E-Book, Italienisch, 127 Seiten
Pascale S'è fatta ora
1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-358-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 127 Seiten
ISBN: 978-88-7521-358-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Questo è un romanzo in cinque movimenti, che mette a fuoco quelle volte in cui la vita ha cambiato il suo passo: ha accelerato, si è scomposta, si è biforcata verso il sentiero del successo o sulla strada che conduce al capolinea. Vincenzo Postiglione (alter ego dell'autore già presente negli altri libri di Pascale) alle prese con cinque momenti chiave e altrettanti temi centrali della vita di un uomo: la giovinezza, lo Stato, l'amore, la scienza e il dolore. Cinque iniziazioni (sentimentali, civili, esistenziali) che si intrecciano tra loro dando vita a un particolare romanzo di formazione.
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LA MIGLIORIA DELLA MORTE
Il dizionario medico Larousse fu acquistato prima della Pasqua del 1975. Avevo nove anni e da pochi giorni mi ero tolto le tonsille. Per questo mia madre prese il dizionario. Per attutire lo shock. Il mio shock da tonsillectomia che, appunto, contaminò tutta la famiglia. Mio padre per primo, il quale, un’ora dopo l’operazione, saputo quello che c’era da sapere, entrò nello studio del primario. «Entrò» è un eufemismo. Buttò per aria la segretaria, quasi sfondò la porta, trovò il dottore ancora con i guanti e gli disse:
«Io adesso non vi faccio niente, voglio aspettare qualche anno, quando andate in pensione, allora mi faccio risentire. Strunz!»
All’epoca mio padre andava per i quarant’anni, mentre il primario ne aveva già cinquantacinque. E comunque, per chiarire le cose, lo stronzo in questione si chiamava Grandinetti, primario di otorinolaringoiatria, esercitava nel pubblico ma operava in privato. Allora andava di moda togliere le tonsille e Grandinetti consigliava a tutti i genitori di portargli i figli: una mezza mattinata e passa la paura.
In quegli anni i genitori tendevano a fidarsi molto dei medici, a loro affidavano i corpi, i propri e quelli dei figli, come se questi, i corpi, fossero oggetti ancora sconosciuti.
Non era tanto importante quello che il tuo corpo pativa, ma quello che il tuo medico decideva fosse importante. A ogni sintomo corrispondeva una cura, e va bene, solo che il sintomo era avvertito più dal medico che da te. Allora, per capirci di più del corpo e dei suoi sintomi, per non essere vittima delle suggestioni dei medici e di potenziali shock futuri, mia madre decise di acquistare il dizionario medico Larousse, una sorta di enciclopedia, per andare all’origine dei nostri malanni. Alla matrice.
Saper valutare le parole del dottore perché di queste non si conosceva l’origine e l’orientamento. In sostanza, essere medici di se stessi, ecco il programma di mia madre. Non andò così.
Insomma, non so se fu una buona idea, acquistare quel dizionario. Il fatto è che le malattie descritte al suo interno, fotografate, catalogate, non rendevano il mio corpo più consapevole e più forte, ma solo più suscettibile. Diventai fragile. C’erano parecchie immagini sul dizionario, alcune diventarono una specie di maledizione: corpi deformi, pelle distrutta da eczemi o psoriasi, da ustioni o tumori. Corpi goffi, piegati dall’artrosi o dalla scoliosi, o gonfi per via del fegato leucemico.
Poco dopo la Pasqua del 1975 cominciai a leggere il dizionario medico Larousse, e presi a fissarmi. Vedevo la foto di un bambino con la leucemia e pensavo, dopo appena qualche ora, di essere io quello malato di leucemia. Avvertivo i sintomi, le ghiandole linfatiche gonfie.
Mi fissai e presi a tormentare mia madre.
«Mamma, ho le ghiandole gonfie? Che dici, ho la leucemia?»
«Ti ho detto di non leggere quel libro».
«Ma ho le ghiandole gonfie sì o no?»
Così mia madre, con santa pazienza, mi toccava le ghiandole e diceva:
«No, non sono gonfie».
Il tempo passava e non smettevo di fissarmi. Così mio padre, un giorno, pure perché era tornato da un turno di notte abbastanza faticoso, quando mi vide davanti allo specchio a controllarmi le ghiandole sotto il collo, ebbe uno scatto e mi mollò uno schiaffo. E poi disse:
«Questo sì che fa male, o no? La senti la differenza con tutte quelle cose che ti stai inventando?»
Sì, la differenza la sentivo, lo scarto doveva essere proprio quello, tra reale e immaginario. Eppure lo schiaffo mi riportò subito indietro nel tempo, a pochi mesi prima, quando appunto avevo subito lo shock delle tonsille. Shock reale, che aveva alimentato il mio immaginario.
Tutto era cominciato con una frase:
«Vai che sei grande!»
L’aveva detto mio padre, consegnandomi all’assistente di Grandinetti, il quale, a sua volta, aveva detto:
«Tanto è cosa di niente. Dieci minuti, al massimo quindici».
Con il tempo avrei imparato che due rassicurazioni di questo tipo, una dietro l’altra, nascondono un serio pericolo. Infatti, non era cosa di niente.
L’assistente mi fece sedere su una sedia, una di quelle da scuola, e mi disse di incastrare i miei piedi con quelli della sedia. Non c’è che dire, sembrava un gioco, ancora non immaginavo che quella sedia sarebbe diventata la mia prigione. Poi un’infermiera cominciò a sfogliare davanti ai miei occhi un fumetto: Tiramolla, quello strano esserino con il corpo elastico. Mentre guardavo Tiramolla arrivò Grandinetti, spense la luce centrale e tenne solo una piccola torcia in testa, come quella dei minatori. Mentre il buio si impadroniva di me, Grandinetti infilò una morsa nella mia bocca, la bloccò e quindi procedette. A freddo, senza anestesia. Aveva una pinza in mano, come quelle per il gelato, o quelle che usano le donne per curvare le ciglia, una pinza che scintillava sotto la luce della torcia. Mi stava per rovinare l’infanzia e l’adolescenza: da quel momento in avanti avrei avuto seri problemi sia a ordinare i gelati che a guardare le ciglia delle donne.
Isolò le tonsille e quindi, in un sol colpo, le recise. Può sembrare strano ma, nonostante il dolore, non potevo muovermi. Per colpa dei piedi, dico, non riuscivo a scioglierli da quell’incastro.
«Sputa, cretino!», mi diceva Grandinetti. Stavo ingoiando troppo sangue.
Se fossi riuscito a liberarmi, avrei potuto strappare il Tiramolla all’infermiera, poi alzarmi e correre via, gridare a tutti che Grandinetti mi aveva ingannato, non era «cosa di niente», anzi, mi stava facendo male. Ma ero bloccato dalla mia stessa forza. In pratica, dal mio stesso dolore.
Lo feci dopo, cioè in pieno delirio da shock. Ancora ricoverato dissi a mia madre quello che mi era successo. Lei si mise la mano davanti alla bocca, gesto che faceva spesso quando la situazione era grave. Poi girò la testa per vedere se mio padre, che stava affacciato alla finestra a fumare la sigaretta, avesse o meno sentito il racconto.
Sì, aveva sentito. E per questo prese a correre verso lo studio di Grandinetti. Mia madre appresso a gridare:
«Pietro, Pietro, lascia perdere, aspetta!»
L’amore è questo, purtroppo. Uno che fugge (da un dolore) e l’altro che gli dice di aspettare (per affrontarlo c’è tempo). Ma nessuno dei due in fondo vuole cambiare i passi dell’altro. Nel caso specifico, mio padre non avrebbe mai tenuto conto delle invocazioni di mia madre, ma guai se non le avesse sentite dietro le sue spalle; mia madre a sua volta non avrebbe mai voluto che mio padre si fermasse, così, per il gusto di dirgli un giorno: «Te l’avevo detto che ti dovevi fermare». Come se l’amore non fornisse la possibilità di una riparazione. Troppo rigido il suo schema. Forse Tiramolla era stato inventato per questo, insegnare ai bambini ad amare, cioè flettere il corpo per allontanarsi dalla rigidità del dolore. Forse.
Eppure, quel giorno, nella sala operatoria non mi fu d’aiuto. Il suo corpo elastico, insensibile alla trazione, non poteva consolarmi. Se Tiramolla fosse stato o meno portatore di una metafora, non l’avevo capito: il danno era fatto, il dolore mi aveva bruciato. Come potevo ora recuperare? Disciplinare il dolore per evitare in seguito di rimanere bloccato alla sedia, o aspettare di scaricarlo tutto su Grandinetti? Scappare o inseguire?
A casa mia, le porte delle stanze, per uno strano fenomeno di correnti, cominciarono ad aprirsi all’improvviso. Era il febbraio del 1977. Chiudevo la porta della stanza e tac, ecco che si apriva. Quando succedeva di giorno non ci facevi tanto caso: troppa luce, troppi rumori, troppe presenze in casa per lasciarsi spaventare. Ma di notte era tutto un altro discorso. Lo spiraglio spalancato lasciava passare anche una corrente fredda, uno spiffero di origine non precisata. Mi si gelava il sangue. Guardavo prima mio fratello: nessuna reazione, lui dormiva sempre; poi guardavo in direzione della porta: nessuno. Nessuno che si muovesse, niente che facesse pensare a un ladro o a qualcuno dei miei che si fosse alzato, magari mio nonno, o che so, mio padre appena tornato da un turno di notte. Solo lo spiffero. Era quello a inquietarmi. Continuava a investirmi, come se ci fosse stato qualcuno che soffiava da sempre.
Mio nonno aveva preso a cuore il problema, secondo lui il palazzo si era leggermente curvato a causa dell’usura e di smottamenti vari, come la torre di Pisa. Insomma gli incastri, gli infissi, non erano più a squadro, bastava una minima vibrazione per disincastrarli.
Per questo mio nonno passava intere giornate con la livella, nel tentativo di capire di quanti gradi fosse l’inclinazione.
«Papà, ma voi veramente fate?», diceva mio padre. «E come è, il palazzo si è curvato?»
«Eh! E perché, che ci sta di strano? Fosse la prima volta che succede un fatto di questi».
E così, mentre mio nonno stava inginocchiato a controllare l’inclinazione, mio padre andava da mia madre e le faceva segno...




