E-Book, Italienisch, 106 Seiten
Mannheimer Una speranza ostinata
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-6783-142-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 106 Seiten
ISBN: 978-88-6783-142-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nel dicembre del 1963 Max Mannheimer deve essere operato alla mascella. L'assistente del medico dimentica per diversi giorni di consegnargli il risultato degli esami e Max si convince di essere condannato. Si rende conto di non avere mai parlato alla figlia delle sue esperienze nei campi di concentramento, «per difendere lei e me stesso». Decide quindi di scrivere le sue memorie. In pochi giorni butta giù il testo, lavorando come un pazzo anche di notte, con la paura di morire prima di terminare il lavoro. Un mese dopo le dimissioni dall'ospedale, consegna alla figlia le pagine, dicendole che dovrà leggerle solo dopo la sua morte. Questo libro, scritto con il piglio di un diario, racconta di un padre ballerino e di una madre colta, l'ascesa del nazismo, lo spirito dei vent'anni e l'amore che rendono fiduciosi anche davanti alle deportazioni, alla crudeltà della vita del campo. L'umanità si corrompe, ma non viene meno, tenuta in vita dalla coscienza di essere uomini. Instancabile, continua a portare le sue memorie nelle scuole: «Il mio corpo è debole, ma i dettagli di quel tempo spaventoso sono incisi nella mia anima». E ai giovani che lo ascoltano ricorda sempre: «Voi non siete responsabili di quello che è successo, ma è compito vostro che non si ripeta mai più». La traduzione è affidata a Claudio Cumani, laureato in fisica all'Università di Trieste e lavora in Germania, all'ESO (European Southern Observatory), l'organizzazione astronomica europea con sede a Garching bei München e i telescopi sulle Ande cilene. Si occupa di politiche per l'integrazione dei migranti e di comunicazione interculturale.
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Ungarisch-Brod, 1941. Ho 21 anni.
Il 27 gennaio 1939 lasciamo la nostra casa di Neutitschein con la speranza di riuscire a costruirci un’esistenza senza paure nella parte ancora libera della Repubblica Cecoslovacca.
Papà nel frattempo aveva trovato un vecchio appartamento di due camere e cucina a Ungarisch-Brod, al numero 165 della Masarykplatz. Non è una sistemazione comoda per sei persone, ma siamo contenti di essere riusciti a scappare. Nel negozio di spezie e sementi di Rudolf Holz inizio nuovamente a lavorare. Alcune settimane più tardi rivivo l’esperienza dell’arrivo delle truppe tedesche.
È la stessa identica scena di quattro mesi prima a Neutitschein. Gli edifici pubblici sono imbandierati con svastiche. Motociclette con e senza sidecar si incolonnano dalla piazza centrale affiancate da auto. La Masarykplatz nella quale viviamo è stata rinominata nella notte Adolf-Hitler-Platz. Solo l’euforia di Neutitschein manca. Ungarisch-Brod ha poche famiglie tedesche. Le truppe forse sono deluse, ma capiscono la differenza: mentre le zone confinarie a maggioranza tedesca si sentivano liberate, la popolazione ceca si sente occupata. Con l’eccezione dei pochi fascistiiii.
Poiché agli ebrei sono ormai consentiti solo lavori manuali, nell’estate del 1939 inizio a lavorare come stradino.
Il primo settembre un’interminabile colonna di mezzi militari si muove sulla «mia» strada – è l’inizio della campagna tedesca contro la Polonia.
1940
Nel vecchio quartiere di Ungarisch-Brod si discute. Nel caffè, a casa, di rado in strada. Nonostante la guerra lampo contro la Polonia si è ottimisti. Un ottimismo senza motivo evidente. Ottimismo di facciata. Gli ebrei non possono uscire di casa tra le 20 e l’alba. Vengono imposte restrizioni agli acquisti: gli ebrei possono andare nei negozi solo tra le 15 e le 17. È vietato loro l’accesso ai giardini pubblici. Ora lavoro come stradino nei pressi del centro termale di Luhatschowitz1. Il mio alloggio durante la settimana è una baracca di legno dietro il capanno per gli attrezzi. Da lì esco per andare al parco del centro termale, incurante dell’obbligo di restare in casa dalle 20 in poi e del divieto di frequentare i giardini. Conto i cartelli con la scritta «Vietato agli ebrei». Ce ne sono sei. Più tardi, verso le 23, li faccio a pezzi tutti e li getto in parte nei cespugli e in parte in un ruscello. La mia audacia non servì a nulla. La sera dopo tutti i cartelli erano di nuovo là. Non trovai il coraggio di fare a pezzi anche quelli. Non sono per nulla un eroe.
Il lavoro da stradino non è poi così male. È un lavoro costruttivo e permette di vedere qualcosa. La strada attraversa un bosco, a soli cinque minuti di distanza c’è un lago artificiale e dopo il lavoro possiamo rinfrescarci. E ci vogliono solo venti minuti per andare a piedi al parco termale. Ignoro i cartelli di divieto semplicemente, con la spensieratezza di un ventenne. I miei colleghi di lavoro, tutti cechi, sono gentili e accoglienti. Mi prendono persino nel loro gruppo di lavoro a cottimo, il che è un grosso riconoscimento. E quando imparo a imprecare per bene sono «uno di loro».
Un giorno passa accanto a noi una Mercedes Cabriolet, dentro vi siedono tre uomini e due donne. L’auto viene dalla mia città natale. In uno dei passeggeri riconosco il figlio del saponaio Piesch, un altro è il figlio di un avvocato. La comitiva ha probabilmente passato il fine settimana alle terme. Seguo l’auto con lo sguardo, fino a che non scompare dietro una curva. Con la pala riempio la carriola e penso: col sudore della tua fronte…2
Il lavoro da stradino da solo non è sufficiente a sostenere la famiglia. Le scorte sono esaurite da tempo. La partenza di molte famiglie ebree da Ungarisch-Brod offre nuove, ulteriori possibilità di guadagno. C’è da trasportare mobili, tagliare legna da ardere.
Mio fratello Edi impara il mestiere di calzolaio da mastro Cingalek. Già a tredici anni nella legnaia si era organizzato un angolo da ciabattino. Karli Langer, di dieci anni, era il suo «apprendista». Faceva visita alle famiglie ebree offrendo loro la riparazione dei tacchi delle scarpe che poi il suo «capo» avrebbe eseguito. I prezzi erano ovviamente inferiori a quelli di Bata, perché non poteva competere con quella ditta di fama mondiale. Nel 1939 il 20 aprile, compleanno di Adolf Hitler, assume per me un significato del tutto diverso da quello che gli attribuiscono i nazisti. Quel giorno incontro il mio primo amore. Viola ha diciotto anni e ne sono molto innamorato. Viene da una famiglia ebreo-ortodossa, ma vive questa rigida educazione come esagerata e antiquata. Ci incontriamo di nascosto in periferia e da lì partiamo per gite con la moto che potevo ancora tenere grazie al mio lavoro da stradino. Per una ragazza proveniente da una famiglia ortodossa è già audace passeggiare con un ragazzo, andarci in moto è addirittura inconcepibile.
Nel 1940 Viola si trasferisce a Praga con i genitori. Quando vado a trovarla, questi mi propongono di emigrare con loro in Palestina. Penso ai miei genitori e ai miei fratelli e decido in favore della mia famiglia. Sono il figlio più grande e devo restare.
Alla fine del 1940 conosco Eva Bock. In vista della partenza per la Palestina, ha appena terminato una Hachshara, un tirocinio in una fattoria. All’inizio stavamo sempre con altri giovani e discutevamo di politica, letteratura, filosofia. Ci interessavamo anche alla psicanalisi. Freud e la sua interpretazione dei sogni ci avevano particolarmente affascinato. Era perlomeno un modo per rimuovere parte delle nostre inibizioni. Pretendevamo di capire tutto e attraverso le massime appena imparate sui libri cercavamo di fare colpo sulle ragazze. A quel tempo c’erano poche altre possibilità per farlo, così ci provavamo in modo intellettuale. E la concorrenza allora era molto forte. Parlare di lavori stradali avrebbe avuto sicuramente meno fascino.
Riesco a fare colpo su Eva. Ci piacciamo e ci vediamo tutti i giorni. Quando fa cattivo tempo vado a casa dei Bock e «insegno» stenografia. Che fortuna che io sappia stenografare.
Il 1941 non porta molto di nuovo per gli ebrei di Ungarisch-Brod. La maggior parte degli uomini sotto i 45 anni vengono obbligati a lavorare. Lavorano nell’edilizia, nelle costruzioni stradali o presso privati come aiutanti. Di tanto in tanto ci sono razzie della Gestapo. Alcuni vengono arrestati e portati nella prigione della Gestapo a Ungarisch-Hradisch3. Da lì finiscono in campo di concentramento.
Poiché da tempo agli ebrei non è più consentito avere apparecchi radio, le ultime notizie delle stazioni straniere vengono riferite loro dai cechi e poi discusse al Caffè Smetana, l’unico punto di incontro ufficiale degli ebrei di Ungarisch-Brod. Tra le altre, ricordo la notizia secondo la quale gli ebrei che passando per Theresienstadt4 erano stati deportati a est dovevano lavorare nelle miniere di zolfo senza indossare le maschere antigas. E questo a poco a poco avrebbe causato il loro avvelenamento.
Theresienstadt, la vecchia città fortezza militare, è il grande centro di raccolta degli ebrei del Protettorato di Boemia e Moravia e della Germaniaiv. Molti restano lì, soprattutto gli anziani, ma per la maggioranza Theresienstadt è un campo di transito, prima della deportazione in uno dei campi di sterminio in Polonia.
All’inizio del 1942 la maggior parte degli ebrei di Ungarisch-Hradisch vengono trasferiti a Ungarisch-Brod. Le case degli ebrei sono sovraffollate, i generi alimentari sempre più scarsi e le notizie che arrivano sul destino dei già deportati terribili.
Ciononostante Eva e io cerchiamo di minimizzare la gravità della situazione. È facile quando si è giovani e ottimisti. Noi siamo innamorati e crediamo nella fortuna. Nonostante la situazione minacciosa facciamo progetti per il futuro. Dopo il lavoro e fino al coprifuoco delle otto ci resta solo un’ora per parlare e sognare insieme. Non vogliamo violare il coprifuoco. I nostri amici Ilse Jellinek, Ernst Schön e Adolf Rosenfeld sono già stati arrestati per questo.
Nel 1942 i trasferimenti dei deportati che passano per il ghetto di Theresienstadt sono in pieno corso. Oggi partono da una città, domani da un’altra. Non c’è via di scampo. Neanche per noi. A Ungarisch-Brod un uomo è in contatto con persone che dietro compenso conducono clandestinamente gli ebrei in Slovacchia. Da lì attraverso l’Ungheria e la Turchia si può forse arrivare in Palestina. Mio fratello Erich gira l’indirizzo di questo intermediario a un giovane di nome Lazarowicz.
Tre giorni dopo, mio fratello viene arrestato. Quindi interrogato, condotto nella prigione della Gestapo a Ungarisch-Hradisch, poi a Brünn. Nel malfamato Collegio Kaunitz – una prigione della Gestapo nella sovrastante fortezza dello Spielberg dove usano metodi di tortura da Medioevo. Rivedremo Erich?
Mia madre piange molto. Noi cerchiamo di consolarla. All’inizio di settembre Eva e io decidiamo di sposarci. Vogliamo restare insieme anche dopo il trasferimento che ci attende. Andiamo dal rabbino e sbrighiamo le formalità. La cerimonia si tiene nei modi propri dei tempi che stiamo vivendo. Pesa soprattutto la mancanza di mio fratello, tanto più che non sappiamo se sia ancora vivo.
Ci trasferiamo in una stanza in subaffitto, più precisamente in una mezza stanza. L’altra metà appartiene al proprietario dell’appartamento ed è separata da un paravento. Nelle nostre fantasie organizziamo un meraviglioso viaggio di nozze che vogliamo fare in un Paese lontano quando la guerra sarà finita. E sogniamo, sogniamo. Non vediamo il pericolo che si avvicina. Non vogliamo...




