E-Book, Italienisch, 309 Seiten
Reihe: Nichel
Galletta Pelleossa
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-3389-526-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 309 Seiten
Reihe: Nichel
ISBN: 978-88-3389-526-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È nata a Siracusa e vive a Livorno. Da ingegnere ha lavorato quasi vent'anni per un'ente pubblico. Con il romanzo Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima.
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5 Dell’arrivo dell’Americani e del gran teatro che addiventò il Paese, giusto per qualche iorna
Alla Piazza c’erano tutti, l’òmini da una banna, le donne dall’autra. Davanti alla barberia di Michele Lèggio, oltre al barbiere e al dottore Biagio Marino, suo amico inseparabile, c’era il maestro Giovanni dai riccioli nìvori e un braccio nico. Poco distante il prefetto Nicola Vella, con il suo sorriso senza labbra, don Raffaele Sparacino, che dondolava la testa a forma di proiettile, e il maresciallo Vasile, che si dava aria di controllore, annacàndo la sua grossa panza su e giù dal marciapiede.
Felice Rasura stava alcuni passi narreri, isolato, accanto solo sa figghiu Pascali, come se l’ingiuria che si portava dappresso, il Saracino, producesse una zona d’ombra, dove l’autri non s’arrischiavano a tràsiri. Discosto da tutti, attento a non sporcàrisi, il cavalier Mistretta stava seduto sul suo sediolino pieghevole, facendo finta di leggere il giornale, impeccabile nel suo completo candido; accanto a lui, la schiena poggiata al muro, Gaspare Lupo, il picciotto che gli curava le terre. Poco più in là Don Alfonso Ferraù aveva chiuso le serrande del suo Granbar, non sia mai che l’Americani avevano più pititto che pìccioli, e a lui i pìccioli gli servivano per i suoi traffici con Sannula Russa, lo scarparo, che infatti non lo mollava di un passo, sempre dietro come una carcarazza sulla spalla.
Sotto all’ombra del baobab le donne, facendosi vento e assicutando i picciriddi, s’alzavano e s’assittavano lente da seggie di fortuna, come moschine della frutta. Paolino non fece sforzo a individuare sua madre: Lucia Rasura spiccava per altezza e colori, i capelli chiari raccolti, l’aria quieta, Ciccio per mano. Il ragazzo si girò verso di lui e sorrise, con la ucca senza denti. Forse perché non ci senteva, era sempre il primo ad accorgersi se qualcuno arrivava. Paolino fici finta di non vederlo, per non doversi accollare di portarselo in giro. Scemo com’era, cannaluvàri com’era, un picciriddo di diciottanni, fineva sempre per procuràrici guai. E lui quel giorno si voleva fare trasparente.
Lucia Rasura parlava con Stella Grasso, la madre di Giacinto, le picciridde niche tutt’attaccate alla veste nìvora, come teste di bambole. Oreste Grasso, sa marito, era ancora sordato, e Angelica, la figlia grande, era rimasta a casa a seguire la tingitura, che erano troppo poveri per aspettare qualcosa tutt’assemi, magari se erano l’Americani. Tatiana Foglia non c’era, e manco Natàlia e Carola. Paolino sentì una stretta al cuore. Forse per loro, russe come lo zar, non era cosa di aspettare l’Americani. Attorno al gruppo delle donne andava neniando Saverio Manna, magro come una sarda salata; eccitato dalla confusione, ripeteva il suo salmo, «Come stai? Longo longo. E la testa? Tunna tunna», solo un poco più accellerato.
Zu Ntoni per l’occasione aveva lasciato la sua postazione, davanti a casa sua, e stava assittato su una cassetta vicino alla barberia, anche se non si capeva a fari cosa, che era orbo e magari sordo. Ed ecco quelli della Cava. Cateno, Giacinto, i giamelli Ermidio e Amidio e Vincenzino Bianca, che nessuno lo voleva per quanto era antipatico, ma che si accattàva a tutti, con ogni bendiddìo che pigghiava dalla putìa della Za Maria, sua nonna. Dolci, lumini, corda per arrampicàrisi. Suo padre Carlo Bianca era soldato, anche se diverso da Oreste Grasso, perché era andato volontario.
Per evitare che gli chiedessero della mazzetta, Paolino s’infilò nella bottega di Beppe Seppi, il mastro d’ascia, ammucciandosi dietro a un tavolaccio. L’uomo pareva disinteressato all’Americani. Stava asseme all’amico suo Turi Sassetta, il fabbro ferraro, che gli stava assittato accanto, nella penombra frisca della bottega, anche se propria a loro ci doveva interessare, che nell’ultimi anni il prefetto li aveva mandati in villeggiatura all’isola di Lampa un paio di volte. «Messi asseme non ne fanno uno buono. Latte ca nun cuagghia», diceva suo padre, «uno comunista e l’altro anarchico», ma a Paolino la bottega di Beppe Seppi gli piaceva proprio, con quell’odore dolciastro di colla e di pece greca.
«Talecuccè, Pelleossa u nicu. Comè? Tuo padre è contento oggi?»
Paolino fece un passo indietro.
«Di che ti scanti? Non mangiamo cristiani, noi».
Ridevano, ma non parevano male. E poi fora c’erano Cateno e gli altri.
«Assèttiti», gli disse Beppe Seppi avvicinandogli una panchetta, e Paolino s’assittò e si misi a spiare fora.
Erano arrivati l’Americani. Da diversi mesi a Santafarra non si parlava d’altro, pareva che dovevano sbarcare da un momento all’altro. Tutto il mese di giugno fu costellato di falsi allarmi e corse improvvise a ripararsi, accentuate dalla presenza dell’Aeroporto Fantasma in Contrada Sambuca, che adesso tanto fantasma non era più, e dal quale decollavano giorno e notte grossi apparecchi a due code.
Le voci si inseguivano, «arriveranno a Girgenti! A Gela! A Licata!», e la disputa s’allargava, «arriveranno dal mare!», perché se c’erano qualcuni che non vedevano l’ora che arrivassero, «dal cielo, l’apparecchi suprassutta dall’Aeroporto Fantasma!», per altri era trùbbola la cosa. Come il prefetto, il parroco, il maresciallo, che del fascismo erano stati fedeli custodi. I più eccitati erano quelli con li parenti americani, per loro era tipo una cosa di famigghia, «a Marsala, come Caribarbo: me lo scrisse mio cugino da Nuova Iorca!», come se tutti erano parenti alloro, e l’America fatta solo da paisani, e non da irlandesi, indiani, anglisi. Per non parlare dei nìuri.
Nelle simane precedenti la bottega di Beppe Seppi era stata la sola dove Paolino poteva andare a rifugiàrisi dal caldo ciucciaossa di quell’estate. Il prefetto Nicola Vella aveva dato l’ordine che non si poteva nèsciri per la strada, e così tutte le botteghe erano spiragliate. Tranne quelle del mastro d’ascia e del fabbro ferraro. I due se ne fottevano, come diceva suo padre, e lavoravano parlando a voce alta, ridendo e babbiando.
Solo i carusi avevano preso a girare per le campagne. Una volta avevano pure trovato un apparecchio schiantato su un olivo, in Contrada Malotempo, e un soldato tedesco cadavere appizzato a testa sutta. Accussì contavano quelli della Cava, ma Paolino con loro non c’era andato mai. Si limitava a correre per le strade vuote di Santafarra, da un angolo all’altro, per non fàrisi vedere dai carabinieri, o fare una scappata fino alla putìa della Za Maria, quando a Felice Rasura pigghiava uno dei suoi attacchi di sete, e lo mandava a cercare qualcosa da bere da sotto al banco. «Rasura avi l’arsura, Felice Arsura», sussurravano in paìsi, sempre attenti a non fàrisi sèntiri.
Un paio di volte pareva che c’erano quasi. Un rumore di camionetta, uno sgommare sulla Piazza, ma erano solo tedeschi, e i paesani li avevano osservati passare con un breve saluto, senza troppa convinzione, come quello che si dà al malato che si sa già morente. E senza troppa convinzione, e tanticchia di strammerìa, fu offerta loro della frutta. Prugnette piccole, dalla scorcia soda e verde, che allappano la bocca e muovono le viscere, un gesto che parse beffardo ma in fondo bene accordato, perché i tedeschi avevano ringraziato a modo loro, con una sventagliata di mitra che aveva colpito la Casa del Fascio e la villa del cavalier Mistretta, lasciando in strada decine e decine di bossoli, che i bambini s’erano affrettati a raccogliere.
La matina del dieci luglio del 1943 c’erano accussì tanti aerei che il cielo pareva punteggiato da stormi interi, come se tutti l’aceddi dell’Isola avevano deciso di nèsciri tuttassèmi, e subito si capì che era il giorno giusto, che arrivò tutt’accaldato Vincenzo Bordineri, stradino e rabdomante, che nel suo giro della matina, salendo su fino al Santuario, aveva visto i mezzi salire dal lato di Girgenti. E in effetti il rumore della colonna che s’avvicinava accompagnò l’attesa dei paesani per qualche orata.
Il cavalier Mistretta, Gaspare Lupo dietro come ùmmira, si fece sempre più cupo, e persa tutta la sua eleganza odorosa corse verso casa, tuppuliando al grande portone di legno con furia, fino a che uno dei servitori non lo fici tràsiri. Poco dopo si videro i pesanti tendaggi in velluto oscurare le finestre, e tutta la villa, compreso il giardino, le statue di muschio, la buganvillea della cancellata, parve vibrare. Alla finestra del primo piano si intravedeva la figura della moglie, donna Letizia, che non usciva mai.
«Bruciano tutto», commentò Michele Lèggio, e immantinenti un insolito odore di legna avvolse il Paese, come se un prematuro Natale fosse arrivato, rischiarato dalla fiamma di opuscoli e tessere e distintivi del Fascio, anche se per i fregi metallici, per i quali ci sarebbe voluto ben più di un focherello da camino, ci voleva un fabbro, uno come Turi Sassetta. Ma Turi Sassetta, tranquillo assittato con Beppe Seppi, lavorava ai finimenti del suo cavallo, sorridendo a tutti.
L’Americani arrivarono a sera tardi, a liberare tutta Santafarra di un’attesa che si era fatta più pesante della paura, e le campane della Chiesa della Santa presero a sonare come a giorno, mentre una lunga colonna di camionette si fermò in Piazza. Il primo che si mostrò fu un sordato nìuro, altro che un parente di qualche paisano. Un nìuro fatto e finito, con un casco in testa, la maglia bianca come le pietre lavate e una cartucciera alta come un bustino di fìmmina....




