Solstad | La notte del professor Andersen | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 164 Seiten

Solstad La notte del professor Andersen


1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7091-423-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 164 Seiten

ISBN: 978-88-7091-423-8
Verlag: Iperborea
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Solo nel suo appartamento, il professor Andersen, cinquantacinquenne divorziato, docente di letteratura all'università di Oslo, sta festeggiando con solennità il Natale: l'albero decorato, l'abito elegante, la cena tradizionale. Mentre medita sul senso di appartenenza che gli dà abbandonarsi con «semplicità infantile» a quel rito collettivo, vede da una finestra della casa di fronte un uomo che strangola una donna. Afferra il telefono per avvertire la polizia, ma poi riaggancia, non chiama, e giorno dopo giorno continua a rimandare, finché la sua esitazione si trasforma in una totale paralisi della volontà. Perché è incapace di denunciare un omicidio? Perché è sempre più affascinato dall'assassino e ne spia ogni movimento, fino al momento in cui si troveranno faccia a faccia? Un inizio da Finestra sul cortile alla Hitchcock per quello che diventa un geniale «giallo di inazione», in cui la suspense è data non dall'indagine sul delitto, ma dalla crisi del testimone e dalla sua ossessiva autoanalisi che finisce per coinvolgerci in una spirale di provocatori interrogativi. Esiste un fondamento assoluto alla morale? La letteratura e l'umanesimo sono ancora in grado di influire sulla coscienza? Non consegnare un assassino vuol dire contravvenire a uno dei cardini della società o rifiutarsi di scagliare la prima pietra? Con un romanzo esistenziale tra ?echov e Thomas Bernhard, Dag Solstad indaga sui temi di colpa e responsabilità, radicalismo e compromesso, ribellione e omologazione, chiedendosi qual è il ruolo dei valori culturali, filosofici, religiosi e morali nell'uomo e nella società di oggi.

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Se qualcuno dei presenti avesse scattato fotografie alla compagnia, cosa si sarebbe visto? Immediatamente dopo lo sviluppo tutti i presenti, i sette intorno al tavolo, i padroni di casa e i cinque ospiti, si sarebbero riconosciuti, sorridendo un po’ dei propri tratti, e dopo forse ancora di più di quelli degli altri; tutti e sette, in altre parole, avrebbero rilevato la peculiarità propria e altrui, sorridendo nel riconoscerla. E anche dopo trenta, trentacinque anni, la stessa foto, ad esempio nell’album di Thomas, figlio di Nina e Bernt, che lo sfogliasse con i suoi figli, all’epoca ventenni, avrebbe forse provocato analogo sorriso di riconoscimento in Thomas e nei suoi ragazzi (o ragazze, se si vuole), stavolta però dovuto al fatto che la foto era così tipica del suo tempo. Tipica del periodo della maturità di Nina e Bernt, gli anni Novanta, e rappresentativa dell’ambiente e dell’ambiente sociale cui appartenevano. Loro, i discendenti di Nina e Bernt, avrebbero guardato quei sette intorno al tavolo nei loro abiti antiquati, in pose bizzarre, e benché il fotografo avesse cercato di evitare che si accorgessero di essere fotografati per ottenere una foto spontanea, avrebbero esclamato: come sembrano rigidi, in posa! nonostante il fatto che proprio la generazione ritratta in quella foto, e in particolar modo quel gruppo sociale, con la sua storia e il suo percorso comune, ci tenesse molto, sia individualmente che nell’insieme, ad apparire naturale, libera e appunto spontanea in ogni circostanza; perché questa è la natura inesorabile di un’immagine congelata nel tempo: la rigidità, la posa saltano sempre fuori, e forse proprio in quella rigidità, in quell’aria in posa, innaturale, consisteva lo spirito del tempo, la condizione dominante degli anni in cui la foto è stata scattata e della quale tutti loro erano prigionieri senza rendersene conto, ma che ora, trenta o trentacinque ipotetici anni dopo, emerge evidentissima dall’immagine e le dà quell’aura speciale che suscita il sorriso benevolo che tutti adottiamo guardando le fotografie di un tempo che non è il nostro, e che possiamo chiamare sorriso di riconoscimento, perché riconosciamo il clima tipico degli anni Novanta in quella foto scattata per caso una sera di Santo Stefano a Sagene, in casa dei nonni, ancora prima che noi, cioè in questo caso i nipoti di Nina e Bernt, nascessimo. Ma mentre per esempio Bernt Halvorsen, vedendosi in quella foto, avrebbe scosso la testa, perché avrebbe immediatamente riconosciuto un certo numero di brutte abitudini professionali che non era mai riuscito a scrollarsi di dosso nella vita privata, e che perciò in quel contesto era lecito chiamare vizi, e pur trovandole piuttosto ridicole, doveva ammettere che ormai era troppo tardi per combatterle, tipo posare una mano sull’altra, cosa che in origine faceva per tranquillizzare i pazienti, ma che era diventato uno dei suoi tratti caratteristici anche durante una cena in casa sua la sera di Santo Stefano, e non avrebbe potuto fare altro che scuotere un po’ rassegnato la testa, prima di passare all’osservazione degli altri soggetti della foto: i cari atteggiamenti di sua moglie, che risaltavano così evidenti nell’inquadratura, l’energia con cui Per Ekeberg si sporgeva in avanti o il mento un po’ sollevato del professor Andersen, che gli dava innegabilmente un’aria un po’ sdegnosa, così tipica di Pål, avrebbe pensato Bernt con un sorriso, perché sapeva che quel mento sdegnosamente sollevato era una posa, voluta e costruita, per dissimulare la profonda insicurezza sociale che l’aveva accompagnato nei suoi cinquantacinque anni di vita, così anche i suoi nipoti, guardando la foto per esempio nel 2029, avrebbero pensato quanto fosse tipico, osservando il nonno e il professor Andersen, non però tipico del nonno o del professor Andersen, avrebbero invece esclamato, alla vista di entrambi: quanto è anni Novanta tenere le mani in quel modo e la testa in quell’altro! Perché così opera lo spirito del tempo, nascosto agli occhi di chi ne è prigioniero, ma ovviamente palese per chi ci osserva in fotografia da un’altra epoca, liberato, dall’esterno.

Dev’esserci stato quindi qualcosa, in quella cena in casa di una coppia di medici di successo a Oslo, il giorno di Santo Stefano del 1990, che potrebbe portarci a mostrarla a dito esclamando: ecco una tipica serata degli anni Novanta, nonostante sia i padroni di casa che gli ospiti esprimessero spontaneamente tutta la propria individualità. Che cosa fosse di preciso, per loro stessi era difficile (per non dire impossibile) riconoscerlo, e naturalmente così penoso (e sta in questo l’impossibilità) che avrebbero preferito non pensarci, ma il professor Andersen era stato gettato di colpo in una condizione interiore (nonché esteriore) così strana, che comportava tra l’altro una grande inquietudine circa il proprio posto in quella compagnia, in cui da una parte si sentiva a casa, non da ultimo perché ne conosceva i codici sociali, vale a dire le buone maniere, o se si vuole il senso dell’umorismo, ma dall’altra anche un po’ intrappolato, tanto che forse avrebbe desiderato evadere, con un eccezionale atto di volontà, un balzo straordinario, se fosse stato possibile.

Cos’era che faceva di loro un insieme così ben definito e facilmente collocabile nel tempo? Qual era, in altri termini, il loro carattere distintivo? Per molti versi la loro evoluzione personale e la loro vita individuale erano state in larga misura simili a quelle riscontrate in passato in gruppi sociali equivalenti. Il successo li aveva omologati. Mangiare bene, bere bene, vivere in appartamenti spaziosi, avere case per weekend e per vacanze, possedere automobili e barche, lascia necessariamente il segno sui privilegiati che ne godono, radicali o meno che siano. Ma se questa generazione, o più precisamente, quella piccola minoranza all’interno dei loro coetanei che si sentiva con tanta sicurezza, e forse a ragione, in diritto di elevare la propria peculiarità a peculiarità dell’intera generazione, se dunque questa generazione aveva una peculiarità, un piccolo ma significativo dettaglio che la distingueva dai professori, primari, attori osannati, alti funzionari e capipsicologi cinquantenni con un passato di giovani radicali degli anni Cinquanta, o Settanta, e quanto a questo, per quel che si può prevedere, anche da quelli del 2020, consisteva sicuramente nel fatto che rifiutavano il ruolo di pilastri della società. In effetti avevano una decisa avversione a considerarsi pilastri della società. Perché non si erano adeguati né al potere, o sarebbe più corretto dire dovere, che esercitavano, né all’ambiente cui appartenevano. Negavano di essere quello che erano. Non si erano adeguati al loro effettivo status. Erano primari, alti funzionari, capipsicologi, attori osannati e professori di letteratura, ma tutti, senza eccezione, intimamente convinti di non essersi mai omologati alla forma che quelle posizioni richiedevano. Erano ancora contro di loro, gli altri, anche se ormai quasi non si distinguevano più da loro, a parte qualche dettaglio, come una decisa propensione a indossare pantaloni di tela blu, i cosiddetti jeans, o anche Levi’s, nell’esercizio dei loro incarichi di alti funzionari, professori etc., anzi il professor Andersen metteva spesso, e con piacere, i jeans quando partecipava alle riunioni del consiglio direttivo del Teatro Nazionale di cui era membro. Erano ancora contro il potere, intimamente opposizionali, anche se ormai di fatto erano i pilastri della società, in tutto e per tutto esecutori degli ordini dello Stato, e nessun altro a parte loro (e qualche vecchia foto nel 2020) era in grado di distinguerli, in quanto servitori dello Stato, dallo Stato stesso, e che votassero quasi tutti per i partiti di governo non sorprendeva altri che loro, pronti comunque a giustificarlo con il fatto che non volevano gettare via il proprio voto per non correre il rischio di lasciar vincere la destra. Ma non era ipocrisia, la loro. Era solo che, fondamentalmente, in fin dei conti, non si erano adeguati a quello che in realtà erano.

Un’altra peculiarità che li caratterizzava era il loro rapporto con i beni materiali. Vivevano e si nutrivano in modo consono alla loro posizione, avevano seconde case e automobili e barche e godevano di un benessere crescente, ma questo non voleva dir niente, pensavano, e a ragione. Non avevano mai desiderato, in realtà, averi materiali, nei loro sogni sul futuro la ricchezza non aveva mai fatto neppure da sfondo. Per questo si comportavano come se quei beni fossero casuali pegni sulla loro vita. Era come se non li riguardassero, non definivano se stessi in base ai beni di cui pure godevano ampiamente e che erano visibili a chiunque. Era evidente in particolare quando uno di loro possedeva qualcosa di palesemente costoso, o di vistosa bellezza, il che capitava anche abbastanza spesso, dato che non si negavano il buon vivere. La spiegavano come un’anomalia personale, ed era proprio chi possedeva la cosa palesemente costosa o bella, a spiegarla come un’anomalia personalissima. Per Ekeberg, ad esempio, aveva una macchina veloce e molto elegante, e la spiegava con il «demone della velocità» che lo possedeva e di cui non era mai riuscito a liberarsi, e Bernt Halvorsen aveva un grande yacht ormeggiato accanto a una casetta molto discreta nella regione costiera del Vesfold, e lo giustificava tirando in ballo un’attrazione quasi patologica per il mare e la vela, legata alla sua infanzia in quella cittadina del Vestfold, la stessa, tra l’altro, in cui era cresciuto il professor Andersen, senza per questo sentirsi in dovere di comprare una barca a vela...



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