E-Book, Italienisch, 533 Seiten
Reihe: Sírin
Nikitin Victory Park
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-6243-385-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 533 Seiten
Reihe: Sírin
ISBN: 978-88-6243-385-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Kiev, 1984. L'Unione Sovietica crollerà pochi anni dopo, ma sulla riva sinistra del Dnepr la vita scorre come sempre. I castagni sono in fiore al parco della Vittoria, dove i veterani della guerra in Afghanistan spacciano hashish mentre riparano le giostre per i bambini, e al chiosco gli speculatori intrattengono la polizia corrotta. Sullo sfondo delle periferie di Kiev, l'amicizia tra i due studenti universitari Pelikan e Baghila è il trait d'union tra le storie dei frequentatori abituali del parco, che incarnano il caleidoscopio di popoli, storie, successi e disgrazie che hanno caratterizzato la storia dell'URSS. Un feroce e divertente affresco della società ucraina di fin de siècle, un brillante connubio di tragedia e commedia che attraverso il prisma del passato mostra al lettore le fragilità e i problemi dell'Ucraina di oggi.
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CAPITOLO 5
I BAGHILA DI OCERETY
1.
Ivan Baghila ci era abituato da tempo: qui, al Komsomol, appena la gente udiva il suo nome, gli chiedeva quasi sempre del nonno. E quelli che non lo facevano, rimanevano comunque assorti un istante, cercando di ricordare dove l’avessero già sentito.
Per Ivan, che era cresciuto accanto al nonno Maksim e aveva potuto osservarlo in diverse circostanze, quello restava un personaggio misterioso e incomprensibile, come per uno qualunque dei suoi clienti. E di clienti, dacché Ivan ne aveva memoria, ce n’erano in continuazione a casa loro. Arrivavano in macchina o a piedi, si sedevano sulla panchina vicino casa, facevano la fila, tentavano di attaccare bottone con Ivan e gli offrivano un sacco di schifezze – caramelle, noccioline, gelatine di frutta ricoperte di zucchero sporco. Gli chiedevano del nonno, gli facevano domande stupide, senza senso. Ma Ivan non poteva raccontare niente di particolare su nonno Maksim, niente che non sapesse già ogni abitante di Ocerety. E anche se avesse potuto, in ogni caso non lo avrebbe fatto – che motivo c’era? Sì, aveva incrociato più spesso degli altri lo sguardo attento di quell’uomo piccolo, dai baffi duri come setole, un tempo neri e ora grigiastri, con un completo grigio tutto liso e un vecchio berretto a visiera, ma questo non cambiava nulla. Intuiva che il nonno Maksim si aspettava qualcosa da lui, ma non capiva cosa. È così frustrante non rispondere alle aspettative degli altri. Soprattutto quando non sai cosa vogliono da te.
Il nonno aveva due figli e due nipoti, Ivan e Darka. La figlia Tanja viveva a Ocerety con lui, mentre il figlio Semën, il padre di Ivan, quindici anni prima, dopo un litigio col nonno, se n’era andato al Nord a lavorare. Da allora era tornato a Ocerety due volte, come se non riuscisse a vivere tranquillo senza litigare con la famiglia fino alla rottura ultima e definitiva, e tutte e due le volte, dopo aver retto a Ocerety meno di una settimana, era ripartito per Igrim, una cittadina del circondario autonomo dei Chanty-Mansi. Là, i primi tempi, aveva lavorato come conducente di bulldozer, ma non aveva alcuna intenzione di passare tutta la vita in mezzo alla terra e alla nafta: qualche anno dopo, grazie ai corsi per corrispondenza, aveva ottenuto il diploma dell’Istituto petrolifero di Mosca e, agli inizi degli anni ’80, era diventato un pezzo grosso e ben in vista del trust Gazprom di Tjumen’. Semën si era anche rifatto una famiglia, che nonno Maksim non aveva il minimo desiderio di conoscere.
Per capire le ragioni del conflitto, bisognava avere ben presente tutti i risvolti della biografia avventurosa di nonno Maksim. Ivan però non ne sapeva quasi nulla e anche la zia Tanja, del resto, conosceva solo una versione della storia accuratamente espurgata.
Nella prima metà del ’900 l’Ucraina era il luogo più pericoloso d’Europa. Qui, chi sopravviveva non erano i forti, ma chi era prudente e si sapeva adattare. Un istinto di conservazione ben sviluppato valeva più di ogni altro talento naturale. Perciò, non c’è da sorprendersi se, in seguito, molta gente abbia esitato o, semplicemente, non abbia voluto raccontare ai propri figli com’era vissuta negli anni tra l’inizio della Prima guerra mondiale e la fine della Seconda. E di Maksim Baghila perfino i più intimi sapevano pochissimo.
Era stato chiamato alle armi nell’esercito di Petljura11 nell’inverno del 1919, a diciotto anni appena compiuti. A settembre, nei pressi di Uman’, Maksim era passato con Machno12 e aveva combattuto insieme agli insorti per più di un anno, prima contro i Bianchi di Denikin e poi contro quelli di Vrangel’. Alla fine dell’autunno del 1920, in Crimea, dopo che Vrangel’ fu sconfitto, parte della Quarta armata rossa accerchiò i reparti di Machno e ne pretese l’autoscioglimento. La cavalleria di Machno riuscì a sfuggire all’accerchiamento e anche a lasciare la Crimea, ma venne intercettata sulla strada per Guljaj-Pole e da quell’ultimo combattimento uscirono vivi solo meno di trecento soldati, che raggiunsero il resto del loro contingente. Maksim Baghila non arrivò mai a Guljaj-Pole e niente si sa di dove trascorse i quindici anni successivi. A Ocerety avevano smesso di aspettarlo già dalla fine degli anni ’20, ma poi d’improvviso, nel 1935, fece ritorno a casa, claudicante, e per quasi due anni visse tranquillo nel suo villaggio. La gente trovava la cosa strana e incomprensibile, ma nel 1937 le stranezze ebbero fine e tutto tornò al proprio posto: Baghila venne arrestato per spionaggio a favore della Romania – secondo l’accusa, negli anni ’20 sarebbe andato in Romania con ciò che restava delle unità di Machno, lì avrebbe abbandonato gli insorti, sarebbe stato ingaggiato dalla polizia segreta rumena e mandato in missione in Ucraina. Gli diedero dieci anni e, fatto assolutamente incredibile, dieci anni dopo, nel 1948, quando quasi tutti quelli che avevano già scontato la loro pena venivano graziati con un’ulteriore reclusione – e non più di dieci anni, ma di venticinque – Baghila tornò di nuovo a Ocerety. Tornò che era un uomo diverso. Al villaggio, che avessero arrestato Maksim Baghila lo capivano tutti, ma rilasciarlo così, di colpo, come se si fossero scottati. Mah! Quali parole fossero state dette, da chi e a chi, non lo sapeva nessuno, in compenso tutti sapevano bene che, da quel momento, il ministro degli Interni della Repubblica sovietica ucraina, il generale Strokac in persona, era andato più volte dal vecchio in cerca di consigli. Inoltre, il ministro ci era andato sia prima della propria breve disgrazia, avvenuta nella primavera del 1953, che negli anni a seguire, fino a quando non fu trasferito a Mosca. E dopo di lui, presero a far visita a Baghila anche altri alti funzionari.
Per Ivan, il nonno era una persona imprevedibile e trovava strane le sue decisioni. Aveva vietato al figlio Semën di andare al Nord, perché lui stesso ci aveva lavorato dieci anni, e non dovevano esserci due komsomoliani transbaikalici in famiglia, uno bastava. E non era servito a niente dirgli che là c’erano possibilità di crescita, opportunità e soldi, mentre a Kiev c’era solo una palude abbandonata e sonnolenta, dove nemmeno le rane gracidavano senza l’autorizzazione delle autorità: il vecchio Baghila non ne voleva proprio sentir parlare. Perché in realtà, gli era sfuggito un giorno, la ragione era un’altra.
– Ti proibisco di mischiare il mio sangue con quello di chiunque – aveva detto Maksim al figlio, durante la sua ultima visita. – Tu sei ucraino, hai sangue cosacco. Già ai tempi dell’atamano Sagajdacnyj, dei Baghila hanno preso Caffa13 e hanno marciato su Mosca. E io non mi imparenterò mai con degli jakuti, nemmeno se ti appendi con le chiappe al vento. E se tua moglie non è riuscita a sopportare il tuo caratteraccio e ti ha mollato, non significa che adesso tu debba abbandonare il villaggio per andartene in capo al mondo.
Il giorno dopo Semën ripartì per Igrim e a Ocerety non si fece più vedere.
Passarono due anni dall’incidente, Ivan Baghila ne compì sette e la zia chiese al nonno in che scuola mandare il nipote, se alla russa o all’ucraina. Il nonno ordinò di iscriverlo assolutamente alla scuola russa.
– Tanto, non la smetterà di cincischiare in ucraino, la lingua materna non si dimentica, la lingua dell’autorità invece bisogna saperla parlare ancora meglio della propria. Bisogna conoscerla meglio di tutte le altre, per riuscire a leggere tra le righe. E poi, che cosa me lo chiedi a fare?! – si infuriò. – Russa, ucraina... Non fa differenza in che lingua gli racconteranno le favole su Lenin. Ecco, se si potesse ancora mandare il ragazzo all’Accademia greco-latina, allora sì varrebbe la pena di discuterne! Non hanno ancora tradotto Lenin in latino, no? O invece sì?...
Il primo settembre Ivan scoprì che la scuola russa numero duecentoquattro era circa duecento metri più vicina a casa sua, rispetto alla centottanta ucraina. E durante tutti gli otto anni di studio, non ci fu mattina in cui Ivan, sempre sul punto di arrivare in ritardo e volando in classe a un secondo dalla campanella, non pensasse che il nonno aveva fatto la scelta giusta!
Maksim ebbe un’altra conversazione con il nipote, questa volta a quattr’occhi, senza la zia. Un autunno, quando Ivan aveva circa quindici anni, venne arrestato dagli sbirri insieme a un amico. In via Malyško, vicino alle poste, qualcuno aveva ribaltato un chiosco delle sigarette, portandosi via tutta la merce, e loro, per puro caso, si erano ritrovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era sera tardi e per fortuna un terzo compagno, che era rimasto indietro, era riuscito a sfuggire agli sbirri. Un’ora dopo a Ocerety lo sapevano tutti, e all’alba nonno Maksim in persona era andato a riprendersi i detenuti alla “gabbia delle scimmie”, la guardina di via Krasnotkackaja. Nel frattempo c’erano state un paio di telefonate a chi di dovere, erano stati impartiti degli ordini, si era riconosciuto l’errore, e così al vecchio consegnarono i ragazzini senza tanti preamboli, dandogli perfino il verbale dell’interrogatorio di Ivan. Era giusto di quel verbale che il nonno volle parlare con lui il giorno dopo. Convocò il nipote nella sua rimessa – d’estate abitava separato dalla famiglia – e lo fece sedere al tavolo, come faceva con tutti i suoi clienti.
– Che è, ti hanno forse picchiato? – gli chiese.
– No.
– Ti hanno schiacciato le dita nella porta? No, nemmeno? Allora com’è che gli hai raccontato...




