E-Book, Italienisch, 301 Seiten
Cook Blue Note Records. La biografia
1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-376-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 301 Seiten
ISBN: 978-88-7521-376-3
Verlag: minimum fax
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Da più di settant'anni la casa discografica Blue Note Records è sinonimo di musica di altissimo livello. Punto di riferimento imprescindibile nel mondo del jazz, si è sempre distinta per essere un vero e proprio laboratorio di idee, basato su un interscambio fecondo e paritario tra il produttore e gli artisti. L'elenco dei musicisti che hanno inciso per l'etichetta newyorkese è, di fatto, il Who's who della storia del jazz: dai pionieri Thelonious Monk, Bud Powell, Art Blakey, Horace Silver, fino ai contemporanei John Scofield, Wynton Marsalis, Dianne Reeves, Joe Lovano e Norah Jones. La «biografia» della Blue Note viene ricostruita per la prima volta in questo volume ormai classico, pubblicato originariamente nel 2001 e finalmente disponibile anche in italiano. Con lo stile asciutto e il rigore documentario che lo hanno consacrato tra i massimi esperti mondiali di musica jazz, Richard Cook ripercorre tutte le fasi di vita dell'etichetta, dalla fondazione nel 1939, al fallimento sul finire degli anni Sessanta, fino alla rinascita negli anni Ottanta. Guidando il lettore tra le session e gli album più celebri, raccontando i retroscena dei rapporti tra la Blue Note e i suoi artisti (ma non trascurando di soffermarsi anche su «curiosità» come le tecniche di registrazione di Rudy Van Gelder o la cover art di Reid Miles), le pagine di Cook ci fanno rivivere l'atmosfera e lo spirito dell'etichetta che per molti, da sempre, rappresenta «the finest in jazz since 1939».
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2.
Molti tra i più importanti documenti della prima ondata del bebop erano già stati registrati quando la Blue Note si accinse a sua volta a documentare quel genere musicale. Le sedute di Charlie Parker per la Dial e per la Savoy, i dischi delle piccole formazioni di Dizzy Gillespie per la RCA e per la Victor e gli esordi discografici di maestri presenti e futuri come Dexter Gordon, Serge Chaloff e Howard McGhee erano stati registrati e pubblicati; l’impatto del nuovo movimento presto divenne chiaro, se non altro a chi teneva d’occhio le case discografiche indipendenti di jazz. Le nuove etichette, quelle che avevano seguito i primi passi di questa musica (parliamo della Savoy e della Manor), avevano imparato da quanto già aveva fatto la Blue Note, ma la musica era molto diversa, e l’antica fedeltà alla hot music era decisamente cambiata. Si potrebbe anche sostenere che i discografici della nuova generazione somigliassero più a uomini d’affari che non ad appassionati, come invece Wolff e Lion avevano sempre voluto essere. Tuttavia, un principio al quale i fondatori della Blue Note non derogarono mai fu quello di cercare musica da registrare conservando la mente aperta.
Stilisticamente, Ike Quebec non aveva forse molto da spartire con i primi bopper, ma, come molti suoi coetanei, si era accorto per forza o per amore che il bebop stava dando alla musica una scossa potente. L’idea che il merito di aver portato il bop all’attenzione della Blue Note sia interamente suo è suggestiva, ma è poco plausibile: chiunque fosse stato dotato dell’orecchio fine di un Lion nel 1947 si sarebbe accorto da un pezzo del fascino del bebop; solo un vero retrogrado avrebbe potuto considerarlo al di là delle proprie competenze (per quanto proprio questa fosse la linea generale seguita dalla Commodore). A quel punto, Dizzy Gillespie era attivo discograficamente da quasi dieci anni. Parker aveva già inciso i suoi tumultuosi capolavori. Non era facile capire chi, fra i bopper, avrebbe potuto avere l’impatto che certamente Lion voleva ottenere con i suoi primi dischi di bop. Ma per fortuna era rimasto sulla scena un personaggio che, pur trovandosi lì fin dall’inizio, non aveva ancora registrato come leader: Thelonious Sphere Monk, pianista, che aveva appena compiuto trent’anni quando fece la sua prima seduta d’incisione per la Blue Note, il 15 ottobre 1947.
Per la verità, non era quello il debutto dell’etichetta nel nuovo genere musicale. Nello stesso anno il cantante (uomo, malgrado il nome) Babs Gonzales aveva registrato due sedute con arrangiamenti di Tadd Dameron, che suonava anche il piano; cantò fra l’altro il classico di Gillespie «Oop-Pop-A-Da». E a settembre Dameron aveva registrato a suo nome con un sestetto che comprendeva il vivace trombettista Fats Navarro, di cui diremo meglio in seguito. Ma fu la seduta di Monk, personalissima, epocale, a cambiare per sempre la Blue Note. I risultati esaltarono Lion a tal punto che nove giorni dopo riportò Monk in studio a registrare altri sei titoli, e lo stesso fece in novembre (quattro titoli).
Oggi la musica di Monk è ammiratissima e prontamente eseguita dai musicisti, e il pianista è considerato abbastanza pacificamente il maggior compositore che il jazz abbia avuto dopo Ellington. Ma nel 1947, e anzi ancora per anni a venire, Monk fu giudicato da molti un eccentrico, quando non un vero spostato o un matto, e questo perfino nell’ambiente poco convenzionale del bebop. Per quanto il suo stile incarnasse diverse innovazioni del bop, ne evitava molti dei tratti linguistici più caratteristici: i tempi vorticosi, la precisione virtuosistica che caratterizzano la maggior parte dei dischi di bop sono clamorosamente assenti da quelli di Monk. Le sue composizioni, contorte ma sempre con una loro logica, danno spesso l’impressione di essere un puzzle le cui tessere vengono dal passato del jazz e dal mondo interiore di Monk, impressione corroborata con abile estemporaneità dai titoli: «Epistrophy», «Let’s Cool One», «Well You Needn’t». Monk costringeva i suoi gruppi a una sorta di swing marziale, baldanzoso, che si guadagnò la sinistra fama di spiazzare i musicisti meno accorti. L’intensità propria di tutti i suoi dischi risulta da un lavoro di combinazione: sono celebri non per gli assolo improvvisati, ma per la loro unità, difficile ma alla fine sempre vittoriosa, per un collettivismo che richiama molto lo spirito del jazz delle origini.
La sua prima seduta per la Blue Note riesce ancora oggi a sorprendere chi non l’abbia mai sentita prima: per quanto la musica di Monk possa oggi risultarci familiare, il trattamento a cui viene qui sottoposta – brusco, implacabile – ci ricorda quanto essa fosse nuova (e inaccettabile) per l’ortodossia jazzistica. La strana linea melodica discendente di «Humph», la prima matrice registrata da Lion, era già a miglia di distanza da qualunque cosa la Blue Note avesse mai registrato fino a quel momento. A suonare era un sestetto: alla tromba c’era Idrees Sulieman, proveniente dal Sud, dalla Florida; gli altri due fiati erano Danny Quebec West al sax contralto e Billy Smith al sax tenore. Accanto a Monk, la sezione ritmica era formata da Gene Ramey al contrabbasso e da Art Blakey alla batteria. Più giovane di Monk di due anni (quasi esatti), Blakey aveva suonato in precedenza nell’orchestra di Billy Eckstine, che aveva promosso tanti giovani bopper di primo rango. Lo stile di Blakey, paragonato per esempio a quello di Max Roach, molto più lieve e sottile nell’accentuazione, poteva sembrare pesante, eppure era singolarmente adatto alla musica di Monk: qualunque cosa fosse quel jazz, non era comunque sottile. Si giovava di solisti assertivi, non deferenti. Le tonanti accentuazioni di Blakey sul bordo del tamburo rullante (rimshot), il suo swing ingombrante, erano gesti musicali che avrebbe raffinato nel corso dei dieci anni successivi, ma già mostravano quella pervicacia che ne avrebbe fatto un collaboratore essenziale ai dischi Blue Note di Monk.
Come in gran parte del primo bebop, i pezzi registrati in questa seduta durano poco, con la sola master take di «Evonce» che supera i tre minuti, e hanno la qualità mozzafiato di una strada a tornanti, di una musica tutta di nervi. Eppure non si trattava certo di un musicista buttato in studio di registrazione senza preparazione. Prima di avere l’occasione di registrare come leader, Monk aveva trascorso anni a perfezionare i suoi metodi e le sue composizioni. Lion si limitò ad agevolare la documentazione di una prospettiva già ben formata. La composizione di «Evonce» e di «Suburban Eyes» è accreditata rispettivamente a Sulieman-Quebec e al solo Ike Quebec. È chiaro che nell’organizzazione della seduta il sassofonista ebbe un ruolo chiave: Danny West era suo cugino, all’epoca appena diciassettenne, e il materiale «originale», secondo un tratto caratteristico dell’idioma bebop, usa sequenze armoniche standard che correda di melodie nuove. «Suburban Eyes» è costruito sugli accordi di «All God’s Chillun Got Rhythm» (curiosamente, uno dei pezzi forti dell’altro pianista bop della Blue Note, Bud Powell) ma è tutt’altro che memorabile, affidando tutto l’interesse agli assolo. Sullo sfondo si sente l’accompagnamento intenso e stringato di Monk, e quando, nella master take, viene in primo piano per il suo assolo, sentiamo qualcosa di assai difforme dal bop abituale (alla fine dell’assolo di piano, Gene Ramey emerge per un assolo di mezzo chorus, ma l’accompagnamento di Monk è così robusto che è come se stesse continuando con la propria improvvisazione).
Capolavoro della seduta è «Thelonious». Negli altri pezzi, Sulieman, West e Smith, per quanto capaci, non sono altro che riempitivi. «Thelonious», pur con un’esitante armonizzazione affidata ai fiati, è essenzialmente un pezzo per piano, contrabbasso e batteria. Il tema è semplicemente un altalenante inciso ritmico di due accordi e Monk dissemina la sua improvvisazione di idee su come quel ritmo possa essere sovvertito contro l’esecuzione quasi anonima di Ramey e Blakey. Dopo trentadue battute, il pianista sembra incantarsi sullo stesso accordo, quindi prosegue introducendo nientemeno che un ritmo stride a sinistra: un anacronismo che nell’ambito ultramoderno del bebop sarà potuto sembrare assurdo ma che in questo contesto musicale funziona con una sua placida logica. Di sicuro anche Alfred Lion avrà rizzato le orecchie a quel punto, cogliendo un’allusione all’amatissima hot music della precedente generazione jazzistica.
Lion si era accorto di avere qualcosa di grosso per le mani, anche se Monk, come portabandiera del bebop per la Blue Note, era fra i più improbabili. Nel 1985 Lion disse a Michael Cuscuna: «Monk era così fantasticamente originale, le sue composizioni così forti e nuove, che io volevo registrarle tutte. Era così favoloso che dovetti registrare tutto».[11] Per la seduta del 24 ottobre i fiati non vennero convocati e Monk, Ramey e Blakey rimasero da soli. Registrarono sei brani, quattro composizioni originali del pianista e due standard. «Nice Work If You Can Get It» e «April in Paris» sono delle bellissime canzoni, terreno fertile per l’improvvisazione jazzistica. La prima, di Gershwin, era da tempo uno dei brani più eseguiti nelle jam session; i quattro chorus d’assolo che Monk esegue in entrambe le canzoni sono quadretti giocosi e un po’ confusi. Dissimulate, l’ascoltatore esperto coglierà allusioni ad altre melodie...




