Malamud | Il migliore | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 308 Seiten

Malamud Il migliore


1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-354-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 308 Seiten

ISBN: 978-88-7521-354-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Roy Hobbs è potenzialmente un eroe: ha un talento innato per il baseball e potrebbe diventare il più grande giocatore del momento. Ma il suo primo tentativo di entrare a far parte di una squadra della major league fallisce miseramente, a causa di una ragazza fuori di testa. Roy riesce a coronare il suo sogno di gloria soltanto quando ormai è avanti con gli anni, a un'età in cui molti giocatori sono vicini al ritiro: avrà pochissimo tempo per dimostrare a se stesso e all'America intera di essere, davvero, il migliore. Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1952, ha ispirato il film omonimo con Robert Redford.

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Prima di pensare a sfregare un fiammifero con l’unghia del pollice, reggendo il getto della fiammella nel palmo della mano chiuso a coppa davanti al finestrino della cuccetta inferiore, Roy Hobbs aveva tentato di pulire il vetro con la mano, ma poi aveva capito che stavano attraversando una galleria, per cui non rimase sorpreso quando vide la sua immagine riflessa, luminosa, che reggeva in mano, alta sopra la testa, una luce gialla e lo fissava a sua volta dal vetro. Mentre il treno trascinava a strattoni la propria lunga coda fuori dal rimbombo della galleria, il riflesso dell’immagine inginocchiata si dissolse e Roy sentì una vampata di libertà alla vista delle colline occidentali, immerse nella foschia lunare e ammassate contro il buio della notte, rotto dal lampeggiare di fulmini che erano estivi, sebbene si fosse agli inizi della primavera. Lungo e disteso in tutta la sua altezza, reggendosi di lato su un gomito, incapace di dormire a dispetto del movimento ondulatorio del treno che conciliava il sonno, osservava la terra correre via e aspettava con impazienza repressa di avere una visione del Mississippi, tra un migliaio di chilometri.

Non possedendo un orologio, calcolò mentalmente il tempo trascorso e decise che doveva essere quasi l’alba. Mentre guardava fuori, ecco comparire una fattoria color bianco osso, dal cadente portico scheletrico, solitaria in mezzo a incalcolabili chilometri di chiaro di luna, ed ecco che, davanti a essa, un ragazzo faccia pallida e ossa lunghe scagliava con un sibilo da frustata – un fischio di treno – una palla lucente a un qualcuno nascosto all’ombra di una quercia, che gliela sparava indietro senza indugi, ed ecco di nuovo il ragazzo mettersi in posizione di caricamento e lanciare. Roy chiuse gli occhi davanti a quell’immagine perché, se non era reale, era tuttavia il modo in cui ogni tanto guardava se stesso, come in un sogno che non riusciva a scacciare e che ore prima lo aveva svegliato da un sonno profondo: nel sogno si trovava, di notte, in un campo sconosciuto, e teneva nel palmo della mano una palla da baseball d’oro, che diventava sempre più pesante, e lui sudava e non riusciva a decidere se tenerla o buttarla via. E quando finalmente si decideva, era diventata troppo pesante da sollevare e anche da lasciar cadere (a chi poteva servire un buco tanto profondo?), per cui cambiava idea e pensava di tenersela, ma a quel punto la palla diventava leggera come una piuma, una rosa bianca sfuggita dal suo nascondiglio, e se ne volava via per conto suo, ma intanto lui aveva già deciso di trattenerla per sempre.

Mentre l’alba faceva declinare la notte, uno scroscio di pioggia portato dal vento lo accecò – no, c’era un finestrino – e le gocce che scorrevano gli fecero venire sete, una sete che divenne immediatamente fame. Frugò nella cuccetta in cerca delle mutande, perché voleva essere il primo ad arrivare nel vagone ristorante per la prima colazione e fare più o meno in privato tutte le sue cazzate, prima nell’ordinare e poi nel mangiare, poiché c’era da dubitare che Sam si sarebbe alzato in tempo per dirgli come comportarsi. Si tolse di dosso la giacca grigia della tuta e si calò i calzoni bianchi di tela che usava come pigiama, casomai ci fosse stato un deragliamento e non avesse avuto il tempo di vestirsi. Riuscì acrobaticamente a infilarsi in una camicia, si tirò su i pantaloni del vestito buono, inarcandosi per farli arrivare ben in alto, ma aveva ficcato tutti e due i piedi in una gamba sola, cacciandosi in una trappola talmente stretta che agitarsi non serviva a nulla. Era preoccupato, perché stava strizzato in quella cuccetta senza molto spazio per i suoi contorsionismi, per cui avrebbe anche potuto strapparsi i pantaloni, o magari gli sarebbe toccato suonare il campanello per chiamare l’inserviente, idea che lo terrorizzava. Grugnendo, si dimenò di qua e di là, finché finalmente riuscì ad acchiappare e tirare giù il risvolto, a liberare i piedi con un sospirone e a mettere al suo posto quello che era rimasto intrappolato. Tirandosi su a sedere, attaccò le calze alle giarrettiere, allacciò le stringhe, si mise la cravatta e riuscì persino a infilarsi in una giacca, per cui quando aprì le tendine per saltare giù era completamente vestito.

Messosi a quattro zampe, sbirciò sotto la cuccetta, per vedere se la custodia per fagotto era ancora lì. Sì, c’era, ma pensò che era meglio aprirla e lo fece, chiudendola poi di scatto quando sentì arrivare Eddie, l’inserviente.

“’Giorno, maestro, cosa si suona oggi?”

“Non è mica uno strumento musicale”, replicò Roy, spiegandogli che era una cosa che aveva fatto lui.

“Animale, vegetale o minerale?”

“Solo una cosa utile”.

“Un trampolo a molla?”

“No”.

“Una lancia infallibile?”

“No”.

“Fammi pensare”, disse Eddie, coprendosi gli occhi con una mano dalle lunghe dita e raspando l’aria con l’altra. “Ci sono: una combinazione di canna da pesca, fucile e badile”.

Roy scoppiò a ridere. “Quanto manca a Chicago, Eddie?”

“Chicago? Oh, tanto, tanto. Non è il caso di andarci a piedi”.

“Non ne ho nessuna intenzione”.

“Perché a Chicago?”, chiese Eddie. “Perché non a New Orleans? Quella sì che è una città piena di lusso e di stile francese”.

“Mai stato”.

“Oppure San Francisco, una città esuberante e tutta saliscendi”.

Roy scosse il capo.

“Perché non New York, colosso dei colossi?”

“Prima o poi ci vado”.

“Dove sei già stato?”

Roy prese un’aria imbarazzata. “A Boise”.

“Una cava di arenaria, piena di polvere”.

“Anche a Portland, quando ero piccolo”.

“Nel Maine?”

“No, nell’Oregon, dove facevano il Festival delle Rose”.

“L’Oregon?... È dove scappano i profughi del Minnesota e dei due Dakota?”

“Non saprei”, rispose Roy. “Io vado a Chicago perché ci sono i Cubs”.

“I club? Quali?”

“Macché club. I Cubs. La squadra di baseball”.

“Ah, baseball...”, ed Eddie si batté una mano aperta sulla bocca. “E tu giochi nei Cubs?”

“Spero che ci giocherò, prima o poi”.

L’inserviente fece un profondo inchino. “Mio eroe. Lascia che ti baci la mano”.

Roy non poté fare a meno di sorridere, ma l’inserviente lo seccava e lo preoccupava anche un po’. Si era dimenticato di chiedere a Sam quando doveva dargli la mancia, se di mattina o di sera, e quanto. Visto che i fondi erano tanto limitati, Roy aveva badato bene a non chiedergli assolutamente niente, ma la sera prima Eddie aveva a tutti i costi voluto sistemargli un cuscino dietro la schiena, e una volta, mentre stava cercando di individuare il gabinetto degli uomini, l’aveva praticamente preso per mano e ce lo aveva accompagnato. Dopo una cosa simile, gli si danno dieci centesimi o si grugnisce uno stupido grazie, come aveva fatto lui? Personalmente, non vedeva l’ora che quel viaggio finisse, anche se di sicuro non gli piaceva affatto l’idea di restare da solo in un posto come Chicago. Senza Sam gli sarebbero tremate le gambe e non sarebbe stato capace di dire o fare cose semplici come chiedere delle indicazioni stradali o sapere in che direzione andare dopo aver infilato cinque centesimi nella gettoniera della metropolitana.

Dopo una rasatura travagliata, nel corso della quale si tagliò due volte, usò un’unica sottile salvietta per asciugarsi mani, faccia e collo, per pulire il rasoio e per asciugare lo spazzolino da denti, in modo da non doverne chiedere un’altra e tenere basso il conto. Dalla luminosità del cielo si sarebbe detto che erano circa le cinque e mezzo, ma non poteva esserne sicuro, perché a un certo punto si erano lasciati alle spalle la Mountain Time[1] e avevano perso... no, guadagnato... cioè, sì, proprio perso un’ora, insomma era stato quello che Sam chiamava un giorno di ventitré ore. Infilò rasoio, spazzolino e pettinino in un sacchetto di camoscio con cordoncino, che arrotolò fino a ridurlo alle minime dimensioni e si infilò nella tasca della giacca per tenerlo a portata di mano. Attraversata la lunga carrozza letto, entrò nel vagone ristorante e si sarebbe tanto volentieri seduto a fare la prima colazione, visto che all’odore del cibo lo stomaco gli si era contratto fino alle dimensioni di un fagiolo, ma i camerieri in maniche di camicia e berretto a calza se la stavano spassando tra loro, mandando giù aringhe e patatine fritte. Percorse in tutta fretta la carrozza salone dai grandi finestrini, vuota, una volta tanto, diverse carrozze letto, alcuni vagoni di normali posti a sedere, una carrozza buffet e un’altra lunga serie di vagoni, finché arrivò all’ultimo, dove, nella penombra di tendine tirate e tra persone addormentate sbattute qua e là, dormiva anche Sam Simpson, sebbene la sera prima Roy lo avesse pregato di prendersi la cuccetta, ma la voce bassa di Sam aveva dichiarato perentoriamente: “La cuccetta te la prendi tu, ragazzo,...



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