La Capria | Ai dolci amici addio | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Ritratti

La Capria Ai dolci amici addio


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-872-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Ritratti

ISBN: 978-88-7452-872-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



I ritratti raccolti in questo libro, dedicati da Raffaele La Capria ad alcuni tra i suoi piú cari amici scomparsi, si collocano all'incrocio tra ricordo, racconto, biografia sintetica e autobiografia: perché, come dice l'autore con semplicità, 'senza di loro oggi non sarei quello che sono'. Chiunque conosca le ragioni profonde e i cammini tenaci dell'amicizia non potrà non rimanere colpito da queste testimonianze: Rosi, Patroni Griffi, Moravia, Morante, Bompiani, Parise, Garboli, Ortese (tra gli altri) - a ognuno dei 'dolci amici', con le parole di Dante, è dedicato un addio appassionato, intenso e ricco di vita che, anche in questo nostro 'tempo smemorato', li fa emergere dalle pagine con la schiettezza, nettezza di contorni e vivacità cui da sempre l'autore ci ha abituati. E raccontando di loro, descrivendone con grandissimo affetto 'le opere e i giorni', lo scrittore racconta pure di se stesso e dei lunghi anni che ha attraversato: le stagioni culturali, gli incontri, il lavoro, le città, i viaggi, i libri, i pensieri - una speciale ricchezza che questo libro ci restituisce intatta.

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Franco Rosi


Ultimamente Franco Rosi ed io ci telefonavamo tutti i giorni, lui stava male e il suo male era uno di quelli tenaci, che non perdonano. Non so quanto ne fosse consapevole, ma mi diceva sempre, con una specie di distaccata rassegnazione: “È duro da sopportare, ci vuole pazienza, molta pazienza”. Ha pazientato fino ad oggi, poi ha mollato. Quando andavo a trovarlo, per distrarlo gli parlavo sempre dei suoi film, i suoi film erano la sua vita, anzi erano ciò a cui aveva affidato la sua sopravvivenza, perché sapeva di aver fatto dei film che avevano un posto importante nella storia del cinema. Glielo confermavano gli apprezzamenti che gli arrivavano da Martin Scorsese, da Francis Ford Coppola, dai grandi critici francesi. Avevamo lavorato insieme per molti suoi film, lui ed io; avevo partecipato alla sceneggiatura di Mani sulla città, di Cristo si è fermato a Eboli, di Uomini contro, di C’era una volta. La nostra è stata non solo un’amicizia di sentimenti ma anche di lavoro, durata circa ottant’anni: da quando ragazzini ci tuffavamo nelle acque di Posillipo, poi a scuola nello stesso liceo dove studiavano anche Peppino Patroni Griffi, Giorgio Napolitano e Antonio Ghirelli, e quindi a Roma dove arrivammo coi nostri sogni e le nostre ambizioni, e col tempo avemmo anche molte soddisfazioni. Franco riuscí a fare i suoi bellissimi film, Peppino diventò un commediografo di successo, Antonio Ghirelli si affermò come storico e grande giornalista sportivo, e Giorgio Napolitano diventò addirittura presidente della Repubblica. Non ci possiamo lamentare, se si pensa a come eravamo partiti da Napoli, con pochi soldi e senza nessuna protezione. Ma tra gli amici, quello a cui sono stato piú vicino, anche per temperamento, è stato Franco, e oggi che non c’è piú mi sembra che se ne sia andata anche una parte di me.

Quante cose abbiamo fatto insieme! Non solo i film, ma anche i viaggi per i sopralluoghi: in Spagna per Il momento della verità seguimmo tutte le corride di Miguelín, conoscemmo Dominguín e la Bosè, ed esplorammo l’Estremadura. In Basilicata per Cristo si è fermato a Eboli scoprimmo gli antichi paesaggi e la vita dei contadini, la loro civiltà. A Napoli per Mani sulla città assistemmo alle sedute del Consiglio comunale e andammo a rovistare tra le carte del Comune per vedere le mappe, le concessioni edilizie, i permessi, gli imbrogli. E come fu bella la sera in cui a Venezia andammo a ritirare il Leone d’oro per questo film! Franco ed io in smoking fummo fotografati e apparimmo sui giornali sotto il titolo: “I leoni di Napoli”. Che ridere, chi lo avrebbe immaginato.

“Tel qu’en lui-même enfin l’éternité le change”, questi versi di Mallarmé per la morte di Edgard Allan Poe potrebbero anche essere interpretati cosí: “Tal quale la morte (l’éternité) lo trasforma facendolo diventare finalmente se stesso”; cioè, solo dopo che uno è morto capiamo chi veramente è stato. Questi versi mi sono venuti alla mente quando Franco è morto, perché solo dopo che lui è morto ne ho capito la grandezza. Finché era vivo e parlavamo un po’ di tutto, era il mio amico e basta. Ma dopo che è scomparso, la lettura del suo libro Io lo chiamo cinematografo mi ha fatto capire che gran parte della sua vita mi era sconosciuta e che, nonostante la confidenza e la lunga frequentazione, mi era sfuggita. Ho capito che il mio è un mestiere solitario, che carta e penna e un po’ di fantasia sono sufficienti per uno scrittore come me, mentre un regista deve incontrare una gran quantità di persone, fare molti viaggi per trovare le ambientazioni dei suoi film, superare un infinito numero di difficoltà, senza contare l’affannosa ricerca dei milioni che occorrono per realizzare i suoi progetti. Tutta questa parte della sua vita, che si era svolta lontano da me, è raccontata appunto in questo libro di trecento pagine ricavato dall’intervista che Giuseppe Tornatore gli ha fatto. È scritto in uno stile conversativo, molto semplice anche quando affronta argomenti non facili riguardanti la genesi e il significato dei suoi film, o i suoi affetti familiari che hanno risvolti molto tragici, come dirò. Chiunque voglia sapere com’era Franco dovrebbe leggere questo libro che è come il suggello di una vita molto operosa e molto combattuta, tante volte coronata dal successo internazionale. Il testo, nato per raccontare il suo cinema, si è trasformato man mano in un’autobiografia, stavo per dire una confessione, ricca di eventi luoghi e persone, ma anche di riferimenti alla sua vita interiore, ai suoi sentimenti. Fare un film, specie in Italia, è un’impresa non facile, devi convincere un gran numero di interlocutori, soprattutto devi essere tu stesso molto convinto per convincere gli altri, devi avere idee che puoi realizzare solo insieme agli altri, e sono tanti i fattori imprevedibili che ti costringono a modificare in corso d’opera quanto avevi progettato. Diceva il grande Giambattista Vico: “Conosco facendo”. Questo è vero soprattutto per un regista, perché “facendo” trova l’ambientazione adatta, il protagonista, le comparse e tutta la lunga lista di persone che fanno parte della troupe, dal montatore al costumista, dall’operatore al musicista. È come un’orchestra che bisogna dirigere, controllare, armonizzare. Lavorando con Franco e con altri collaboratori alla sceneggiatura di molti suoi film ho capito meglio come lui ed io eravamo condizionati dalla diversità del nostro mestiere; il suo richiedeva una molteplicità di impegni, anche psicologici, una duttilità ed un’adattabilità che io non avevo considerato come dovevo. Lui partiva per l’America Latina, per Cuba al tempo di Castro e del Che, li incontrava personalmente, parlava con loro, poi andava in Perú o in Venezuela per un altro film, e tutto sembrava normale, ciao, ciao, e al suo ritorno si stava insieme come prima. In realtà, lui aveva fatto esperienze importanti di cui mi sono reso conto fino in fondo solo ora, leggendo il suo libro. Io ero vissuto in un recinto intellettuale piú protetto e avevo avuto meno occasioni di scontrarmi col mondo, e tutto questo mentre leggevo Io lo chiamo cinematografo accresceva la mia ammirazione per lui. Non avevo mai pensato, anche se può sembrare esagerato, alla sua “grandezza”, che stava nel realizzare al meglio le proprie possibilità. Ora invece sí, lui mi appariva “tel qu’en lui même enfin l’éternité le change”, mi appariva insomma un grande personaggio, grande come non l’avevo mai considerato, perché l’amicizia fa di questi scherzi.

Il libro è come un film in cui si parla dei suoi film, molti dei quali sono capolavori. Mani sulla città, Salvatore Giuliano, Uomini contro, Cristo si è fermato a Eboli, Carmen per me sono capolavori, e non sono pochi. Tutti i suoi film parlano dell’Italia, mettendoli in fila si potrebbe fare la storia del nostro paese di questi ultimi anni, una storia spesso difficilmente decifrabile e molto poco chiara. Sono film che dopo la grande stagione del Neorealismo, quello di Rossellini, di De Sica, di Germi, introducono una nuova forma di realismo piú critico e meno sentimentale, fatto di passione civile e analisi sociale, e con una struttura narrativa piú complessa. Quello di Rosi è il cinema della democrazia ammalata, una democrazia che non è riuscita mai a scoprire gli autori delle stragi e dei delitti, né a chiarirne le motivazioni o le cause. Questa particolarità fa sí che la forma espressiva dei suoi film, la costruzione e il montaggio siano anch’essi concepiti in funzione di questa impossibilità di venire a capo dei fatti. E la loro struttura rassomiglia quindi a un mosaico in cui le tessere scomposte lasciano soltanto intravedere la figura nascosta – e cioè la mafia, i Servizi Segreti, oppure alcuni corpi dello Stato – e l’apparente disordine produce al contrario nello spettatore il tentativo di ricomporlo, di legare e di connettere i fatti, il desiderio di afferrare quella verità che il film mette sotto gli occhi e che riproduce fedelmente la realtà di questi anni. Cosí le opere di Rosi ci trasmettono sia col contenuto, sia con la forma lo smarrimento tragico che attanaglia la coscienza civile di tanti italiani, ma anche la volontà, la lucida determinazione di vigilare per superarlo. Come dice nel libro: “Dovevo far capire al pubblico la difficoltà di acciuffare la verità. Questo dovevo fare. E io dico che questa è la forza del film”.

Il soggetto di Mani sulla città fu concepito per iniziare una battaglia contro la speculazione edilizia che sotto l’amministrazione del sindaco Lauro stava devastando la nostra città. Credevamo allora, Rosi ed io, che denunciare attraverso un film i meccanismi politici, amministrativi e sociali della speculazione significasse combatterla e forse, se non eliminarla, almeno attenuarla. Il cinema ci pareva l’arma piú efficace per raggiungere questo scopo, ed è da questa convinzione, fortemente radicata – come tante illusioni che allora nutrivamo – che sono nati i film piú impegnati di Franco Rosi.

Mani sulla città è, tra le sue opere, quella in cui si viene a capo della situazione, nel senso che se ne conoscono le cause e le conseguenze, si individuano gli speculatori e chi li favorisce e, con un procedimento brechtianamente pedagogico, se ne traggono le conseguenze. È stato con un lavoro simile a quello di un’inchiesta giornalistica che Rosi ed io abbiamo costruito il soggetto: abbiamo percorso le vie e i vicoli di Napoli documentandoci su ogni minimo particolare, siamo entrati con finte richieste negli uffici comunali, abbiamo spulciato archivi, controllato mappe di piani regolatori, discusso con capi ufficio e con...



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