E-Book, Italienisch, 339 Seiten
Reihe: Intrecci
Aiolli Nero ananas
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-6243-384-6
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 339 Seiten
Reihe: Intrecci
ISBN: 978-88-6243-384-6
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Valerio Aiolli è nato nel 1961 a Firenze, dove vive. Ha esordito nel 1995 con la raccolta di racconti Male ai piedi. Il suo primo romanzo, Io e mio fratello (e/o, 1999), è stato tradotto anche in Germania e Ungheria. Sono seguiti Luce profuga (e/o, 2001), A rotta di collo (e/o, 2002), Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007) e nel 2014 Il sonnambulo (Gaffi). http://www.valerioaiolli.it/
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SENTIERI
VENEZIA
I pomeriggi li passi in palestra, a picchiare e a farti picchiare. Non sei né tra i bravi né tra le schiappe. Le dài e le prendi, a seconda delle giornate. Salti la corda fino a cento volte di seguito, quando sei in forma. Hai braccia lunghe capaci di tenere a distanza quasi tutti gli avversari, ma la potenza è quella che è. Sei un longilineo, hai zampe da fenicottero.
La palestra è la vita. La vita è qualcosa che quando c’è ti stordisce e ti fa dimenticare il rumore del tempo che passa. La vita è il sudore che si spalma sui muscoli, è il bruciore dell’acido lattico da tenere a bada, è il cuore che sembra salirti in gola quando il respiro accelera troppo. Le pareti grigie fino all’altezza degli occhi e poi bianche. I colpi sordi dei guantoni sul sacco. Le urla degli allenatori, la gragnuola secca del punching leggero. L’aria che quasi la vedi da quanto è intrisa di vapore tiepido e acre. Colpisci e schiva, colpisci e schiva. Hai tempi di reazione più lenti del necessario, a volte il colpo arriva e fa male. Ma anche tu sei capace di far male.
Il tuo allenatore non si è mai sbilanciato sul tuo conto. Tutti lo chiamano Boss. Boss non ti ha mai detto che hai talento, né te lo ha fatto intendere. Per quello che hai capito a lui basta che tu paghi la quota, mese dopo mese. Ogni tanto ti dà qualche consiglio svogliato, guardando da un’altra parte come certi gondolieri quando infilano la pertica in acqua. È più basso di te di diversi centimetri, ma per raggiungere la circonferenza di un suo bicipite ce ne vorrebbero almeno tre dei tuoi. Vorresti vederlo combattere, però lui si rifiuta anche solo di salire sul ring per mostrare le posizioni corrette. Spiega tutto da sotto, a parole, masticando un sigaro spento. Sempre spento. Non gliel’hai mai visto acceso quel sigaro. Forse è sempre lo stesso, ogni giorno. Spiega una volta e poi basta, Boss. Se non capisci, o non riesci a fare quello che ti ha detto, o ti dimentichi di farlo, lui non si arrabbia, non alza la voce. È solo che da quel momento in poi tu per lui non esisti, ti guarda ed è come se tu fossi diventato trasparente, come se stesse guardando ciò che c’è dietro di te, fosse anche solo la nuda parete grigia e bianca. Dicono che sia arrivato vicino al titolo italiano dei welter, anni fa. Tu non gliel’hai mai domandato e non conosci nessuno che gliene abbia chiesto conferma. Non ti importa. A te basta picchiare. A te basta essere picchiato il meno possibile.
La palestra è la vita e tu lì non hai amici, perché è troppo difficile picchiare un amico, tu non ne saresti capace. Ti piace stare a vedere combattere gli altri, quando hai finito il tuo turno. Resti lì a lungo con l’asciugamano intorno al collo, appoggiato al piano del ring. Guardare quei corpi sudati che si piegano, che avanzano o indietreggiano, che si abbracciano esausti. Ti senti bene, ti senti al posto giusto.
Un vero e proprio combattimento non l’hai mai fatto. Tre riprese, dall’inizio alla fine, non le hai mai combattute. Boss dice che bisogna avere almeno diciassette anni per poterci provare. Quando il fisico ha finito di formarsi. Ti mancherebbe solo un anno, ma a te non importa. Non hai certo intenzione di fare agonismo. Sai che non diventerai mai uno bravo. A te interessa picchiare e non essere picchiato. A te interessa imparare a difenderti. A te interessa la vita, che ti stordisce. Che ti fa dimenticare lo scorrere del tempo, che ne smorza il ticchettio.
Fuori di lì, uscito dalla palestra, c’è una città che non vedi. Ci sei nato, ma non la vedi. Come non si vedono le cose troppo vicine agli occhi. Ci hai camminato dentro per anni per andare da casa a scuola, la mattina, e poi da scuola a casa a mangiare, e poi da casa alla palestra, e dalla palestra di nuovo a casa, anzi al laboratorio di tuo padre, era lì nel retrobottega che facevi i compiti. Ma tu non la vedi, la tua città. Non vedi i canali, i campielli, le calli. Non vedi i ponti che turisti di tutto il mondo pagano fior di quattrini per venire ad ammirare. Anche adesso che la guerra è finita da soli quattro anni. La seconda guerra mondiale, che ha reso tutti più poveri. Non proprio tutti. Non c’è povertà nei vestiti e negli sguardi di quegli inglesi, di quegli americani che passeggiano piano, a gruppetti, e si fermano a bere caffè e a mangiare gelati ai tavolini del Florian o di Quadri. Tu non ti ci sei mai seduto, neppure tuo padre, non è roba per voi quella lì. Tu passi oltre e non vedi. Non vedi i manifesti ormai mezzo strappati e stinti dalla pioggia della campagna elettorale del 18 aprile dell’anno scorso, quando la sinistra ha rimediato una sconfitta che rimarrà negli annali. Non vedi il russo-bestia con in bocca un bambino e sotto c’è scritto: “Se votate i comunisti i vostri figli avranno questa sorte.”
Tu vedi il futuro. Tu sai che in questa città non ci resterai a lungo. Te ne andrai da quest’umido che avvinghia le caviglie, dai compagni di scuola che ti mettono in mezzo perché sei uno un po’ strano, dal retrobottega di tuo padre dove sei costretto a studiare al pomeriggio. Te ne andrai lontano, un giorno.
Tuo padre sta tutto il tempo a prendere misure, segnare col gessetto, imbastire, cucire. Ti fa pena una vita come quella, la vita del sarto, ti sembra una vita da servo, ma stai bene attento a non farglielo capire a tuo padre. Sei grande, sai trattenere le emozioni e i pensieri. Non sei più il bambino che sbiancava alla vista del sangue per un taglietto qualsiasi. Non ti lasci più trascinare come un tempo dai compagni più robusti o più brillanti o anche solo che hanno la voce più potente della tua. Non sei più quel ragazzino lì da un giorno di due anni fa, da quando portasti a scuola una pistola automatica che avevi preso da un deposito di armi dei repubblichini dove eri finito una volta per caso, intruppato in una banda di ragazzotti un po’ più grandi di te. Quella pistola passò di mano in mano, sottobanco, fin quando a un certo punto partì un colpo, che si infilò nel muro. Urla, trambusto, paura. Nessuno si era fatto male. Ti radiarono da tutte le scuole, ma da quel giorno ti sentisti un uomo. Negli occhi dei tuoi compagni di classe, quando li incontri nelle calli, puoi specchiare questa tua sensazione.
Entravi nella sartoria a pomeriggio quasi finito, fuori era già buio. Salutavi tuo padre che quasi non rispondeva, che mai ti spingeva a studiare di più, tutto preso dal suo lavoro. Andavi nel retrobottega, ti mettevi a fare i compiti. Ragioneria, estimo, diritto. Cose che a te non dicevano nulla. Numeri, colonne, articoli del codice da imparare a memoria. Studiavi per dovere, ma questo dovere non lo capivi. A niente ti avrebbe portato, non era roba per te. Ma studiavi. Più che studiare leggevi, però. Quei libri nascosti da tuo padre in soffitta, come se ne vergognasse. Tu li avevi trovati, e adesso te ne cibavi. Un Compendio del Capitale scritto da Carlo Cafiero, il ’93 di Victor Hugo, Il tallone di ferro di Jack London. E Lenin, che ti eri procurato per conto tuo.
Dopo che ti hanno buttato fuori da scuola, tuo padre ti trova un lavoro. Dattilografo in una ditta import-export. Ci vai vestito in giacca e cravatta, porti lo stipendio a casa, fai il ragazzo per bene. Ma non sei un ragazzo per bene, lo sai tu per primo. Ogni tanto sgraffigni due lire dalla cassa, quando l’impiegata va in bagno e si dimentica il cassetto mezzo aperto. E quelle due lire te le tieni per te, non le porti a casa. Oppure ti fai le seghe sotto la scrivania, se il direttore non c’è. Potresti chiuderti in bagno, ma ti piace quel rischio di essere scoperto, di farla franca sotto gli occhi delle persone che ti danno da vivere.
Batti sui tasti. Sbagli poco. Ti annoi da morire. Moduli doganali, richieste di preventivi. Sempre la stessa sbobba, quasi peggio del mestiere di tuo padre.
Resisti pochi mesi. Un mattino di novembre di quel 1949, una nebbia bianchissima, arrivi in ufficio più presto del solito e la prima cosa che fai è scrivere una lettera di dimissioni. Non avevi intenzione di farlo, non ci avevi pensato, riflettuto, non lo avevi deciso. Ma lo fai. Poche righe, nessuna spiegazione. La lasci sulla scrivania del direttore. Ti rinfili il cappotto, esci fuori.
Non hai assolutamente idea di cosa farai d’ora in avanti. Hai sedici anni, non vai a scuola e non hai un lavoro.
Sorridi.
IL PIO
Ci sono suo nonno e suo padre, nella stanza. Suo nonno lo sta sgridando. Il padre di suo padre. L’uomo forte di casa. Lui ha sette anni, e suo nonno è un vecchio.
Mandalo in collegio questo tuo figlio, dice il nonno a suo padre.
Lui ha paura. In collegio non ci vuole andare. In collegio ci vanno i bambini cattivi. Lui vuole stare con sua sorella Teresa, appena nata, con suo padre e sua madre. Anche con suo nonno, per cui nutre un misto di affetto e timore. Cerca di capire perché il nonno lo voglia mandare in collegio. Il capriccio, forse. Il capriccio del pomeriggio, quando si è impuntato per costringere la tata a rimanere lì sul marciapiede a guardare quelli che sfilavano. Tutti vestiti di nero. Col cappellino nero e la nappa sulla nuca che ballonzolava. Cantavano e gridavano. Non capiva bene che cosa. Si chiamano fascisti. Gli piacevano tanto. Gli piacciono.
Mandalo in collegio questo tuo figlio, ripete il nonno. Ha da esser raddrizzato.
Adesso di anni ne ha undici. In collegio poi non ce l’hanno mandato. Va a scuola dai preti, come quasi tutti lì intorno. I compagni di classe hanno gli...