Montanari | Le pietre e il popolo | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 193 Seiten

Reihe: Indi

Montanari Le pietre e il popolo

Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7521-508-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane

E-Book, Italienisch, 193 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-7521-508-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Perché il valore civico dei monumenti è stato negato in favore del loro potenziale turistico, e quindi economico? Perché la «valorizzazione» del patrimonio culturale ci ha indotti a trasformare le nostre città storiche in «luna park» gestiti da avidi usufruttari? Lo storico dell'arte Tommaso Montanari ci accompagna in una visita critica del nostro paese: da una Venezia i cui palazzi diventano gli showroom dei nuovi sedicenti «mecenati» a una Firenze dove si affittano gli Uffizi per le sfilate di moda e si traforano gli affreschi di Vasari alla ricerca di un Leonardo inesistente, da una Napoli dove si progettano megaeventi mentre le chiese crollano e le biblioteche vengono razziate all'Aquila che giace ancora in rovina mentre i cittadini continuano a vivere nelle new town, scopriamo che l'idea di comunità è stata corrotta da una nuova politica che ci vuole non cittadini partecipi, ma consumatori passivi. Con una nuova introduzione dell'autore torna in libreria Le pietre e il popolo, non solo un durissimo pamphlet contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d'arte ma anche un manuale di resistenza capace di ricordarci che la funzione civile del patrimonio storico e artistico è uno dei principi fondanti della nostra democrazia, e che l'Italia può risorgere solo se si pensa come una «Repubblica basata sul lavoro e sulla conoscenza».

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, DIECI ANNI DOPO


Il primo libro che ho scritto (, Einaudi 2011) poneva una lunga serie di domande sullo statuto della storia dell’arte, e sulla sua funzione civile. Questo libro, che venne subito dopo, rappresenta in qualche modo una risposta compiuta e articolata: quella risposta è la città. Proprio mentre gli storici dell’arte erano indotti a rinchiudersi nelle mostre e nei musei, mi pareva vitale affermare che il vero capolavoro della nostra tradizione artistica è quella rete di relazioni tra oggetti, luoghi e persone che chiamiamo città. E, più precisamente, ciò che davvero conta è il nesso fra l’ (la città delle pietre) e la (la città degli uomini).

Era, ed è, impossibile accostarsi alle nostre città senza vederne l’involuzione: il loro progressivo trasformarsi in dispositivi di disciplinamento e alienazione che spezzano proprio quel legame fra pietre e popolo che dà il titolo a questo libro (e, più recentemente, anche alla rubrica settimanale che tengo sul ).

Come spesso succede, in Italia, le catastrofi funzionano come acceleratori, e nello stesso tempo come cartine di tornasole: nella genesi del libro, e negli anni successivi, fu il terremoto dell’Aquila a giocare un ruolo centrale. Scrivevo (a pagina 84) che «all’Aquila dovrebbero andare anche gli storici dell’arte». Ebbene, questo auspicio si trasformò presto in un progetto, e il 5 maggio 2013 in mille tra professori e studenti delle università e delle scuole, e storici dell’arte delle soprintendenze visitammo la zona rossa dell’Aquila, per poi riunirci in assemblea nella chiesa di San Giuseppe, tra le poche allora recuperate e restaurate. In quell’occasione, davanti al ministro per i Beni culturali Massimo Bray allora appena nominato, pronunciai un discorso in cui, tra l’altro, dicevo:

Attraverso i nostri occhi l’Aquila entrare nella coscienza intellettuale della nazione.

È per questo che stamani abbiamo voluto , in silenzio e con i nostri occhi.

Vedere con i propri occhi: è su questo che vogliamo fondare il nostro giudizio. Non è forse il principale dovere di uno storico dell’arte, l’essenza stessa del nostro lavoro? Già Raffaello diceva: «Confrontare l’opere con le scritture». Di scritture sull’Aquila ne abbiamo lette tante: ecco, oggi siamo di fronte a questa terribile opera della natura e della stoltezza umana. Era dal tempo del terremoto di Messina che un simile disastro non colpiva con tanta gravità un centro storico di questa estensione e importanza.

Tutto questo deve modificare in profondità la nostra coscienza di storici dell’arte: l’Aquila deve diventare un punto nodale, come lo sono state le distruzioni della guerra per una generazione, e l’alluvione di Firenze per un’altra.

Nel 1944, di fronte al disastro del bombardamento di Genova, Roberto Longhi disse che gli storici dell’arte dovevano farsi un «interminabile esame di coscienza»: per «non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere»; per non esser stati abbastanza «popolari». Ebbene, noi oggi di fronte alle rovine dell’Aquila, possiamo non farci un simile esame di coscienza? Sarebbe stato possibile lasciare a terra per anni un monumento enorme e cruciale come il centro dell’Aquila se noi storici dell’arte avessimo saputo parlare al paese, spiegare quali valori si trattava di proteggere?

È giunto il momento di farcelo, questo esame di coscienza. L’Aquila deve essere un punto di svolta nel nostro modo di essere storici dell’arte.

Dopo aver camminato per due ore tra queste rovine, è impossibile non capire che oggi l’urgenza culturale e civile è studiare, conservare e spiegare i contesti: non estrarre i singoli «capolavori» dai contesti per inserirli in mostre itineranti senza progetto scientifico.

All’Aquila è impossibile non vedere il valore civile, costituzionale, della nostra amata disciplina: la storia dell’arte tornare a restituire ai cittadini italiani le chiavi conoscitive delle loro città storiche.

La storia dell’arte o è politica (cioè «discorso sulla polis», sulla città), o non è. Fatemelo dire con le parole che Aristofane presta a Euripide nelle : «Odio il cittadino che ad aiutare la patria è per natura lento, ma prontissimo a farle gran danno. Ed è pieno di risorse per se stesso, per la sua città incapace di fare alcunché».

Ecco, la storia dell’arte non deve pensare solo a se stessa, deve tornare ad aiutare la città. La nostra ricerca deve saper parlare a tutta la comunità nazionale, e non solo alla nostra stretta comunità scientifica.

Dobbiamo tornare a gridare, per dirla con Longhi, «quali e quanti valori si tratta di proteggere».

Il principale tra questi valori è proprio la funzione civile dell’arte figurativa.

Dobbiamo tornare a dire agli italiani di oggi che le loro città sono belle non per compiacere i turisti, ma per dar forma alla loro vita civile e politica. La forma della polis è forma della politica: per secoli la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. È per questo che la Repubblica – lo afferma l’articolo 9 della Costituzione – nel momento della sua nascita ha preso sotto la propria tutela il patrimonio storico e artistico della nazione: perché quel patrimonio è stato il luogo e lo strumento della formazione della comunità nazionale, visceralmente ancorata alle cento città d’Italia.

Un crudele paradosso vuole che forse in nessun’altra città italiana tutto questo fosse – anzi, ancora, sia – visibile come all’Aquila: che è una delle rarissime città fondate dai suoi stessi cittadini, e con un piano urbanistico dettagliatissimo. Una città i cui innumerevoli e meravigliosi spazi pubblici nascono proprio per tradurre in immagine gli equilibri dei fondatori, i tanti castelli che nel XIII secolo cercarono uno spazio comune, che non fosse solo un mercato, ma una città.

Il grande urbanista aquilano Marcello Vittorini ha mostrato come nell’Aquila nascente gli spazi pubblici venissero prima di quelli privati: «La città è cinta da mura che hanno 86 torrioni e 12 porte e lo spazio da esse delimitato (ben 167 ettari) è diviso “in croce”, cioè in quattro “quarti”, articolati in 54 “locali”: spazi destinati all’insediamento degli abitanti provenienti dai centri fondatori, dimensionati secondo la loro consistenza demografica. Secondo gli “Statuti” della nuova città, gli abitanti possono insediarsi nei locali, solo dopo aver realizzato collettivamente, , la piazza, la chiesa, la fontana. Cioè, all’epoca, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria». E l’impronta fu così decisiva e felice che sei secoli dopo, nel 1835, il viaggiatore inglese Richard Keppel Craven poteva annotare nel suo diario che all’Aquila «vi sono numerosi edifici pubblici di una grandezza che arriva alla magnificenza [...] le vie sono generalmente larghe e ben pavimentate, e gli edifici dispiegano uno stile architettonico e dimensioni che stabiliscono i punti della sua somiglianza con Roma». E se l’Aquila è arrivata fino all’Ottocento, e poi intatta fino a noi, se è sempre rimasta «immota» (come vuole il suo motto eroico) nonostante i tanti, tragici terremoti non lo si deve certo alla benevolenza della sorte, ma alla tenacia dei suoi cittadini. Dopo il terremoto tragico del 1349 il poeta e cronista aquilano Buccio di Ranallo poteva scrivere: «Però che era l’Aquila così male arrivata / De ecclesie et d’edifizi et tanto dirrupata / Et anche dalle mura non era circondata / Molti uomini credevano che più non fosse abitata».

Ma quegli uomini si sbagliavano. L’Aquila non ha mai cessato di essere abitata, terremoto dopo terremoto: solo oggi non lo è più. E noi non vogliamo essere la generazione che abbandona l’Aquila: la generazione del tradimento e della resa. Non lo vogliamo, e non lo saremo.

Ma quale male oscuro ci ha portati a prendere un caso così mirabile e a trasformarlo nel suo esatto contrario?

Il cordone ombelicale tra città e cittadini all’Aquila è stato reciso: non dal terremoto, bensì dalla scelta di costruire le cosiddette . Vere non-città di cemento in cui si vive solo , e in cui quelle che erano le priorità «sociali» dello Statuto duecentesco – le piazze, le chiese, le fontane – nemmeno esistono. A quel punto il centro monumentale poteva morire: non serviva più a nulla. Se non a resuscitarlo poi, con calma, per farne un luna park turistico.

Dunque oggi L’Aquila è suo malgrado divenuta il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana che noi storici dell’arte studiamo: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; il rapporto tra monumenti e vita politica; il rapporto tra arte e spazio pubblico.

All’Aquila questa dissoluzione di significato è avvenuta tutta insieme, con un trauma terribile e improvviso. Ma la stessa crisi investe le cosiddette città d’arte italiane: i cittadini lasciano i centri monumentali non perché siano distrutti dal terremoto, ma perché si trasformano sempre più in fondali per i flussi turistici. Ma se le «città d’arte» perdono i loro cittadini, cessano di essere «città» e divengono solo «arte». E a quel punto gli storici dell’arte si trovano a studiare non più organismi vivi abitati da una comunità, ma cadaveri ormai muti, presi in...



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