E-Book, Italienisch, 122 Seiten
Marchesini Atti mancati
1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-6243-287-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 122 Seiten
ISBN: 978-88-6243-287-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nel cuore di Bologna, Marco, trentenne diviso tra le incombenze giornalistiche e il tentativo di finire un romanzo, vive in una solitudine cocciuta e il più possibile asettica, fino a quando ricompare Lucia, la ragazza che lo ha lasciato qualche anno prima. Ora Lucia cerca Marco, lo assedia e lo porta in giro per paesi e campagne, a visitare i loro luoghi di un tempo, a ritrovare gli amici vivi e gli amici morti. Tra Bassa e Appennini, tra cliniche e osterie, Lucia - come una fragile ma tenace erinni - costringe Marco a rianalizzare le zone più oscure del loro passato. Atti mancati è una storia d'amore e di suspense. È una parabola sul tempo trascorso ostinatamente a occhi chiusi e su quello vissuto a occhi spalancati. È il referto di una malattia, steso con furore analitico e insieme con uno stile semplice, da presa diretta.
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IV.
Un’ora più tardi sono seduto con Lucia all’ex bar di Azio, che da quando il leggendario titolare ha avuto un ictus è stato trasformato in un’anonima tavola calda per fuorisede. Bernardo ci ha raggiunti, ma solo per darci un breve saluto: non è riuscito a disfarsi del capannello di professori e funzionari che gli s’è appiccicato addosso appena terminata la cerimonia, e dovrà andare a pranzo con loro al Diana. Mentre lui sta qui, in piedi di fronte al nostro tavolo, loro ci guardano da dietro i vetri, in attesa, già un po’ innervositi.
Per un lungo momento corre tra noi un triangolo di sguardi fluido, ammiccante, quasi il riflesso involontario di un tempo lontano. A un tratto realizzo che è da quando c’era ancora Ernesto che non ci troviamo così, faccia a faccia davanti a un aperitivo.
Ma quel passaggio di corrente dura poco. Poi gli occhi di Lucia si fissano su Pagi, e di colpo sembrano quasi impauriti, quasi imploranti. Ride sforzata ai complimenti galanti di Bernardo, che pure ha un’espressione stranamente assorta e preoccupata. Sento che qualcosa mi sfugge, ma non faccio neppure in tempo a chiedermi cosa sia, che lui ha già reindossato la sua maschera sorniona.
“Ma sono ancora lì?” ci domanda dando ostentatamente le spalle ai vetri. “Sembrano dei corvi. Basta una mattina così, e mi ricordo perché me ne sono andato dall’università. Prima è venuto questo allievo di Eco, mica ho capito che cosa voleva, sembrava un diplomatico pronto a un armistizio. Mi ha detto, guarda, tu credi di trovarti bene a scrivere sui giornali di destra, ma invece no, perché in fondo sei di sinistra. E io: tu al contrario credi di essere di sinistra, e invece sei di destra…”
E qui scoppia in quella sua risata contagiosa, acuta, da cornacchia.
“Bisogna che vada” dice poi esibendosi in un lento baciamano a Lucia. “Venite a trovarmi in montagna, però. A Monachino adesso si sta bene…” Si interrompe e la guarda di nuovo, a lungo. “Venite” dice ancora.
Poi, prima di andarsene, mi batte una mano sulla spalla. “E noi si parlerà, se venite. È da un po’ che non facciamo due chiacchiere, eh Marco?”
E qui lascia cadere un sorriso diverso, benevolo, tutto per me, quasi a correggere o a chiarire il tono del suo discorso di poco fa sui rischi corsi dagli intellettuali giovani, affini e rosicanti. È lo stesso sorriso che ci ha dedicato tante volte, a me e a Lucia, quando ci vedeva arrivare insieme da via Castiglione, avvinghiati o per mano. “Ah, la bambina” diceva allora abbracciandola. E a me, di solito: “Ed ecco il suo massivo Held” scherzando contemporaneamente su quella che gli avevamo confessato essere una parola del nostro linguaggio di coppia, “massività”, sulla mia stazza in espansione, e sul tedesco, nel cui studio Lucia si era immersa con gran foga. Adesso, guardandolo ritornare verso i cerimonieri, che pendono dalle sue labbra come tanti ottusi e furbi Wagner, mi tornano in mente le parole che aveva pronunciato quando ero stato improvvisamente lasciato: “Non è mica detto che dobbiate vivere insieme. La ritroverai, forse. D’altra parte, presto verrà il momento in cui sentirai anche tu che il massimo che ci è concesso è prendere da ognuno ciò che ci fa stare bene per un po’. Solo per un po’.” Poi però un’ombra gli era passata sul viso, e aveva scandito una frase che mi è rimasta sempre incomprensibile: “Ripensa ai fatti. C’è qualcosa di non chiaro, di non limpido. Forse riguarda te, non lei.”
In realtà, io non avevo fatto proprio niente. O meglio, sì: cominciavo a opporre in modo evidentemente insopportabile la mia pigrizia, la mia passività, il mio rifiuto di fare esperienze all’iperattivismo di Lucia. Stavo già potando rami, diradando contatti, riducendomi ai pochi gesti del mio lavoro di scrittura, o al massimo a qualche patetica serata alcolica di gruppo, in cui non facevo che affinare vecchi aneddoti. Eppure mai, allora, avrei pensato che la corda fosse sul punto di spezzarsi, e che Lucia avrebbe raccolto le sue cose da un giorno all’altro per andarsene di casa. Anzi, per andarsene da Bologna: quasi che la città fosse troppo inquinata dalle mie parole.
Poco fa, prima che arrivasse Bernardo, abbiamo cercato di aggiornarci in breve su tutto quello che è successo dopo. O meglio, io ho cercato di aggiornarmi su quello che ha fatto lei, perché da parte mia, appunto, da dire c’è ben poco: salvo il visibile peggioramento della caviglia, che la mia ex fidanzata ha registrato con uno sguardo al tempo stesso indulgente e ammonitore, io sono tutto nei miei scritti, come un mostriciattolo crociano.
Lucia ha accennato al fatto che a volte mi legge, ma io ho lasciato cadere il discorso, rilanciando subito sui suoi spostamenti. Ero rimasto all’Ucraina, dove è stata quasi due anni per una tesi di dottorato sulla rivoluzione arancione; e al collegio internazionale di Fiesole, seguito in part-time con gli impegni umanitari di Roma: dove ho perso le sue tracce, salvo qualche rapido e impersonale saluto su Skype.
“Allora, sei a Bologna ma non mi dici niente…”
“Sapevo che ti avrei visto da Pagi. Sennò ti avrei chiamato. Non passo spesso a trovare i miei.”
“Stanno bene?”
“Sì” ha detto secca, glissando.”Vi vedete, tu e Bernardo?”
“Praticamente mai. Sverna là, a Monachino, fino ad aprile credo sia l’unico abitante. Ma parliamo di te. Il lavoro ucraino, poi? Non ho più saputo nulla…”
“Ah, la tesi? Quella sta ancora lì” ha biascicato mesta. “Non ne potevo più. Kiev non voglio neanche sentirla nominare.”
Mi chiedo se non teme di aver sprecato un’occasione: ma la sua antica ansia di farsi largo tra Ong, dipartimenti di scienze politiche e luoghi caldi del pianeta sembra sorprendentemente placata. Lavora per la fondazione di una ricchissima fotografa, a Trastevere, organizza eventi di artisti stranieri, guadagna bene, s’interessa di alimentazione biologica, e a ogni mia domanda alza le spalle.
“Adesso sai cosa sono? Una bio-nerd. Così mi definisco” ha detto ridendo, quasi a prendere in contropiede la mia perplessità. E mi racconta le sue esperienze di cucina alternativa. “Difficile non diventare talebani sul tema, quando si comincia…”
“Lo vedo!” ho risposto subito, senza pensare prima di parlare. “Sei dimagrita un po’ troppo, mi sembra…”
Lei ha alzato di nuovo le spalle.
“Ma… e l’analista ucraino?” ho chiesto, più per non lasciar cadere la conversazione che per vero interesse. “È stato il tuo punto di massimo esotismo?”
“Non lo sento più” ha riso Lucia, dandomi un piccolo pugno sulla spalla.
Poi si è guardata intorno.
“Peccato per questo posto, è diventato uguale agli altri. Scommetto che ci sono quegli apericena monumentali e schifosi per fricchettoni che mangiano spuma di mortadella… E Azio, come sta?”
“Niente, badante giorno e notte. Sai che l’ultima volta che sono andato a trovarlo mi ha chiesto di Ernesto? Confonde i tempi, non si ricordava più…”
Lucia ha abbassato gli occhi. Stava per parlare, quando è entrato Bernardo. E adesso, mentre Pagi apre la porta per andarsene, mi dice lentamente: “Ho rivisto sua madre, sai.”
Solo dopo qualche secondo mi rendo conto che ha ripreso la conversazione dalla mia ultima battuta.
“Intendi la madre di Ernesto? Sei andata dai suoi?”
Annuisce.
Cerco qualcosa da dire, ma non mi viene niente. È come se la spossatezza che le indovino addosso si fosse comunicata anche a me. Per un attimo mi chiedo cosa ci faccio qui, perché non sono già a casa a scrivere il pezzo sul Bolognino d’oro.
Qualcosa in Lucia mi mette a disagio. Più la guardo, meno riesco a capire: nei singoli tratti è sempre bella, eppure nell’insieme è come se quei tratti si fossero ridisposti secondo un disegno respingente. Non è invecchiata, non è questo. È piuttosto senza età. Forse sono i capelli corti, o la magrezza. Non saprei. So solo che m’inquieta, specie ora che la sua aria stanca convive con uno sguardo improvvisamente fanatico.
“Vivono sempre qua dietro, nella piccola reggia di via Marsala. Davide è di nuovo a Villa Baruzziana dopo un TSO… Sua madre dice che è una tecnica, ormai sembra che voglia vivere là. Sono andata in camera sua, di Ernesto dico,” continua prima che io riesca a interloquire, scrutandomi come se si aspettasse una qualche reazione eclatante “e ho ritrovato il berretto che gli avevo regalato, ti ricordi quella coppola pesante? Adesso, nella stanza ci hanno messo i libri di suo padre. A volte suo padre ci dorme, dice, ci studia. E ho potuto vedere le carte ammucchiate là, gli appunti di Ernesto. Ci sono anche degli incipit di racconti semicancellati, sul computer, dei versi… Sua madre me li ha stampati.”
“E… come...