E-Book, Italienisch, 146 Seiten
Offutt Nelle terre di nessuno
1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-7521-897-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 146 Seiten
ISBN: 978-88-7521-897-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Paesaggi di brutale bellezza, alcol e fucili, rabbia e rassegnazione. Segherie abbandonate; vecchie baracche dove si gioca a poker e le partite rischiano di finire a colpi di pistola, bar fumosi in cui tutti gli avventori si conoscono, e molti coltivano antichi rancori. Figli senza padri, alla deriva; famiglie nelle quali nessuno lavora, ma che l'assistenza sociale sembra aver dimenticato. E ad aleggiare su tutto, l'amore lancinante e doloroso per una terra da cui si parte - ma quasi sempre per farvi ritorno e rimanere - e una testarda, assurda, commovente speranza di riscatto. Con Nelle terre di nessuno, Chris Offutt ha scritto uno tra gli esordi più fulminanti degli ultimi decenni, aggiungendo alla grande tradizione del racconto americano un nuovo, potente capitolo. Le sue storie, dure ma cariche di emozione, ci guidano in un Kentucky solo apparentemente marginale, e sanno narrarci con profonda empatia la sublime desolazione, il culto della violenza e la fame d'amore che si nascondono nell'America più ignota e dimenticata; in quei paesi che, come scriveva Mark Strand, nessuno visita mai.
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Segatura
Sulla collina nessuno ha finito le superiori. Da queste parti ti giudicano da come ti comporti, non da quanto ti credono intelligente. Io non vado a caccia, non vado a pesca e nemmeno lavoro. I vicini dicono che penso troppo. Dicono che sono come mio padre, e Mamma ha paura che abbiano ragione.
Quand’ero piccolo avevamo un cane da procione che si era incartato con una puzzola e poi era stato così sfacciato da infilarsi sotto la veranda. Stava lì al buio, uggiolava e non voleva uscire. Papà gli sparò. Questo non lo fece puzzare di meno, ma Papà si sentì meglio. Disse a Mamma che se non sapeva distinguere un procione da una puzzola meritava di essere ucciso.
«Però l’hai lasciato sotto la veranda», disse Mamma.
«Lo so», disse Papà. «Anch’io gli volevo bene a Tater. Non ce la faccio mica a sotterrarlo».
Guardò me e mio fratello.
«Non pensarci nemmeno a mandare i ragazzi sotto la veranda», esclamò Mamma. «Il cane è tuo e lo tiri fuori tu».
Sparì dietro la casa, turandosi il naso. Papà ci guardò di nuovo. «Voi sentite qualcosa?»
Avevo le lacrime agli occhi, ma feci di no con la testa.
«Io li odio gli animali morti», disse Warren.
«Anche le mogli te le raccomando», disse Papà, e mi passò il fucile. «Prendi, Junior. Mettilo a posto e portami la canna col mulinello».
Corsi in casa a prenderla. Quando tornai fuori Papà si era messo in ginocchio e puntava la torcia sotto la veranda. In fondo, in un angolo, c’era il vecchio Tater, morto stecchito. «Tocca lanciare alla cieca», disse Papà. «Magari mi diverto pure».
Allargò le gambe, fece scattare il polso, mandò la lenza sotto la veranda e la recuperò. Aveva agganciato un vecchio straccio. Lanciò di nuovo e stavolta agganciò Tater, ma quando recuperò era rimasto solo un ciuffo di peli. Al terzo lancio gli si impigliò la lenza. Diede un bello strattone e la spezzò. La canna partì come una frusta e prese Warren in faccia. Quando lo sentì gridare Mamma arrivò di corsa.
«E ora che hai fatto?», disse.
«Ho spezzato la lenza», disse Papà. «Reggeva fino a quattro chili. E c’era pure un bel piombo».
«Perché non fai un buco nel pavimento, come quando peschi sul ghiaccio?»
«Non trovo più la sega».
«E meno male, perché sennò l’avresti fatto davvero!»
Prese Warren, salì i gradini di legno grigio e lo trascinò in casa. Papà si ruppe la canna da pesca sul ginocchio. «Era meglio che non li facevo, i figli», disse, e gettò i pezzi della canna nel campo. Una ghiandaia si alzò in volo strillando. Papà mi prese per le spalle e si chinò a guardarmi in faccia.
«Io volevo fare il veterinario e curare i cavalli», disse. «La sai una cosa, però?»
Scossi la testa. Lui strinse più forte.
«Dopo le elementari ho smesso di andare a scuola perché non avevo niente da mettermi. Come tutti i miei parenti. Tutti fino all’ultimo».
Mi lasciò andare e guardai la sua schiena curva che spariva tra gli alberi. Le grandi foglie dei pioppi gli si chiusero dietro con un fruscio.
Qualche anno dopo Papà diede via il fucile e cominciò ad andare in chiesa. Regalò a Warren un cucciolo che cadde dalla veranda e si ruppe una zampa. Papà pianse tutto il giorno. Mi faceva paura, Mamma però disse che se piangeva era segno che la testa aveva ricominciato a funzionargli, e che dovevo essere orgoglioso. La domenica, in chiesa, Papà salì in piedi sulla panca durante la messa. Pensai che il Signore l’avesse toccato e che si sarebbe messo a parlare in un’altra lingua. Il pastore interruppe il suo sermone. Papà si guardò intorno e giurò su Dio che avrebbe guarito la zampa rotta del cucciolo o sarebbe morto nel tentativo. Mamma lo fece rimettere a sedere e gli disse di chiudere la bocca. Mi fece di nuovo paura.
Dopo la messa Papà portò il cucciolo sul crinale, vicino a un albero di noce, e cercò tutto il giorno di sistemargli la zampa. Ce l’aveva ancora con Dio, quando Mamma ci mandò a letto. Il mattino dopo lo trovò lei. Si era sfilato la cinta e si era impiccato. Per terra, ai suoi piedi, c’era il cucciolo con tutte e quattro le zampe rotte. Era ancora vivo.
Io e Warren smettemmo di andare a scuola. Lui trovò un lavoro e cominciò a mettere da parte i soldi. Io andavo nel bosco a raccogliere funghi, ginseng e radici d’ogni genere. M’infilavo dappertutto, roba che nemmeno un coniglio.
Lo scorso autunno Warren ha portato una roulotte in una valletta e ci è andato a vivere. Ha detto che se c’era una cosa che sapevo fare era occuparmi di Mamma. Due volte alla settimana andavo all’ufficio postale di Clay Creek, ai piedi della collina. Avevamo solo quello e la chiesa, l’uno accanto all’altra, tra il torrente e la strada. Quasi tutti li bazzicavano entrambi, io e Mamma ce li eravamo divisi. A me arrivava più posta, lei andava in chiesa anche per me, e per tutto il resto della contea. Ero abbonato a un sacco di riviste e leggevo tutto due volte, anche la posta dei lettori e i consigli per le casalinghe. A un certo punto non sono più arrivate perché non pagavo mai.
A volte andavo all’ufficio presto e mi mettevo a guardare le fotografie dei delinquenti ricercati dal governo. Ce n’erano sessanta spillate insieme come il calendario di un negozio di mangimi, ed erano tutte facce di gente qualsiasi. Sotto c’era scritto l’elenco dei reati commessi dal tizio, se aveva delle cicatrici e se era bianco o nero. Mi sembrava strano mettere la fotografia di un uomo e poi scrivere di che colore aveva la pelle. Da queste parti ce l’abbiamo quasi tutti marrone. Io non avrei problemi a parlare con qualcuno che ce l’ha di un altro colore, ma quelli non vengono mai da queste parti. Qua non ci viene mai nessuno, casomai se ne vanno via.
Un pomeriggio vidi un cartello all’ufficio postale su una cosa che si chiama GED. Chiunque poteva fare questo test in un centro in città gestito da volontari, e mi venne da pensare a quello che diceva Papà sullo smettere di andare a scuola. Lui aveva letto solo la King James e almeno un centinaio di carte geografiche. Le collezionava come tanta gente prende i cani: grandi e piccole, quelle che gli piacevano e quelle che teneva tanto per tenerle. Lo guardavo studiarle, seduto su un ceppo, anche col buio pesto. Voleva sapere dov’era il paese di Nod e quali erano i suoi abitanti. Il pastore gli aveva detto che era andato distrutto nel diluvio universale. Papà non era convinto.
«Se è un posto, da qualche parte sarà», diceva sempre.
Il GED mi tenne sulle spine per tre giorni, trascorsi passeggiando nel bosco. Stavo quasi per mettere un piede su un serpente corridore che prendeva il sole su un sasso. Ci guardammo per un po’, lui che tirava fuori la sua piccola lingua biforcuta, e io che non riuscivo a pensare ad altro che al test. Quasi tutti quando vedono un serpente scappano senza nemmeno chiedersi se è velenoso o anche solo se è vivo. Col GED era la stessa cosa. Se non lo passavo non succedeva niente, se lo passavo tutti sulla collina avrebbero saputo che non ero come credevano loro. Magari avrebbero cambiato idea anche su Papà.
La mattina dopo feci l’autostop fino a Rocksalt e mi fermai sul marciapiede. La gente mi guardava dalle macchine. Avevo la mano sulla maniglia e grondavo di sudore. Aprii la porta. L’aria era fresca e le pareti bianche. Dietro una scrivania di metallo c’era una signora che si dipingeva le unghie di rosa. Mi guardò, poi tornò a concentrarsi sulle unghie.
«Il barbiere è qui accanto», disse.
«Non devo tagliarmi i capelli, signora. Magari ne ho bisogno, ma non è che sono venuto in città per questo».
«», disse, come se volesse prendermi in giro. Parlava in fretta e si mangiava le parole. Chissà cosa l’aveva portata sulle colline. Eravamo messi proprio male, se la gente di città veniva a cercare lavoro qui.
«Voglio fare il GED», dissi.
«Chi ti ha mandato?»
«Nessuno».
Mi guardò a lungo con gli occhi sgranati. Agitava la mano come per scacciare le mosche e quando lo smalto fu asciutto aprì un cassetto e mi diede un libro. Era grande come una rivista, con la copertina di plastica nera.
«Torna quando sei pronto», disse. «Sono qui per aiutare quelli come te».
Ci vollero cinque ore per tornare a casa e il caldo non lo sentii per niente. Quando arrivai, qualcuno mi aveva visto giù in città e lo aveva detto a un vicino, che lo aveva detto a Mamma all’incontro di preghiera. Da noi funziona così. Fai uno sternuto, e prima che torni a casa lo sanno tutti.
«Dicono che ti dai un sacco di arie e vuoi farci passare da ignoranti», disse. «Visto che ci sei, potresti pure leggere la Bibbia».
«Già fatto. Due volte».
«Almeno non ho cresciuto un miscredente».
Dopo cena mi buttai sugli esercizi. La lettura andava alla grande, ma la matematica era un disastro. Cioè, uno prende un casino di numeri e dice che è uguale a qualcos’altro. Magari è per questo che a certi gli piace la matematica, ma un mucchio di legna non è uguale a un albero. E la segatura? Dove la mettiamo la segatura? Tutti questi calcoli e poi niente che dimostri che hai lavorato, niente che devi pulire, niente da vedere. Una fila di numeri è come una cacca di gufo su un sentiero. Si capisce che è passato un uccello, ma non da che parte andava.
Warren arrivò sul prato col pick-up a trazione integrale e suonò il clacson. Prima...




