E-Book, Italienisch, 172 Seiten
Reihe: Frontiere
Schaefer Il cavaliere della valle solitaria
1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-5649-170-4
Verlag: Mattioli 1885
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 172 Seiten
Reihe: Frontiere
ISBN: 979-12-5649-170-4
Verlag: Mattioli 1885
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Jack Schaefer (1907-1991) è stato uno scrittore statunitense originario di Cleveland, Ohio. Sin dall'infanzia Schaefer fu un avido lettore: uno dei suoi autori preferiti fu Zane Grey, che gli fece conoscere il mito del Far West. Frequentò la Columbia University. Durante il suo percorso di studi, entrò in contatto con la mitologia greca e romana, fonte di ispirazione per la creazione degli eroi archetipici che popolano le sue opere western. Il suo più grande successo letterario fu Shane, Il cavaliere della valle solitaria (1949), tradotto in trentacinque lingue e da cui nel 1953 George Stevens trasse l'omonimo film western, con la sceneggiatura di A. B. Guthrie
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1
Giunse nella nostra valle nell’estate dell’89. A quei tempi ero un ragazzino, e superavo appena in altezza l’asse del vecchio carro di mio padre. Ero seduto sulla sbarra più alta del nostro piccolo recinto, immerso nella luce del sole del tardo pomeriggio, quando lo vidi comparire in fondo alla strada, là dove questa s’immetteva nella valle dall’aperta pianura oltre di essa.
Nell’aria tersa del Wyoming, potevo vederlo chiaramente, anche se era ancora a diversi chilometri di distanza. Non sembrava esserci nulla di straordinario in lui: semplicemente un altro cavaliere vagabondo che cavalcava lungo la strada verso il gruppo di case di legno che costituiva la nostra città. Poi vidi un paio di mandriani che lo superarono al piccolo trotto, si fermarono e lo fissarono con singolare attenzione.
Il cavaliere proseguì per il paese, senza rallentare la sua andatura fino a quando non raggiunse il bivio a meno di un chilometro da casa nostra. Una delle due strade svoltava a sinistra, oltre il guado del fiume, e arrivava fino al grande ranch di Luke Fletcher. L’altra procedeva lungo la riva destra, dove noi che avevamo preso i terreni in concessione avevamo costruito le nostre abitazioni l’una accanto all’altra lungo tutta la valle. Il cavaliere esitò per un attimo, esaminando le due possibili scelte, poi si mosse di nuovo con decisione dalla nostra parte.
Quando si avvicinò, la prima cosa che mi colpì di lui furono i suoi vestiti. Indossava pantaloni scuri di un tessuto di serge infilati in stivali alti e stretti in vita da un’ampia cintura di morbida pelle nera – la stessa degli stivali – decorata con un motivo intricato. Una giacca dello stesso tessuto scuro dei pantaloni era piegata con cura e fissata alla sella. La camicia era di lino finemente tessuto, di un bel colore marrone. Il fazzoletto annodato mollemente intorno al collo era di seta nera. Il cappello non era il familiare Stetson, né il colore era il familiare grigio o marrone chiaro. Era un semplice cappello nero, che pareva essere fatto con un tessuto morbido, diverso da qualsiasi cappello avessi mai visto, con la corona spiegazzata e un’ampia tesa arrotolata e abbassata sul davanti in modo da proteggere il viso.
Qualsiasi traccia facesse sembrare quegli indumenti recenti, era ormai svanita da un pezzo. Sopra di essi si era incrostata la polvere delle strade. Erano logori e macchiati, e la camicia era stata visibilmente rattoppata, anche se con cura, in diversi punti. Eppure, l’insieme continuava ad emanare una sorta di magnificenza che mi riportava alla mente un mondo e costumi estranei alla mia giovane esperienza.
Ma ben presto mi dimenticai di quello che indossava, colpito dalla forte impressione che mi fece quell’uomo. Non era molto più alto della media, quasi esile di corporatura. Accanto a mio padre, con la sua stazza possente, sarebbe apparso fragile. Eppure, nei tratti di quella figura oscura, percepivo una capacità di resistenza e una forza silenziosa nel modo in cui compensava, in modo naturale e senza sforzo, ogni movimento del suo cavallo stanco.
Era ben rasato e il viso, magro e duro, portava i segni lascianti dal sole sulla fronte alta fino al mento deciso e appuntito. All’ombra della falda del cappello, gli occhi parevano socchiusi. Ma quando fu più vicino, mi accorsi che in realtà teneva le sopracciglia aggrottate, con quell’espressione concentrata di chi è abituato a stare all’erta. Sotto le sopracciglia, gli occhi continuavano a guardarsi intorno, a destra, a sinistra, e verso l’orizzonte, passando in rassegna ogni dettaglio visibile, senza perdersi nulla. Non avrei saputo dire perché, ma quando me ne accorsi, mi sentii percorrere da un brivido, nonostante il sole splendesse alto e caldo nel cielo.
L’uomo cavalcava senza fatica, rilassato in sella, appoggiando oziosamente il peso sulle staffe. Eppure, anche quella semplicità rivelava una certa tensione. Era la semplicità di una molla pronta a saltare, di una trappola tesa.
Tirò le redini a meno di venti passi da me. Per un attimo i nostri sguardi s’incrociarono, poi mi lasciò per dirigersi verso la casa. L’edificio non era un granché, in termini di dimensioni e di spazio. Ma quel che c’era era buono. Merito di mio padre, che era una garanzia in questo senso. Il recinto era abbastanza grande per ospitare una trentina di capi di bestiame, se li tenevi tutti premuti l’uno contro l’altro, e c’era una ringhiera che poggiava su dei veri pali affondati nel terreno. Il pascolo appena dietro, che occupava quasi la metà del nostro territorio, era delimitato da un altro recinto. Il granaio era piccolo, ma solido, e stavamo costruendo anche un fienile, su una delle estremità del terreno, per metterci l’erba medica che cresceva fertile nei nostri quaranta acri a nord. Quell’anno avevamo un campo di patate di discrete dimensioni e mio padre aveva provato a piantare una nuova coltivazione di mais, che si era fatto mandare da Washington, disposta in filari ordinati e privi di erbacce.
Dietro la casa, l’orto di mamma aveva un aspetto meraviglioso. La casa era composta da tre stanze, due in realtà: la grande cucina, dove passavamo la maggior parte del tempo e la camera da letto accanto. La mia piccola stanza era stata aggiunta dietro la cucina, coperta da una tettoia. Tra i suoi progetti, quando avesse trovato il tempo, mio padre aveva in mente di costruire per mia madre il salotto che lei sognava da sempre.
Avevamo pavimenti in legno e una bella veranda sul davanti. Anche la casa era dipinta di bianco con finiture verdi, cosa rara in tutta quella regione, per ricordarle, aveva detto mamma quando l’aveva fatta costruire a mio papà, il New England, dove lei era nata. Ancora più raro, era il tetto con le scandole. Conoscevo il significato di quella parola perché avevo aiutato mio padre a spaccare quelle tegole. A quei tempi, esistevano pochi posti così belli e ben tenuti all’interno del Territorio.
Lo straniero contemplava tutto questo dalla sella del suo cavallo. Vidi i suoi occhi posarsi lentamente sui fiori che mamma aveva piantato su entrambi i lati dei gradini della veranda, per poi fermarsi sulla pompa dell’acqua, nuova di zecca e lucente, e sull’abbeveratoio accanto a essa. Poi il suo sguardo tornò su di me e, ancora una volta, senza sapere perché, sentii quel brivido improvviso. Ma poi l’uomo parlò con voce gentile, come chi ha imparato l’arte della pazienza.
“Le sarei grato se potessi usare la vostra pompa per me e per il mio cavallo.”
Con un nodo alla gola, stavo ancora cercando una risposta, quando mi resi conto che l’uomo non si stava rivolgendo a me ma a qualcuno alle mie spalle. Mio padre era arrivato dietro di me e si era appoggiato al cancello del recinto.
“Usi tutta l’acqua che le serve, straniero.”
Mio padre e io lo guardammo smontare da cavallo con un unico movimento fluido del corpo e poi condurre l’animale verso l’abbeveratoio. Pompò l’acqua quasi fino a riempirlo e lasciò che il cavallo affondasse il muso nell’acqua fresca prima di prendere il mestolo per sé.
Si tolse il cappello, lo spolverò e lo appese a un angolo dell’abbeveratoio. Poi, con le mani si spazzolò i vestiti. Usando uno straccio preso dalla bisaccia si asciugò accuratamente gli stivali. Si slegò il fazzoletto dal collo, si arrotolò le maniche della camicia e immerse le braccia nell’acqua, strofinandole vigorosamente e bagnandosi il viso. Si asciugò le mani e usò il fazzoletto per rimuovere le ultime gocce. Poi prese un pettine dal taschino della camicia e si lisciò all’indietro i lunghi capelli scuri. Tutti i suoi movimenti erano agili e sicuri. Con rapida precisione si abbassò le maniche, riannodò il fazzoletto e riprese il cappello.
Poi, tenendo il cappello in mano, si voltò e si diresse verso la casa. Si chinò, spezzò lo stelo di una delle petunie di mamma e se lo infilò nella fascia del cappello. Un attimo dopo, il cappello era di nuovo sulla sua testa, la tesa abbassata in un gesto rapido e meccanico, e l’uomo saltò con grazia in sella, pronto a riprendere la strada.
Lo guardavo affascinato. Non mi era mai capitato di incontrare un uomo così orgoglioso del proprio aspetto. Durante quei brevi istanti, quella sorta di splendore che mi era sembrato di intravedere in lui era emerso in modo ancora più chiaro. Era come se venisse emanato dal suo corpo. Ogni parte di lui sembrava consumata e segnata dal tempo, ma mostrava anche la forza del suo valore e della sua esperienza. Ora non sentivo più alcun brivido. Già mi immaginavo come lui – con lo stesso cappello, la stessa cintura, gli stessi stivali.
Fermò il cavallo e ci guardò. Adesso sembrava riposato e avrei giurato che quelle piccole rughe agli angoli degli occhi fossero il suo modo di sorridere. Quando ti guardava in quel modo, nei suoi occhi non c’era più quell’espressione inquieta. Erano calmi e silenziosi e sapevi che tutta la sua attenzione era concentrata su di te anche quando il suo sguardo pareva distratto.
“Grazie” disse con voce gentile e, dandoci le spalle, stava già percorrendo la strada, quando mio padre lo chiamò con il suo tono lento e deciso.
“Non avere così tanta fretta,...




