E-Book, Italienisch, 336 Seiten
Reihe: Narrativa
Garner Come piombo nelle vene
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-090-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 336 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 979-12-5480-090-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nel suo folgorante debutto, originariamente pubblicato nel 1977, Helen Garner ci porta con sé nella Melbourne 'marginale' dell'epoca, raccontando un mondo e una generazione sino ad allora ignorati dalla letteratura. Nora, alter ego dell'autrice, ha trent'anni e una figlia, Grace, con cui abita in una comune popolata da amici artisti e altri bambini. E poi c'è Javo, poco più che ventenne, che entra ed esce di casa così come dalla sua vita. A legarli un filo sottile, la dipendenza: quella di Nora da lui, e quella di Javo dall'eroina. Nel loro rapporto il sesso sconfina in maniera inesorabile in un forte legame emotivo, ma la droga soffoca ogni progetto di futuro insieme, trasforma Javo in un uomo in perenne fuga. La vita di Nora, narrata pagina dopo pagina come in un diario, diventa così un'intensa danza di passione e abbandono. I personaggi di Garner desiderano la beatitudine e rischiano il fallimento, mentre cercano con ostinazione nuovi modi di amare e vivere. Come piombo nelle vene è un romanzo lirico e implacabile, un capolavoro della letteratura australiana.
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Acqua profonda
Nella vecchia casa marrone all’angolo, a circa due chilometri dal centro della città, mangiavamo bacon a colazione ogni mattina della nostra vita. Mai che bastassero le sedie per sistemarci tutti al tavolo da pranzo; uno o due di noi si ritrovavano sempre seduti a terra oppure sullo scalino della cucina, col piatto in bilico sulle ginocchia. Non ci è mai venuto in mente d’insegnare ai bambini a mangiare con forchetta e coltello. Erano pura fame e funzioni basilari: il chiasso, l’acciottolio dei piatti, la gente che masticava a bocca aperta e parlava e rideva. Ah, se ero felice allora. Di notte il giardino dietro casa profumava di campagna.
Erano i primi giorni d’estate.
E ogni cosa, come sempre accade, prese a sussultare e cambiare.
E dire che ce l’avevo già, qualcuno da amare. C’era Martin, che come molti quell’estate vacillava sul ciglio vertiginoso dell’eroina, ma che da noi era di casa come un qualsiasi altro reietto. Dormiva come un sasso nel mio letto, di prima mattina scattava in piedi insieme ai bambini, era molto paziente con la mia irascibilità e con i capricci del mio cuore incostante. Ma poi se ne andò a nord per due settimane e quasi per indolenza, al volgere dell’anno, m’innamorai del nostro amico Javo, scroccone patentato, che era appena stato a Hobart a ripulirsi: ne avevo scrutato la pelle bruciacchiata e il naso sfregiato e gli occhi di un azzurro da far male. Ci ritrovammo seduti vicini al cinema, io tenevo Gracie sulle ginocchia. Lui mi aveva appoggiato una mano sulla nuca. Bastò un’occhiata, ce ne saremmo tornati a casa insieme senza scambiarci nemmeno una parola; invece, all’uscita incrociammo Martin che correva dentro, di ritorno da Disaster Bay. Per pudore, Javo inforcò la bici e se ne tornò a casa.
Chi non si faceva problemi di pudore, al contrario, era Martin che mi disse timidamente, forse sapendo nel profondo che niente sarebbe stato più lo stesso: “Mi piacerebbe riuscire… insomma… a farti ”. E andò così, in un modo o nell’altro riuscimmo ad amarci: tenni stretta tra le braccia la sua testolina aguzza riccioluta. Dormimmo come bambini, con la confidenza di chi non ha neanche più bisogno di toccarsi.
Mi svegliai l’indomani e nello stesso istante sentii un gallo cantare in qualche cortile e un orologio rintoccare in una delle case su Woodhead Street. Mi aggiravo per le stanze. Stanze in cui si dormiva da soli in letti matrimoniali, con addosso nient’altro che un lenzuolo e con le facce brunite sui cuscini rigidi. Gracie e il figlio di Eve, il Pollastro, stavano stravaccati sui loro letti a castello. Un pesce di vetro tintinnava contro la finestra.
Misi su il bollitore per il caffè, con lo sguardo puntato oltre le feritoie della finestra verso l’erba incolta e il cielo già di un azzurro incandescente.
Alla piscina di Fitzroy, Martin e Javo ciondolavano sul cemento arroventato. Io mi trastullavo nell’acqua sul lato più alto della vasca, dove un cartello segnalava: ACQUA PROFONDA.
“Gli altri mi aspettano su a Disaster Bay,” annunciò Martin. “Oggi ci rivado. Perché voi due non venite con me?”
“Ok,” rispose Javo, che tanto non aveva di meglio da fare, la sua vita era tutta una caotica vacanza a scrocco degli amici.
“Nora?”
Continuai a galleggiare a pelo d’acqua, immergevo le orecchie per non sentire e nel frattempo vagliavo, ignorandoli, tutti i motivi per cui sarebbe stato meglio non andarci. Saltai fuori, aggrappandomi al corrimano coi capelli che mi avviluppavano il collo.
“Ok. Vengo anche io”.
Javo mi fissava.
Col senno di poi, riesci quasi a scorgerlo l’inizio di tutto, il punto esatto in cui ci eri già dentro fino al collo, anche in quel momento credevi che avresti soltanto sondato l’acqua con la punta del piede.
Passammo a prendere Gracie all’asilo e lasciammo Melbourne quello stesso pomeriggio. Attraversammo il confine con il Nuovo Galles del Sud che ormai era notte fonda. Il campeggio dove gli altri aspettavano le scorte di Martin era a circa due chilometri dal punto in cui la strada finiva, su una spiaggia sassosa. Era buio e la marea sferzava gli scogli. Tenevo in braccio Gracie, che era troppo spaventata per parlare, e guadavo alla cieca seguendo la voce di Martin. In un attimo mi ritrovai zuppa fino alle cosce. Ogni volta che un’onda si ritirava, tantissimi granchi invisibili mi zampettavano tra i piedi sugli scogli aguzzi. Intravedevo davanti a me il profilo di Javo, con gli stivali penzolanti da una spalla. Nelle mie orecchie nient’altro che confusione e il fragore del mare. Martin mi aiutò a inerpicarmi su per l’ultima pendenza, Gracie mi stava avvinghiata alla schiena come una scimmia, e nel silenzio improvviso tra un’onda e l’altra scorsi il luccichio della tenda in un piccolo avvallamento. Vi entrammo barcollando. Gli altri si svegliarono in una selva di tappetini e sacchi a pelo.
“Avete portato da mangiare?” Riconobbi la voce di Lou.
“Mica potevo trascinarmi tutto appresso tra gli scogli,” mentì Martin, che se n’era dimenticato per la fretta di condurci lì.
“Ti aspettavamo ieri, bello,” lo redarguì Lou senza troppa convinzione. “Ci è rimasta solo quella cazzo di farina. Dov’eri finito?”
Anche gli altri iniziavano a tirarsi su fra le coperte. Ci abituammo al buio.
“Sono stato trattenuto,” rispose Martin, ma si era già scrollato di dosso il problema, e si stava sfilando i pantaloni per mettersi a letto a pancia piena.
“Sei proprio un viscido,” sbuffò Lou. Si rigirò su un fianco e si rimise a dormire.
Mi vidi riflessa in una vetrina di Merimbula e mi prese un colpo: avevo i capelli annodati e stopposi di sale, tutti rigidi sulla testa. La faccia talmente spellata da sembrare nuovamente pallida, e gli occhi strabuzzati che spuntavano dalla pelle sporca. Mi piacevo: avevo un’aria forte e sana.
Martin però era infelice, e con mia grande vergogna io non mi sprecavo in smancerie.
Una mattina, mentre gli altri erano a Eden a comprare da mangiare, mi accovacciai su un lembo di sabbia umida tra due massi e mi misi a impastare palle di sabbia insieme ai bambini. Continuavamo a impastare, ipnotizzati, lanciando le palle contro la secolare superficie bucherellata degli scogli, canticchiando tra di noi canzoni segrete. Il sole ci batteva dritto sulla nuca e sulle spalle, già brunite come cuoio. Cantavamo e giocavamo e cantavamo ancora, nudi e sudati. In cima a uno scoglio sedeva Lou col suo rilegato in pelle. Sottovoce ne recitava estratti agli elementi, il tremolio di un sorriso commosso che andava e veniva dal suo viso scarno, addolorato.
“…ma solo l’immenso naufragio di tutti i miei meriti…”
Superai gli scogli riarsi per andare a recuperare il cappello, e invece trovai Javo spaparanzato su un telo sull’erba fresca; non era nudo come tutti quanti noi, ma spurgava sudore sotto il sole impietoso, coi capelli appiccicaticci, la pelle unta d’olio di cocco. Mi allungai accanto a lui e le nostre pelli accaldate si toccarono. Da vicino aveva la faccia sbilenca, rovinata e selvatica. Gli occhi erano azzurri come le pietre azzurre o come l’acqua colorata con un qualche potente additivo chimico. Gli cinsi la schiena unticcia col braccio asciutto, caldo. Si muoveva come un bambino, alternando scatti e tenerezza. Lo sentivo respirare.
Un centinaio di metri più in là, le risate dei bambini evaporavano nell’aria azzurra, così azzurra.
All’arrivo del ranger nei suoi calzettoni bianchi, Selena e Lou si erano già beccati l’epatite e nel pomeriggio sbaraccammo tutto, dandocela a gambe con quel briciolo di dignità che ci restava e le nostre cose radunate in fretta e furia. Javo non aveva mai preso la patente, e Lou e Selena stavano troppo male; si sostenevano grazie ai cuscini sui sedili davanti, pallidi ma determinati a non lamentarsi. Sarebbe toccato a me e Martin trasportare il carico a sud lungo la litoranea. Sulle prime eravamo tutti irrequieti per via del malumore, tra gelosie e malanni vari. Arrivato il turno di Martin al volante, andai a sedermi dietro con Javo. Presi tutti e due i bambini in braccio, e gli raccontai una lunga storia ipnotica su come si sarebbero sbafati questo mondo e quell’altro per poi sbranarsi a vicenda. Gli altri ascoltavano oltre il rombo del motore, e ridevano. Javo stava con le lunghe gambe distese in avanti a sfiorarmi il ginocchio, ogni tanto mi accarezzava la coscia con i polpastrelli smangiucchiati.
Sui sedili davanti, gli altri non facevano che cantare. La voce dolce di Selena s’inacutì appena, la malattia per un attimo dimenticata in quel procedere ininterrotto verso sud mentre fuori scendeva la sera. Javo gracchiò: “Oh, ve la ricordate ?” Attaccò a cantare. “Some people say a man’s made outa mud / a poor man’s made outa muscle and blood…”
Osservavo la luna simile a un tocco di gouda, inspirai il profumo erboso dell’aria tiepida; sentivo gli arti ossuti e la carne tenera dei bambini, e pensavo ah, non c’è nulla di più dolce: due bambini in braccio e un uomo qui accanto e le canzoni e i viaggi d’estate.
Per fare certi pensieri, m’imponevo di dimenticare l’angoscia di Martin che era lì a...




