E-Book, Italienisch, 614 Seiten
Fountain America brucia ancora
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-3389-213-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Reportage dalla campagna presidenziale 2016
E-Book, Italienisch, 614 Seiten
ISBN: 978-88-3389-213-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
America brucia ancora è un reportage dalla scioccante campagna elettorale 2016, quella in cui il mostro della politica americana si e? infine ribellato al suo creatore, la realta? ha superato la fantasia e uno dei candidati ha fatto e detto cose che avrebbero affossato chiunque altro uscendone non solo indenne, ma vincitore. Come diavolo siamo arrivati a questo punto? Per provare a dare una risposta Ben Fountain indaga il passato - dal razzismo mai sradicato che ha avuto la sua massima espressione nella «Southern strategy», al culto della personalita? che ha portato alla ribalta celebri cialtroni, alle diseguaglianze che affondano le radici nello schiavismo e sono state poi replicate in ogni epoca. Nelle sue mani la storia torna nuova, fresca, viva, e si fonde con il presente per darci un vivido ritratto della nazione: una diagnosi dei sintomi che ammalano l'America e al tempo stesso un'affascinante chiave di lettura utile a gettare luce sugli scenari futuri. Gia? due volte, infatti, gli Stati Uniti hanno dovuto bruciare la propria identita? per ricostruirla in modo radicale: la prima fu la sanguinosa guerra civile combattuta per mettere fine alla schiavitu?, e la seconda fu la Grande Depressione, che innesco? le politiche del New Deal e la nascita dello stato sociale. Quella a cui assistiamo oggi potrebbe essere la terza crisi esistenziale dell'America. Sulla scia del lavoro condotto da Hunter Thompson nella campagna presidenziale del 1972 e da Joan Didion in quella del 1988, Ben Fountain, con il suo occhio per l'assurdo e la sua capacita? di mappare le compulsioni, le stranezze e l'ostinato attaccamento alla fantasia dell'America, ci regala uno dei migliori scritti politici degli ultimi cinquant'anni.
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PROLOGO
LA TERZA REINVENZIONE
Il 2016 è stato l’anno in cui le parti dell’America più psicopatiche hanno travolto e sbaragliato le altre. Schermi, meme, fake news, valanghe di tweet, hacker russi, donne , le email di Hillary, la guerra, il muro, l’ululato dell’alt-right, le dimensioni delle «mani», bugie su bugie su bugie e soldisoldisoldi – più sono i soldi, più sono le bugie, non è questa la regola ferrea della politica? – tutto ciò ha dato come risultato una porcheria di elezione da un miliardo di dollari. Non si trattava più dei Democratici contro i Repubblicani, ma di uno strano essere mutante generato a partire da tutto ciò che di triste, psicotico e vendicativo vi fosse nella vita americana: una creatura che obbedisce a una logica politica degenerata. La logica di questa politica – la logica di Frankenstein – esige che alla fine il mostro si rivolti contro il suo creatore. La logica non ci dice chi vincerà. A deciderlo sarà il tran tran quotidiano dei guadagni e delle perdite, ma è difficile immaginare un conflitto più spettacolare: la creatura ad alto funzionamento generata dalla schizofrenia americana che si ribella contro il sistema che l’ha messa al potere.
Definire Donald Trump un ipocrita è un affronto all’entità del fenomeno. Spingendosi sempre più in là lungo lo spettro dell’ipocrisia alla fine si sconfina nella schizofrenia, e soltanto la malattia mentale può illustrare la portata dei risultati di Trump: un candidato che non perdeva occasione per sbandierare i valori della famiglia, un uomo con due divorzi alle spalle, un traditore seriale da rotocalco e un campione del trash talk a sfondo sessuale. «La persona meno razzista sulla faccia della terra», si è autodefinito, mentre animava la sua campagna elettorale con appelli razzisti così plateali e rabbiosi da guadagnarsi l’appoggio di neonazisti, KKK e alt-right, che lo hanno acclamato con un entusiasmo che faceva pensare al ritorno del Messia. Dopo aver fatto carriera come uno dei più celebri libertini dei nostri tempi, nel corso della campagna questo autoproclamato genio degli affari con un trascorso di bancarotte, salvataggi statali, insolvenze e collusioni mafiose ha cominciato a portarsi dietro la Bibbia e a citarla a tutto spiano. Uno che ha schivato il servizio di leva ma è innamorato dell’esercito; uno sbruffone machista e schizzinoso germofobico; un paladino del made in Usa e rivenditore di vestiti griffati fabbricati oltreoceano; un fiero patriota con una misteriosa simpatia per uno dei più accaniti nemici dell’America, Vladimir Putin. Il miliardario Trump ha condotto una campagna elettorale ferocemente populista, riuscendo al contempo a non offrire alcuna proposta concreta o quantomeno coerente che potesse giovare alla working class – in termini di tasse, salari, diritti sindacali e assistenza sanitaria – e in compenso a promettere enormi benefici alla upper class con il suo piano fiscale.
Il tutto alla luce del sole. La dissociazione di Trump era lì in bella mostra, e lui la strombazzava coi modi pacchiani del più tipico stronzo newyorkese. Ancora più strano, dunque, che proprio lui, la star simbolo del lifestyle metropolitano, fosse diventato l’eroe della dell’America profonda in quei milioni di acri di Bible Belt ultracristiana che saldano il Centro e il Sud della nazione. Il tizio di Sodoma e Gomorra era uno a posto! Insulti e volgarità venivano recepiti come autenticità: finalmente c’era qualcuno che gliel’avrebbe messo in quel posto alle élite dopo anni e anni passati a mandare giù le loro stronzate, il buonismo spocchioso sulla tolleranza e la diversità che quei saputelli che volevano spiegarci come va il mondo ci hanno fatto ingollare a forza. Era insopportabile. Lo avevamo interiorizzato. Ci hanno fatto diventare deboli e delicatucci, noi che un tempo eravamo forti. Ma poi arriva uno con i controcazzi che ogni volta che apre bocca dice le cose come stanno, le cose che per anni avremmo voluto gridare mentre passavamo la vita a scusarci per il solo fatto di essere come siamo, a sentirci sminuiti, avviliti, repressi, scazzati, cento vaffanculo al giorno mugugnati contro Obama e i suoi compari, e da Washington mazzate su mazzate ogni giorno che Dio manda in terra. Un miracolo, l’uomo bianco che dice quello che gli pare! Liberi, finalmente liberi!
Questa potrebbe essere la più potente medicina in mano alla politica, il leader che riconsegna l’uomo al suo stato naturale. Essere riconosciuti per ciò che si è, legittimati e benedetti dall’alto: potremmo considerarla quasi un’esperienza spirituale. Un gravoso fardello si è sollevato dalle nostre spalle. Basta dubbi, basta disgusto, solo la certezza che sei nel giusto e hai Dio dalla tua parte. C’è in ballo anche un elemento estatico. Sesso a parte, quale migliore fonte di eccitazione che l’essere riconsegnati a se stessi, liberati dalla disapprovazione dei tuoi nemici? Si percepiva un po’ di quell’estasi nei comizi di Trump: quei «Costruisci il muro!» e «Mettetela dentro!» latrati come facevano gli antichi romani quando guardavano i leoni affondare i denti nella carne dei cristiani.
«Dice le cose come stanno». Quante volte lo abbiamo sentito lodare in questi termini. «Dice quello che un sacco di gente pensa». Parrebbe proprio di sì; molti più di quanti fossero disposti ad ammetterlo nei sondaggi, anche se viene da chiedersi quanto sia già di per sé solida l’identità bianca, visto che la cortesia più elementare, che è alla base del politicamente corretto, viene percepita come una minaccia mostruosa. Se la crisi economica viene presentata come la motivazione per eleggere Trump – una motivazione socialmente accettabile – resta il fatto che milioni di suoi sostenitori hanno palesemente votato contro il loro stesso interesse economico. Le donne bianche hanno votato lui a dispetto della battaglia di Hillary per la parità dei salari e del suo vasto programma integrativo che prometteva di fornire un po’ di supporto nell’estenuante impresa – che ricade principalmente sulle donne – di conciliare la vita domestica e il lavoro. I bianchi della working e middle class hanno votato per lui nonostante le sue politiche del tutto convenzionali che puntavano ad arricchire ulteriormente i ricchi (tralasciando i rant contro gli accordi commerciali) e che, specialmente all’interno delle classi medio-basse, hanno affossato i salari, abbassato la speranza di vita, innalzato il tasso di tossicodipendenza e di suicidi, e reso la mobilità verticale un’eccezione invece che una regola. L’elezione di Trump sembrava il trionfo delle politiche dell’identità – l’identità bianca – sull’interesse economico.
D’altro canto forse le politiche dell’identità economia. Forse la vittoria di Trump può essere spiegata soltanto con il più brutale realismo economico, un affinatissimo intuito popolare su come funziona da sempre in America la faccenda dei soldi e della razza. È da notare che molti milioni di americani nutrono l’implicita – e non del tutto irragionevole – convinzione che la libertà sia un bene limitato, al punto che se un qualsiasi gruppo, tribù o congrega ne ottiene di più, altri devono necessariamente averne di meno. E poi c’è un corollario, che ci porta più vicini al nocciolo della questione: meno libertà si ha, più si è soggetti allo sfruttamento economico. Mettete insieme questi due principi e otterrete quella che possiamo chiamare la struttura antropologica americana, i due rami di un sanguinoso dilemma sul quale l’esperimento democratico si è retto in equilibrio per 240 anni. Il profitto è proporzionale alla libertà; lo sfruttamento è correlativo al soggiogamento. In termini pratici, nella maggior parte dei casi il principio organizzativo è stato basato su razza e genere, di cui la schiavitù dei neri è l’esempio più brutale. È chiaro quanto i numeri nei libri contabili di una piantagione di riso sul fiume Cooper in South Carolina: lo schiavismo su base razziale è stato il motore che ha generato immani ricchezze. L’emancipazione degli schiavi ha stornato qualcosa come quattro miliardi di dollari di capitale dalle finanze degli schiavisti del Sud. Ha anche, letteralmente, ridotto la libertà che quegli schiavisti detenevano sulla vita dei loro ex schiavi; o, volendo essere ancora più sottili, ne ha ristretto i diritti, le prerogative, il campo su cui poter esercitare il proprio libero arbitrio. Lavori forzati, aggressioni, furti, stupri, torture, mutilazioni, omicidi, rapimenti erano comunemente accettati e rientravano appieno tra i diritti degli schiavisti: meccanismi di controllo all’interno di una struttura sociale organizzata in modo da consentire la depredazione su scala industriale. Letteralmente il potere – diritto – di vita e di morte: in un certo senso un monopolio della libertà. Gli schiavisti americani godevano di un grado di libertà che oggi associamo ai signori della droga e ai dittatori folli del Terzo Mondo.
Se la depredazione è proseguita in forma appena meno brutale dopo l’Emancipazione dei neri, all’orizzonte si profilava una sfida perfino più grande, una depredazione più generalizzata in cui la razza avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale. Jay Gould, il dell’Ottocento, ne diede un’avvisaglia quando affermò: «Potrei assoldare metà della classe operaia per ucciderne l’altra metà». Un approccio incredibilmente schietto alle politiche divisive,1 per quanto Gould non avesse bisogno di arrivare a tanto. In realtà non doveva assoldare nessuno: grazie al retaggio razzista in America è facilissimo farsi fare il lavoro gratis. Generazioni di sciacalli politici hanno arricchito se...




