Malamud | Prima gli idioti | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 225 Seiten

Malamud Prima gli idioti


1. Auflage 2012
ISBN: 978-88-7521-450-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 225 Seiten

ISBN: 978-88-7521-450-0
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Prima gli idioti, pubblicato originariamente nel 1963, è, dopo Il barile magico, la raccolta che confermò l'eccezionale talento di Bernard Malamud nella forma della short story. Alcuni dei racconti che contiene sono a tutt'oggi considerati fra i suoi capolavori. Un uccello ebreo che parla (in yiddish!) e deve sfuggire alle insidie di un persecutore, una prostituta inutilmente redenta, un professore scampato all'Olocausto che cerca di imparare l'inglese, un bottegaio messo alle strette dall'apertura di un moderno supermercato, una giovane vedova sedotta e abbandonata nella Roma del dopoguerra, un padre in miseria che tenta di racimolare i soldi necessari a mandare il figlio incontro a una sorte migliore in California: in bilico fra realismo amaro e sprazzi di pura surrealtà, i racconti di Malamud sono, in fondo, parabole morali senza tempo che superano la dimensione della letteratura ebrea americana - alla quale pure appartengono - e raccontano il dolore e la speranza di ogni essere umano. Con un saggio inedito dell'autore.

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RIFLESSIONI DI UNO SCRITTORE


ARTE LUNGA, VITA BREVE[1]


Vorrei dire due parole a proposito della mia vita di scrittore. Visto però che non posso certo riproporla per intero, quello che segue sarà più una sorta di diario per sommi capi.

L’inizio fu lento, e forse non fu nemmeno un inizio. Alcuni inizi promettono una partenza che poi può richiedere anni per dimostrarsi tale. Prima che la tua prima parola finisca sulla pagina, o che ti venga la prima idea decente, c’è un aspetto complicato: infrangere il silenzio. C’è chi vomita prima di poter respirare. Non tutti riescono a correre alla porta, quando bussa l’occasione... sempre che la sentano bussare. Non tutti capiscono cosa significa. Semplicemente, non sempre il dono del talento viene concesso in modo gratuito e ben chiaro; c’è anche chi, pur appassionato alla scrittura con tutta l’anima, magari deve passare metà della propria vita a scoprire quale sia l’argomento più adatto per lui.

Io ho cominciato a scrivere da piccolissimo, eppure mi ci sono voluti anni per cominciare a scrivere davvero. C’erano molte cose che mi distraevano. Da bambino raccontavo storie per essere apprezzato e andavo a cercare ispirazione al cinema. Ricordo che mia madre, una domenica di pioggia, mi scaricò di malavoglia in una sala cinematografica per vedere Charlie Chaplin, i cui film comici mi pervadevano l’anima. Dopo essere stato al cinema raccontavo la trama dei film ai compagni di scuola, che mi ascoltavano per un tempo infinito, intanto che li ripercorrevo per filo e per segno. Il piacere, all’inizio, era riraccontare storie impossibili.

A volte esageravo oppure al contrario svilivo una trama, sostituendola con una mia. E sapevo essere un bugiardello di prima classe, che ogni tanto trovava faticoso dire la verità. Una volta mio padre mi disse che ero un imbroglione, facendomi arrabbiare molto perché io ero partito per raccontargli una storia semplice, che poi si era complicata da sola fino a diventare una bugia.

Alle elementari, periodo in cui vivevo uno stato esaltante di scoperta continua, trasformavo i compiti in racconti. Una volta feci sposare il teologo abolizionista Roger Williams del Rhode Island con una ragazza indiana, principalmente perché avevo sviluppato un precoce senso del romantico. A dieci anni, scrissi una storia su una nave perduta nel Mar dei Sargassi. Il vascello compariva in sogno, pronto a intraprendere un lungo viaggio in quei mari dalla calma piatta. Era questa, per cominciare, la natura del mio «dono» da bambino – me n’ero accorto un giorno – e rimase così per molti anni, prima che cominciassi a saperlo usare bene. Per tutta la vita ho lottato per raffinare quel dono, e per scrivere in maniera originale. D’altro canto, una volta che mi aveva indicato e segnalato la via, mi ha continuato a far avanzare anche quando non scrivevo. Per anni quel dono fu una benedizione capace di sanguinare come una ferita. Iniziò così un’epoca di lunga attesa. Avevo sperato di iniziare a scrivere racconti dopo la laurea al City College, durante la Depressione, ma faticavano a prender forma. Le idee le avevo, e mi sembrava di essere pronto per iniziare a lavorarci tutto il tempo necessario. Ma a quell’epoca non avevo mezzi regolari per guadagnarmi da vivere; figlio di poveri (mio padre era un droghiere che guadagnava poco), non sopportavo l’idea di vivere alle spalle di una persona come lui, generosa e altruista. Pensavo però che la scrittura sarebbe venuta da sé, una volta trovato un lavoro continuativo. Mi servivano abiti decenti; sognavo completi di vestiti nuovi. Ogni lavoro che avrei trovato poteva cambiarmi la vita, pensavo, e avrei potuto iniziare a scrivere di giorno o di notte. Eppure, rifiutavo recisamente, per un eccesso di orgoglio, di fare domanda alla Works Progress Administration (il progetto antidisoccupazione del New Deal rooseveltiano). Anni dopo, lo considerai un atto – o meglio un atto mancato – sciocco.

Ho letto di recente la biografia di Kafka scritta da Ernst Pawel, in cui l’autore parla dell’«obiettivo globale [di Kafka]: l’autore va in cerca della propria verità». Verità o meno, mi sembrava che gli anni passassero senza risultati. Di tanto in tanto scrivevo un racconto che nessuno voleva acquistare. Mi definivo scrittore, anche se non avevo un autentico argomento. Di tanto in tanto, però, sedevo a un tavolo e scrivevo, anche se mi ci vollero anni perché i miei scritti mi impressionassero favorevolmente.

A quel punto mi ero iscritto alla Columbia University, per seguire il corso di Lettere, grazie a un prestito statale. Non era impegnativo. Mi continuavo a ripetere che facevo qualcosa di valido: infatti, nessuno che passi giorni e notti a dedicarsi ai grandi classici della letteratura sta sprecando tempo come scrittore, se ha la passione della scrittura. Ma quando pensavo di cominciare a scrivere? La mia risposta era sempre la stessa: una volta trovato un lavoro che mi permettesse di alimentare il mio vizio, soddisfacendo i bisogni permanenti della persona. Mi iscrissi al concorso per diventare insegnante e in seguito lavorai per un anno come tirocinante in un liceo di Brooklyn, a 4 dollari e mezzo al giorno. Mi iscrissi anche, e partecipai, a diversi concorsi statali, compresi quelli per un posto da sportellista o portalettere. È una follia, pensai, oppure sono matto io. In ogni caso mi ripetevo che non importava quale lavoro avrei trovato, a patto che lavorassi per avere il tempo di scrivere. Per tutti quegli anni grami, scrivere era ancora il mio dono e la mia convinzione.

Erano passati quattro anni dalla laurea, ma a soffermarcisi sembravano cinquanta. In ogni caso, nella primavera del 1940 mi offrirono un posto a Washington, come impiegato dell’Anagrafe Federale. Accettai subito, anche se scoprii ben presto che il «lavoro» era una bazzecola. Ogni mattina controllavo minuziosamente le stime sulle statistiche relative ai canali di scolo, i cui dati si riferivano a diverse contee degli Stati Uniti. Anche se non era certo un lavoro entusiasmante, lo svolgevo con diligenza e alla fine dei primi tre mesi venni promosso, con uno stipendio di 1800 dollari l’anno. A quell’epoca, erano «bei soldi». La parte migliore era che avevo iniziato a scrivere seriamente negli orari di lavoro. A nessuno sembrava importare cosa facessi, bastava che i registri mostrassero che avevo svolto un’intera giornata di lavoro; perciò, dopo pranzo, mi mettevo alla scrivania a testa china, e scrivevo racconti.

Una notte, dopo aver faticato invano per ore nel tentativo di dar vita a un racconto, mi misi a sedere sul letto con la finestra aperta e guardai le stelle dopo un temporale. Provai un’ondata di sensazioni, di emozioni provenienti dal cuore, prova di una dedizione alla vita e all’arte così profonda che mi fece salire le lacrime agli occhi. Per la centesima volta mi ripromisi che un giorno sarei diventato uno scrittore davvero bravo. Questo rinnovato entusiasmo, e altri episodi simili, mi tennero vivo nell’arte negli anni prima che riuscissi a realizzare qualcosa. Dovevo averne circa venticinque allora, e aspettavo ancora, a modo mio, che la mia vera vita di scrittore cominciasse. Mi ricordavo dell’affermazione di Kafka, all’incirca alla stessa età: «Dio non vuole che io scriva, ma io devo scrivere».

C’erano altri aspetti da considerare. Il matrimonio, per esempio: dovevo, non dovevo? A volte mi sembrava che i giovani scrittori miei conoscenti fossero troppo preoccupati di evitare il matrimonio, mentre avrebbero potuto usarlo, tra le altre cose, per mettere ordine nella vita e procedere con il lavoro. Mi chiesi se non potevo renderlo un’appendice necessaria della mia scrittura. Ma la vita matrimoniale non era facile: non avrebbe nociuto alla mia carriera se mi fossi avviato in un percorso di cui non potevo essere del tutto sicuro? Chi ha un dono – chi l’ha ricevuto – farebbe bene a proteggerlo da chi sembra non avere uno scopo impellente nella vita. Molte giovani donne che incontravo non avevano un’idea chiara di cosa fare nella vita. Se una donna del genere diventava la moglie di uno scrittore, sarebbe stata in grado, per esempio, di capire cosa succedeva nei suoi pensieri mentre lavorava nel sonno? Avrebbe fatto la sua parte per mandare avanti la famiglia?

Mi ponevo spesso queste domande e altre simili, anche se non sapevo esattamente chi potesse darmi una risposta. E passavo troppo tempo a essere innamorato, come modo scomodo di stare bene quando non scrivevo. Avevo bisogno di una donna da amare e con cui vivere, ma non facevo sforzi immani per trovarla.

Nel frattempo, mi trovai un lavoro in una scuola serale, nel settembre del 1940. Poi completai la tesi di laurea di secondo livello e cominciai a pensare a un romanzo. Fino a quel momento avevo ultimato una dozzina di racconti, alcuni dei quali cominciavano a comparire sulle riviste trimestrali dell’università. Uno di questi, «The Place Is Different Now», fu il precursore del . E il romanzo che avevo iniziato a scrivere mentre insegnavo alla scuola superiore serale Erasmus Hall di Brooklyn si intitolava . Lo terminai ma non riuscii a venderlo. In seguito, una notte nell’Oregon, lo bruciai perché mi sembrava di poter fare di meglio. Mio figlio, che all’epoca aveva quattro anni, mi guardò bruciare il libro. Mentre osservavamo le scintille salire verso l’alto, gli parlavo della morte; ma lui rifiutava l’idea. Diversi anni prima, non molto dopo Pearl Harbor, mentre insegnavo di sera e scrivevo il romanzo, a una festa avevo incontrato una ragazza carina e calorosa. Mi dissero che era di origine italiana, e viveva in un albergo con la...



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