come uccello… ecco, ora mi chiedo se non fu anche lui a spingermi ad attaccarmi proprio a Mabel dopo...



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