Marchesini | Miti personali | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Libri piccoli

Marchesini Miti personali


1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-6243-507-9
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Libri piccoli

ISBN: 978-88-6243-507-9
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Achille insegue Ettore all'infinito, mentre l'eroe troiano si trasforma in una tartaruga. Un Odisseo probabilmente falso torna a Itaca provocando un caso Bruneri-Canella ante litteram. Narciso e Leopardi devono scegliere tra uno stato di minorità perenne, compensato dall'onnipotenza fantastica, e una fuga da casa che insieme alla vita adulta lascia intravedere l'ombra della morte. Ecco alcune delle vicende mitiche e storiche che Marchesini ci propone nei suoi sedici racconti. Negli stampi archetipici l'autore cola la propria personale esperienza del mondo, offrendoci una nitida galleria di stati d'animo, drammi famigliari e conflitti sociali: e così dalla 'Poesia' di Orfeo arriva alla 'Prosa' degli ultimi pezzi, dove dei personaggi comuni, simili a ognuno di noi, rappresentano i miti crudeli della realtà di oggi.

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PESTE


Edipo cresceva vigoroso, scorrazzando per i dintorni di Corinto con ragazzi e ragazze di ogni tipo. I suoi compagni lo guardavano affascinati: quando trascorreva un pomeriggio insieme a loro, era come se potessero diventare vere e vive situazioni che un attimo prima sembravano impensabili. Si dimenticavano che era un figlio di re, perché se ne dimenticava lui per primo. Non dipendeva dal suo rango se nella brigata i più torvi o prepotenti si trasformavano in amici allegri, e se le fanciulle, servette o eredi della migliore aristocrazia, lo accompagnavano rapite tra i cespugli. Edipo non aveva bisogno di umiliare né di possedere nessuno come si possiede una terra. Intorno alla sua figura snella e ricciuta si stendeva un’aura di complicità spontanea, una libertà coraggiosa senza inganni né sopraffazioni. Libero il ragazzo si sentiva anche davanti ai genitori, guide degne di un affetto sciolto dai ricatti più oscuri del sangue, quelli in mezzo ai quali più ci si divincola più ci si lascia legare. In apparenza, non avvertiva il peso futuro del trono. Era come se davanti a lui si allineassero infiniti destini, tutti ugualmente disponibili, e potesse far la spola tra l’uno e l’altro con la velocità con cui correva tra i due golfi separati da una lingua sottilissima di rocce. Nemmeno i fori che gli bucavano i piedi gli parevano un segno vincolante della sorte. Non li nascondeva né li imponeva alla vista altrui per ripicca: li mostrava se capitava, per caso, con una grazia noncurante, e solo se gliela chiedevano ne raccontava l’origine, condendo le spiegazioni dei genitori con un umorismo delizioso. Edipo sapeva far ridere e farsi amare perché sapeva amare e ridere di sé.

Tutto questo cambiò nell’estate dei suoi diciott’anni, dopo un viaggio a Delfi. Al ritorno il principe non parlò con nessuno, chiudendosi in un silenzio cupo. Per la prima volta chi lo incontrava poteva sorprendere nel suo sguardo la paura, che lui provava a celare dietro una fierezza eccessiva e dunque lontana dal portamento naturale di un tempo. Tremava spesso. Un giorno, quando durante un sacrificio Polibo gli passò il coltello, lo lasciò cadere ritraendosi come se avesse visto un mostro. Un altro giorno, quando Peribea lo chiamò sull’orlo di uno strapiombo da cui si godeva un tramonto magnifico, si avvicinò stranamente esitante, e appena lei gli prese una mano nelle sue indietreggiò brusco, come colto da vertigine, tenendo poi a lungo quella mano distante da sé quasi volesse staccarsela.

Dopo questi incidenti scomparve; e da qui inizia una storia che troppi credono di conoscere. Un mattino, a un trivio incassato tra i dirupi della Focide, Edipo litigò con un uomo che gli tagliava la strada col suo carro, e involontariamente lo uccise. Rimase sconvolto, ma per poco. La vastità ancora sgombra del futuro cancellava i rimorsi in fretta. Forse per questo a Tebe, dove giunse seguendo la via su cui aveva abbandonato il vero padre nella polvere, risolse subito l’indovinello della Sfinge che terrorizzava la città: perché non aveva nessuna ansia di farlo; perché confondeva la morte con l’avventura e la volontà col gioco. Così conquistò il regno, e Giocasta. Ma la pestilenza arrivò molto presto. Per scacciarla, gli oracoli suggerirono di cercare l’uccisore ancora impunito di Laio; e tutto venne a galla. Si ricorda Giocasta che alla notizia, mentre il suo marito e figlio fissa ancora imbambolato i messaggeri, sale nella torre della reggia e afferra una corda. Ma si ricorda meno il seguito. Quando vide comparire il re, preceduto sulla scala da grida disumane, la regina lo guardò barcollare, esitò un istante, quindi con risoluzione improvvisa sciolse la corda già annodata al collo e scese dalla sedia. “Edipo” scandì in tono imperioso e neutro. E lo ripeté due, dieci, cento volte, avanzando a passi rapidi ma fermi mentre lui strisciava via, arrancava carponi tra le stanze, bestemmiava gli uomini e gli dèi, sbatteva la fronte nei muri, le tornava vicino, e con le dita aggrappate alla sua veste ne cercava febbrilmente la fibbia per cavarsi gli occhi. “Edipo” mormorò Giocasta al centro della camera nuziale dopo avergli tolto l’ultima arma dalle mani. “Vieni qui Edipo, bambino mio: tu sei ancora il re, e io la regina.”

Si dice che tra i mobili rovesciati sia caduto allora un lunghissimo silenzio. Poi la donna si è avvicinata piano al ragazzo, senza mai staccare le pupille dalle sue; e quando gli ha sfiorato i riccioli fradici, come sotto ipnosi, lui è precipitato in una strana sonnolenza, con la schiuma sulla bocca di chi ha inghiottito un veleno. Le dita di lei sono scese verso la sua nuca e da lì su tutto il suo corpo, regalandogli alternatamente carezze da madre e da amante.

Quando si risveglia, Edipo è nudo nel letto nuziale. Oltre la tenda sente due voci che altercano: una è di Tiresia. “...E a te invece toccherà una cosa sola: tacere” gli risponde Giocasta nello stesso tono neutro e affilato, che fa pensare a un’ascia calata nell’aria di febbraio. Edipo si leva di scatto, respirando forte come se riemergesse da un’apnea. Ma prima che possa parlare lei gli è scivolata alle spalle con un fruscio setoso e gli ha chiuso la bocca con un palmo che profuma dolce di gelsomino e di sangue. “Nessuno a Tebe è superiore a te, né indovini né leggi. E nessuno qui ha colpa” gli sussurra all’orecchio con la cadenza con cui gli ha sussurrato ciò che voleva da lui la prima notte di nozze. “I tuoi occhi sbarrati non vedono più il mondo com’è, vedono solo astrazioni. Tu fissi le parole e non le cose. Chiudili adesso e poi riaprili: io sono sempre io, e tu sei tu. Il resto è un’aria che non si può toccare. Nessuno lo saprà.”

Dietro la tenda, le orbite vuote di Tiresia spariscono col volto nauseato e decrepito. Più tardi a Creonte viene riferito che l’assassino di Laio è stato visto aggirarsi intorno alla rocca: il sacerdote ha tracciato il ritratto di un vagabondo ateniese. Fuori, intanto, la pestilenza miete rioni in un mattino. “Non posso. Non possiamo” biascica Edipo attorcigliato alle coperte, muovendo le braccia e le gambe con la lentezza che si ha in acqua o nei sogni. Ogni pochi minuti scatta su di nuovo, zuppo di sudore. Ma la regina lo asciuga con una pezzuola e gli ferma lo sterno. “L’importante è che noi restiamo noi, bambino mio” gli dice sorridendo. “Molti ancora moriranno, ma qui ci salveremo.” Edipo misura fino in fondo la mostruosità di queste parole: eppure gli entrano dentro come una droga, lo addormentano come una ninna nanna. Ormai le sue membra sono così pesanti che gli sembra impossibile spostarsi da quelle coltri vischiose. A tratti Giocasta si allontana, e appena torna si spoglia, sale dolcemente su di lui e se lo mette dentro, iniziando a muoversi come se lo cullasse. Allora Edipo perde i confini del suo sesso, e ha l’impressione di essere risucchiato tutto intero in quel ventre dai muscoli poderosi e sempre oliati. Solo una sera trova la forza di alzarsi, quando sente le grida dei figlioletti che i servi hanno portato nelle stanze dei genitori: Eteocle e Polinice giocano a duellare, e Antigone strappa a Ismene una bambola per seppellirla sotto un armadio. “Via, portateli via!” ulula il re inciampando per i corridoi. Quella notte stessa, i bambini vengono abbandonati nei boschi di Corinto e in un demo ai confini di Atene.

Nel frattempo, le guardie di Tebe continuano a inseguire un fantasma. Ogni volta che catturano un individuo sospetto e lo conducono davanti a Edipo, il corpo del re ritrova in un lampo l’antica leggerezza, ma mischiata a una ferocia felina da predatore. Interroga i prigionieri, reagisce imprevedibilmente alle loro risposte impaurite, pesta i piedi con stizza, li fa torturare e impiccare ridendo. La sua voce stridula, isterica, stupisce la corte e i comandanti della polizia; non però Giocasta, che annuisce come chi vi coglie una convalescenza. Ma appena sfuma lo scroscio delle catene che trascinano via quei disgraziati, il re torna ad aver paura di qualunque rumore o segnale che raggiunge i piani alti della reggia. Sta in ascolto col respiro mozzo, rannicchiato su un fianco, e pigia la faccia contro il cuscino per non vedere la finestra, la luce, il Citerone che da un lato del palazzo chiude l’accesso al mondo come un muro di terrore, la pianura che dall’altro lato rende vani i viaggi con la sua depressione stepposa. Spesso si aggrappa alle vesti della regina, piange nel suo grembo, la possiede in amplessi che lo lasciano ogni volta disgustato e soddisfatto. Col passare delle settimane gli amplessi si fanno più frequenti, fino a cancellare qualunque altra azione: è dentro Giocasta l’unico luogo immune dal panico. “Staremo qui per sempre e ci staremo bene, vedrai. Nessuno oserà toccarti finché ci sarà tua madre” ripete lei mentre gli scivola via di dosso dopo l’amore.

Ora Edipo ha i capelli bianchi, e un volto da bambino rugoso. Fuori la città è quasi deserta, il puzzo dei cadaveri ammucchiati agli incroci riempie l’aria. Quando la regina gli riposa accanto colma del suo seme, il re schiaccia il mento contro il petto e si osserva i piedi. A volte i buchi gli sembrano più neri del buio, e ci vede un sintomo chiaro della peste. “Aiuto! Muoio!” grida allora in un falsetto un po’ troppo teatrale. “No, no” risponde subito Giocasta, insinuandogli la sua voce incrollabile tra i ricci e una mano tra le gambe. Ma presto non serve più: lui continua a dibattersi come un epilettico. Così una sera lei comprende che c’è ormai un unico modo per calmarlo. Si solleva in ginocchio sul letto nuziale, gli afferra la testa e gli guida la bocca al seno. Da lì in poi tutte le sere, mentre i moribondi gemono sulle barelle alle porte della reggia, Edipo si...



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