O'Connor | La saggezza nel sangue | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 197 Seiten

Reihe: Minimum classics

O'Connor La saggezza nel sangue


1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-316-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 197 Seiten

Reihe: Minimum classics

ISBN: 978-88-3389-316-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Terminato il servizio di leva, Hazel Motes torna nella sua città natale, nel profondo Sud degli Stati Uniti, dove incontra un predicatore di strada cieco, Asa Hawks, che lo convince a seguire il suo stesso cammino. Hazel comincia così a predicare una propria religione, quella della «Chiesa senza Cristo», finendo in un mondo completamente nuovo per lui, dove si trovano truffatori, «lolite» e poveri di spirito in cerca di affetto. Presto si troverà a vivere situazioni difficili da fronteggiare, tra opportunisti e falsi predicatori, imboccando una china tragica nella quale in gioco è la sua stessa integrità di cercatore assoluto, tanto onesto quanto incapace di governare i propri istinti e la propria vocazione. Dopo le fortunate raccolte di racconti torna, in una nuova traduzione, il romanzo d'esordio di Flannery O'Connor: la storia di un uomo in conflitto con la sua comunità, sospeso tra fede e blasfemia, nella quale sono già presenti tutti gli inconfondibili ingredienti di un talento narrativo ineguagliabile, tra i più puri e sconcertanti del Novecento letterario.

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Tornare a casa


«Non sono una mistica e non vivo da santa». Scriveva così Flannery O’Connor, in una lettera del mese di agosto del 1955 indirizzata a una donna di Atlanta, Betty Hester, sua fedele corrispondente, da noi a lungo conosciuta come signora «A». Aveva da poco compiuto trent’anni – ne avrebbe avuti a sua disposizione ancora nove – e pubblicato la raccolta di racconti , il suo secondo libro dopo il romanzo d’esordio, , uscito nel ’52, il primo, indimenticabile passo di uno dei più radicali e folgoranti viaggi letterari in cui il mondo si sia mai imbattuto.

Alcuni mesi prima di quella lettera, era volata a New York per interviste e incontri, ed era apparsa in un programma televisivo andato in onda sulla Nbc – lei, che pensava che alle domande dell’intervistatore avrebbe risposto con un «Eh?» o con un «Ah boh», e non provava alcun imbarazzo nel rivelarlo, anzi; lei, malata di lupus come il padre, anno dopo anno sempre più sofferente, prima con un bastone e poi con le stampelle, eppure in grado di dire del proprio destino, guardandolo in faccia: «La malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa», perché questa è la vita, questo è quanto – non una passeggiata o un parco di divertimenti ma il luogo della polvere, del male e del peccato e insieme della Grazia e della Redenzione, il luogo del mistero, il grande territorio da esplorare.

le aveva richiesto cinque anni di lavoro, anni di completa dedizione, mentre il suo corpo incominciava a rompersi.

Flannery, non una mistica, neppure una santa, per quanto cattolica da capo a piedi, in ogni fibra e consapevolmente: solo una narratrice. E come le piaceva, quanto la divertiva, ridurre se stessa, la propria visione delle cose, la propria comprensione del mondo, a una sorta di curioso accidente, qualcosa che le era capitato, tutto qui. una narratrice. Eppure, le pagine che uscivano da Milledgeville, Georgia, dalla sua fattoria dal nome esotico – Andalusia – poco fuori città, in cui, dopo la diagnosi, viveva con la madre e con gli amati polli, anatre, oche, fagiani e pavoni, che di notte rumoreggiavano nel silenzio della campagna del Sud degli Stati Uniti, erano pagine incendiarie, mai viste prima, mai più viste così, «e non c’è verso di convincermi a fare diversamente».

Scriveva cattolica e non sebbene lo fosse. Scriveva parole di umana polvere e di fuoco perché credeva in una sola realtà, l’Incarnazione, che è sempre mistero, appunto, ed è irruzione/presenza della Grazia. Scriveva così perché vedeva bene quanto da quel mistero tendiamo a fuggire, e quanto questa fuga – che sia presunto scetticismo o attivo nichilismo – non faccia altro che riportarci a lui, di nuovo. Di nuovo al punto di partenza, di nuovo nel mistero.

Ed ecco allora Hazel Motes, protagonista di , romanzo comico su un cristiano suo malgrado, come lo definì la stessa Flannery. Hazel Motes, un nome che è tutto un programma, appena tornato dalla guerra, nipote di un predicatore fondamentalista che vedeva in Cristo il punitore dei peccati. Hazel, rimasto solo al mondo, ragazzo dagli occhi incassati in orbite profonde, dall’abito turchino e dal cappello nero, che tenta disperatamente, in tutti i modi, di liberarsi di quel pungiglione nella testa che è Gesù; che tenta di ricacciarlo indietro come il più grande ingombro, di convertirsi al nulla piuttosto che arrendersi – «A che mi serve Gesù?» – e arriva a fondare una Chiesa Senza Cristo, gridando la supposta verità di quell’assenza dal cofano di un’auto scalcagnata comprata per quaranta dollari, mentre, intorno a lui, si muove uno scampolo di umanità – falsi predicatori, predicatori falsamente ciechi, guardiani di uno zoo, matrone e prostitute – grottesca e disperata, comica e terribile, che solo lei, Flannery O’Connor, avrebbe mai saputo disegnare.

Una fuga del genere è una fuga impossibile, è questo il punto, ma nello stesso tempo è il segno benedetto di qualcosa: l’azione della Grazia, l’accettazione del mistero non sono mica faccende da beghine, da conformisti, da cuori deboli, da tiepidi o da codardi. Nessuna fede, nessuna vocazione, qualunque essa sia per ciascuno di noi, è una cosuccia semplice, domestica, tranquilla. Nessuna fede o vocazione ci lascia mai immutati. A una chiamata che impegnerà la vita, che è pro-vocazione e che continua a interrogarci, essendo a suo modo radicale, tentiamo tutti prima o poi di opporre resistenza. Ma questa resistenza è lo snodo cruciale, necessario, che aprirà le porte alla libera scelta, che ci consentirà un autentico abbandono. Il vero scandalo, il vero pericolo, è l’indifferenza.

È in questa lotta, senza quartiere e senza pace, l’esemplarità di Hazel Motes, che nel nome porta il ricordo della nebbia e nel cognome quello delle pagliuzze che pretendiamo di cavare via dagli occhi degli altri mentre nei nostri abbiamo travi belle grosse. È qui la sua paradossale integrità, che non potrà che ricondurlo al punto da cui voleva tanto allontanarsi, da cui cercava di difendersi. Ecco allora perché Flannery diceva di lui: «Va da sé che ai miei occhi Haze Motes è una specie di santo».

Niente di morbido o sentimentale, qui, niente di : per questa ragione quelle che state per leggere sono pagine che cambiano la vita. Ma la letteratura non è questo, o meglio, non dovrebbe sempre essere questo?

Flannery O’Connor era dotata di un contagioso senso dello humor: rideva di se stessa, soprattutto, persino della sua malattia. Il comico e il terribile, per lei, non erano diversi.

A cinque anni aveva insegnato a un pollo a camminare all’indietro, e definiva quel momento come il punto più alto della sua esistenza – «da allora tutto è stato un anticlimax». Amava disegnare polli e pavoni, seduta sui gradini di mattoni del portico di Andalusia, le due stampelle poggiate lì di fianco. Si congedava dai suoi corrispondenti epistolari con espressioni come: «Un abbraccio dal caro vecchio lurido Sud», oppure: «Evviva», o ancora: «Devo andarmene sulle mie due gambe di alluminio».

Quand’era all’università e frequentava un corso di filosofia dedicato quell’anno a Cartesio, si alzò dal banco, andò con decisione alla lavagna davanti agli occhi del professore incredulo, impugnò un gessetto e la divise in due con una riga netta: da una parte elencò gli elementi del mondo disegnato da Cartesio, dall’altra quelli di San Tommaso; era chiaro da che parte stesse, e con quale bruciante passione.

Una sera, ospite di Mary McCarthy a New York, città in cui aveva vissuto per un po’ e che detestava, dopo aver sentito McCarthy sostenere che l’Eucarestia era evidentemente nient’altro che un simbolo, rispose: «Be’, se è un simbolo, che vada al diavolo».

Eccola, Flannery O’Connor.

Ciò che davvero conta non è mai misurabile, non è quantificabile, non è addomesticabile e non è riducibile. non è una parola a cui ricorrere ogni tanto, solo per darsi un tono. Qui non si tratta di parole e basta, non si tratta di astrazioni né tantomeno di concetti.

Mistero è tutta la nostra vita, è il mondo in cui viviamo, a cui siamo chiamati e che dovremmo guardare fino in fondo, così com’è, guardare e amare per quanto a tratti ci sembri difficile. Mistero siamo noi, la nostra posizione sulla terra. È il senso dell’Incarnazione ed è l’azione della Grazia, la loro realtà, e insieme è il senso del raccontare storie – un atto di visione e non di distrazione. È il cuore di questo nostro viaggio, che è in parte anche violento, che non è una passeggiata o un gioco con cui intrattenersi, e che può scardinare, e meno male, ogni presunta certezza. In questo corpo a corpo c’è del terribile e del comico, sul serio.

La saggezza del sangue – quella di Hazel Motes – è ciò che di continuo ci riconduce lì, nel cuore del mistero, nel centro del suo centro, perché, senza saperlo, vi abitavamo già, perché quel cuore è sempre stato il nostro. È come un vento che soffia di continuo, come un elastico invisibile che ci tiene legati, che si rilascia un po’ ma solo per ritirarci indietro. Quel cuore era già lì, nel nostro sangue saggio.

Joseph Conrad ha detto: «Il compito che cerco di svolgere è, con il potere della parola scritta, farvi udire, farvi sentire: è, prima di tutto, farvi vedere. Questo, e nulla più: ed è tutto». Nulla più, ma quanto conta invece questo . Da Milledgeville, Georgia, Flannery O’Connor, armata di penna e di stampelle, di San Tommaso e Conrad, ha condiviso ancora e ancora quel compito, nei suoi due romanzi e nei racconti, nelle lettere e nelle conferenze. Ma c’è dell’altro, in lei, una spinta in avanti, un passo ulteriore: è qui che arriva il grottesco e ciò che provoca e perturba. Laddove gli occhi sono chiusi e le orecchie tappate, ogni colore dovrà farsi più intenso, ogni parola più forte, più marcata.

Così, di fronte alle sue storie spalanchiamo gli occhi e torniamo a sentire. Possiamo ridere persino, ma di un riso che non lenisce solo la noia, no: di un riso che è un’altra porta aperta, un’altra via d’accesso al cuore misterioso delle cose.

A proposito di comico: quando una troupe di si presentò ad Andalusia per immortalare il pollo a cui la piccola Flannery aveva insegnato a camminare al contrario, il pollo in questione lottò, oppose resistenza....



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