E-Book, Italienisch, Band 37, 123 Seiten
Reihe: Orso bruno
Mota La Luce Inversa
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-31476-61-4
Verlag: Wojtek Edizioni
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, Band 37, 123 Seiten
Reihe: Orso bruno
ISBN: 978-88-31476-61-4
Verlag: Wojtek Edizioni
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Mota è nato a Moncalieri nel 1981. Nel 2002 si iscrive a una nota scuola di tecniche della narrazione, che abbandona due mesi prima del diploma. Vive in montagna dal 2006, ha svolto i più svariati mestieri e si è dedicato alla musica rap, sua seconda passione, con lo pseudonimo di Invernomuto. Nel frattempo non ha mai smesso di scrivere. La Luce Inversa è il suo primo romanzo pubblicato.
Autoren/Hrsg.
Weitere Infos & Material
Martin
Si possiede una famiglia o se ne è posseduti? Lecito domandarselo, qualora si vogliano sfumare i contorni del proprio sangue nei processi di intellettualizzazione, ma io sì, banalmente avevo, ho avuto, una famiglia; completa dei trascurabili optional, gli addobbi, l’arsenale da luogo pubblico, l’area espositiva della famiglia perfetta. Ma unicamente durante i weekend estivi, quando ci si recava tutti assieme al mare, padre madre figli, e zio più relativa compagna e cugini di terzo grado, con una felicità talmente artefatta e limacciosa da farmi spesso giudicare, adesso, magari con una punta di insincero e gratuito astio retrospettivo, che fossimo solo un manipolo di beatissimi stronzi: a galla con altri beatissimi stronzi nostri simili, su di un mare di beatissima merda.
A quell’epoca, quando ci si recava tutti assieme nella bianca villetta a due piani incastrata tra gli ulivi, sulle colline della riviera.
Dai genitori di mio padre.
Dal vecchio.
Distribuiti sul molo che riparava la spiaggia e il porticciolo, nei bagliori di una domenica mattina di luglio, i membri della famiglia full optional determinano il suono di un coro polifonico svanito per sempre. Silenzio. La memoria assomiglia a una bocca spalancata, terrorizzata nello strazio dell’infanzia. Un fermo immagine. Mio padre con la canna da pesca, ancora discretamente in forma, in salute, i capelli scuri, lunghi e ricci e stopposi; i capelli tenuti come un negro, diceva quella troia antitroia fascista di mia nonna. Mio padre che, quando la mattina si sbarbava, all’incirca ogni due giorni, svegliandosi sempre con largo anticipo rispetto a quanto lo richiedesse il suo lavoro di commerciante di diamanti, una faccenda dovuta all’ansia insomma, ma quando la mattina si sbarbava forse non pensava a come sarebbe apparso il suo volto a distanza di anni, lui che forse si immedesimava nell’assoluzione dolce del tempo presente; l’importante era che continuasse a fare il suo dovere, di padre e di commerciante di diamanti e di fedifrago nei confronti della moglie. Mio fratello più piccolo, un bambino gracilissimo dallo sguardo svelto e di rado ambiguo, lui accanto a mio padre; entrambi grottescamente arrabbiati perché i pesci non abboccano. Mio zio, leggermente più robusto di quel fratello con i capelli da negro, che pesca qualche metro più distante, chiacchierando all’apparenza svagato con una coppia di anziani riccastri a cui sta proponendo di entrare in affari con lui; e la sua nuova compagna, sdraiata su uno scoglio comodo e bluastro, a prendere il sole. E poi mia nonna, ignorante bigotta sputatrice di giudizi accoltellanti, a cui però volevo forse bene, nel rispetto di quella forza insensata che ci obbliga a voler bene a un insensato animale comunque appartenente alla famiglia da cui si è posseduti. Lei, la vecchia, adesso è lì, seduta con il vestito a fiori indosso, senza concessioni e a tenuta stagna e con le gambe coperte dall’asciugamano, dato che ormai il sole diretto non potrebbe che procurarle avarie alla circolazione venosa. Prega a bassa voce, prega il suo Dio Onnipotente, fino a quando alzandosi di colpo non decide di andare a farsi un giro da sola al mercato; continuando a pregare e senza comprare nulla, ovviamente, perché tutto costa troppo, e i venditori sono dei ladri, al giorno d’oggi. Infine mia madre, annoiata accanto a mia nonna, infine lei, la madre che sta già ingrassando oltre il punto critico, ma che ha una pelle e una carne così incredibilmente calde e asciutte e croccanti quando, dopo i tuffi in mare, vai a raggomitolarti per un istante tra le sue braccia. Ma è tardi per questo fermo immagine. Se l’universo racchiusovi pare aver ultimato il proprio percorso, è davvero tardi. Ogni cosa ricomincia a muoversi, a riversarsi da un’estremità all’altra, a disgregare una quiete precedente o, in verità, primigenia; il mare per esempio, il mare con gli ingranaggi segreti, nascosti appena al disotto della superficie, con il suo vasto organismo meccanico fatto di molecole aggregate e alberi di trasmissione e turbine e termometri e radiobussole e servomeccanismi vari, che ruotando e stridendo e calcolando amministrano il moto dell’acqua, identico a se stesso da centinaia di milioni di anni, e infinitamente, mai uguale.
Avanzo lentamente sul molo, a piedi nudi su quegli scogli di grafite arroventata. A undici anni ho già osservato il ghiaccio, il ghiaccio introdursi nelle minuscole crepe sullo strato di asfalto delle città, tanto da riuscire a spaccarlo nell’arco di un inverno. Perché, a undici anni, mi sento l’inverno addosso, permanente e vitreo, muto; come una goccia che già non potesse più fare affidamento sulla possibilità di staccarsi dal labbro di rubinetto al quale resta appesa.
Il vecchio è laggiù. Appartato, dove il molo disegna una curva, prima del ponticello di legno. Finge anche lui di pescare, di scrutare vigile l’apparire di cerchi attorno al galleggiante, ma ormai vede solo macchie vicine e macchie più lontane, lo sappiamo tutti; la cataratta ha strangolato i suoi occhi. Sta fumando una sigaretta, reggendo da seduto la canna da pesca addossata alla parte interna del ginocchio, con il minimo sforzo. La sottile punta della canna da pesca si concede una breve oscillazione, grazie a un’improvvisa folata di vento; poi, l’immobilità di sempre. Il vecchio aspira una boccata di fumo e la trattiene. C’è voluttà omicida, in questo. Un’estrema e introversa sensualità geologica, che s’infiltra dentro cunicoli polmonari, respirazione tossica. È un vecchio magro, con rughe color catrame che solcano una pelle di terracotta dissepolta, tagli netti nella linea della mandibola, zigomi sporgenti, capelli grigi perfettamente pettinati. È quel vecchio
ma LUI no…
che lo capisce all’istante quando hai intenzione di affrontarlo.
A undici anni leggo trattati di astronomia e di fisica quantistica, saggi sulle ricerche di Einstein, Bohm, Heisenberg, Pauli; di lì a poco mi avvicinerò a Schopenhauer e, per una stravagante osmosi, a Strindberg e Leopardi; e alle opere disparse di Thoreau e dei saggi taoisti e ai racconti di Hemingway e di Cortázar, per imparare cos’è la caccia e per distrarmi. A undici anni, la volontà individuale e una ritorsiva fantasia eroica sono il fondamento della mia rappresentazione del mondo. Voglio fucili spianati nelle trincee del cielo. Sentire per primo i tamburi dello scontro.
Mi hai immobilizzato con il gioco della complicità. Della promessa. Dell’omertà.
Non mi toccherai mai più.
Nessuno mi toccherà, né espugnerà i miei spazi, né potrà acclimatarsi alla mia temperatura, al mio personalissimo inverno. In un dato momento, sei solo un bambino; l’istante dopo appartieni a un’altra schiera di esseri, quelli che diverranno prima del tempo un altro genere di uomini, feroci e singolari, troppo bravi, quelli che ci andranno giù pesante e in fretta e rilanciando sempre pur con pessime carte in mano, debordanti di ego, quelli svelti o addirittura precipitosi nella dissoluzione mentre all’esterno ci si aspetterebbe, da parte loro, anche qualcosa che non venisse imbrattato selvaggiamente di modi cattivi; e invece non c’è niente, niente rimane, eccetto gli optional abbandonati sul molo finché è estate; e, più in segreto, una maturazione spirituale che fa cento piegamenti ogni mattina su braccia di legno, colpevolmente rimessa al centro degli eventi da nuovi sensi corporei, prescelta dal difetto, lì a chiedersi se ci sia abbastanza strada, una strada abbastanza lunga per la fuga. Una fuga qualsiasi. A undici anni, la proiezione mentale di una fuga verso il nulla mi affascina e mi tormenta.
Se
Attorno a me, l’accumulazione e la conversione e la rifrazione dell’acqua; riverberi al platino rimbalzano come sassi piatti sul mare calmo.
Se lo fai
Quando giungo abbastanza vicino, il vecchio getta la sigaretta tra gli scogli, mi guarda di sbieco, poi recupera la lenza con il mulinello, piano, arrancando con il respiro ed emettendo versi di tracollo bronchiale, asma, catarro, crisi respiratoria, decesso, la bocca arricciata in una smorfia che pare cera solidificatasi durante il contenimento di forze telluriche. Se fosse morto in quell’istante, sarei stato libero. Il linguaggio della memoria permette di depotenziare ogni cosa, ma fu comunque atroce. La lenza scivola piano attraverso gli anelli della canna da pesca, riavvolgendosi nella bobina, sgravandosi delle gocce d’acqua salata come se queste costituissero il vero tesoro rinvenuto alla fine dell’immersione, perle strappate all’incosciente gigante sommerso, estrazioni cellulari. Eppure, in realtà, nessuno di noi è mai ritornato a galla.
Se lo fai un’altra volta
Ed è proprio a quel punto che il vecchio posa la canna da pesca e mi guarda dritto negli occhi. Sorridendo. Ed è proprio a quel punto che, distendendo la gamba prima piegata, e con un rapido e apparentemente accidentale tocco della mano, si fa sbucare e ciondolare l’uccello dall’orlo dei pantaloncini. Le sue rinsecchite gambe di vecchio. Il suo enorme cazzo da settantenne, fatto di stoffa bruciata e tessuto cicatriziale, chincaglieria che ha perfino generato una discendenza. Sorride; anzi, adesso, ride apertamente, simile a un corvo colto in flagrante durante un arbitrario maltrattamento di vermi che alla fine non mangerà. Mi guarda. Ed è proprio allora che, avvertendo entrambi fino a che punto il rapporto di forza gravitazionale tra le masse galattiche locali abbia subito un capovolgimento, e la rabbia si sia messa in testa di ripercorrere i parsec che ci separano, è proprio...




