E-Book, Italienisch, 164 Seiten
Solstad Timidezza e dignità
1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7091-287-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 164 Seiten
ISBN: 978-88-7091-287-6
Verlag: Iperborea
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Che cosa porta Elias Rukla, dopo venticinque anni di onorato servizio, alla grottesca crisi di nervi che gli fa ritenere conclusa la carriera d'insegnante e definitivamente compromessa la sua reputazione sociale? Mattina d'autunno, doppia ora di letteratura norvegese di fronte a una sonnolenta classe di maturandi, lezione su Ibsen: il professor Rukla si infervora parlando di un enigmatico personaggio de L'anitra selvatica ma i ragazzi non riescono a seguirne le evoluzioni e sono indignati dalla sua incapacità di trasmettere il valore di Ibsen in modo comprensibile. Dalla violenta crisi di quel giorno parte, nella coscienza di Rukla, una resa dei conti che gli fa ripercorrere gli eventi fondamentali della sua vita: dai tempi studenteschi - creativi, liberi, pieni di curiosità intellettuale nella Oslo degli anni Sessanta - alla fondamentale amicizia con il filosofo Johan Corneliussen e con la sua compagna, la bellissima Eva Linde; fino alla necessità di trovare un posto in questa società, al lavoro, al matrimonio e alla gabbia mentale che lo convince dell'impossibilità di una qualsiasi svolta. Con il suo ritmo basato su incisi, apposizioni e iterazioni, la prosa di Solstad insegue il suo oggetto attraverso un personaggio su cui sono proiettati aspetti autobiografici e generazionali. L'esibita 'norvegesità' dell'autore e la sua passione topografica non impediscono al racconto locale di aprirsi all'esperienza condivisa da milioni di 'ex- giovani' nel mondo occidentale.
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In effetti era un professore sulla cinquantina leggermente alcolizzato, con una moglie che era lievitata un po’ troppo e con cui faceva colazione ogni mattina. Anche la mattina di quel giorno d’autunno, un lunedì, di ottobre, che, mentre appunto sedeva al tavolo della colazione con un lieve mal di testa, ancora non sapeva che fosse destinato a diventare il giorno più decisivo della sua vita. Come ogni mattina, si era accuratamente messo una camicia bianca immacolata, che doveva mitigare quel senso di disagio che non riusciva a non provare per essere costretto a vivere in questi tempi e in queste circostanze. Finì la colazione in silenzio, guardò fuori dalla finestra verso la Jacob Aalls gate, come aveva fatto un infinito numero di volte nel corso degli anni. Si trovava a Oslo, la capitale della Norvegia, dove viveva e lavorava. Era un giorno grigio e pesante, il cielo era plumbeo e attraversato da veli sfilacciati di nuvole nere. Non mi stupirebbe se poi piovesse, pensò, e prese il suo ombrello pieghevole. Lo infilò nella borsa con le pastiglie per il mal di testa e qualche libro. Salutò la moglie in un modo eccessivamente cordiale e in un tono che sembrava sincero, in netto contrasto con la sua espressione irritabile e quella decisamente tirata di lei. Ma era così ogni mattina; con la massima fatica si ricomponeva in quel cordiale «buona giornata», come un gesto nei confronti della donna con cui era vissuto a così stretto contatto per tanti anni e verso cui doveva quindi sentire una profonda comunione; e nonostante ormai, tutto sommato, non riuscisse a provare che residui di quella comunione, gli era indispensabile dimostrare ogni mattina con quell’allegro e spontaneo «buona giornata» che nel fondo del suo animo pensava che nulla fosse cambiato tra loro; e per quanto entrambi sapessero che non corrispondeva affatto alla realtà, lui doveva costringersi, per amor proprio, a elevarsi alle altezze dove quel gesto era possibile, se non altro perché così riceveva in cambio un saluto nello stesso tono spontaneo e sincero che aveva, sulla sua inquietudine, un effetto calmante cui non poteva rinunciare. Andò a piedi fino a scuola, l’Istituto Superiore di Fagerborg, a soli sette, otto minuti da casa. Aveva la testa pesante e si sentiva irritabile per aver bevuto birra e acquavite la sera prima; il giusto di birra e un po’ troppa acquavite, pensò. Quel po’ troppo che ora gli stringeva la fronte come una catena. Raggiunta la scuola, entrò direttamente nella sala insegnanti, posò la borsa, tirò fuori i libri, prese una pastiglia per il mal di testa, salutò brevemente ma con naturalezza i colleghi che avevano già fatto un’ora di lezione, e si avviò in classe.
Entrato nell’aula, chiuse la porta dietro di sé e andò a sedersi in cattedra, sulla predella davanti alla lavagna che occupava quasi tutta la parete lunga. Lavagna e gesso. Spugna. Venticinque anni di servizio nella scuola. Al suo ingresso gli allievi presero rapidamente posto ai loro banchi. Davanti a lui ventinove diciottenni lo fissarono rispondendo al suo saluto. Si tolsero dalle orecchie gli auricolari e li infilarono in tasca. Lui li pregò di tirare fuori l’edizione scolastica de . Lo colpì ancora una volta l’ostilità che mostravano nei suoi confronti. Facessero pure, lui aveva un compito da svolgere e l’avrebbe svolto fino in fondo. Era da loro come gruppo che percepiva quella massiccia avversione che emanava dai loro corpi. Presi individualmente potevano anche risultare simpatici, ma nell’insieme, disposti come adesso nei loro banchi, costituivano un’ostilità strutturale, rivolta contro di lui e contro tutto ciò che lui rappresentava. Nonostante obbedissero a quel che chiedeva. Tirarono fuori senza protestare l’edizione scolastica de e la posarono sui banchi davanti a sé. Anche lui aveva una copia analoga davanti a sé. di Henrik Ibsen. Questo singolare dramma scritto da Ibsen a cinquantasei anni, nel 1884. Era più di un mese che la classe lo stava studiando e non erano arrivati che a metà del quarto atto – questo si chiama andare a fondo alle cose, pensava. Un soporifero lunedì mattina. Ora di norvegese, addirittura doppia, in una delle classi di maturandi nella Scuola Superiore di Fagerborg. Quel giorno grigio e pesante fuori dalla finestra. Seduto in cattedra, come gli piaceva dire. Gli allievi con nasi e occhi sul libro. Qualcuno era più sdraiato sul banco che non seduto; la cosa lo irritava, ma non doveva farci caso. Parlava, spiegava. A metà del quarto atto. Dove la signora Sørby compare a casa degli Ekdal per annunciare che si sposerà con il grossista Werle, e dove è presente il dottor Relling, inquilino degli Ekdal. E lesse (lui personalmente, senza chiederlo a uno degli allievi; a volte capitava che lo chiedesse per salvare le apparenze, ma preferiva farlo lui): “RELLING (): Ma questo è proprio vero?SIGNORA Sørby: Sì, caro Relling, è proprio vero.”1 Leggendo, sentì un’insopportabile tensione, perché a un tratto gli sembrò di essere sulle tracce di qualcosa che fino a quel momento non aveva mai notato, commentando .
Da venticinque anni analizzava quel dramma di Henrik Ibsen insieme ai diciottenni dell’ultimo anno di liceo (o scuola superiore),2e il dottor Relling gli aveva sempre dato problemi. Non aveva mai del tutto capito che cosa ci stesse a fare nel dramma. Aveva riconosciuto che la sua funzione era di esporre delle verità elementari, nude e crude, sugli altri personaggi, anzi, fondamentalmente sull’intero dramma. Lo aveva visto come una specie di portavoce di Ibsen, senza capire perché fosse necessario. Anzi, aveva pensato che la figura del dottor Relling indebolisse il dramma. Perché mai Ibsen aveva bisogno di un «portavoce»? Il dramma non parlava da sé? aveva pensato. Ma qui, qui c’era qualcosa. Ibsen fa intervenire il suo personaggio secondario, il dottor Relling, e gli fa tremare leggermente la voce (tra parentesi) mentre chiede alla signora Sørby se è proprio vero che sposerà il facoltoso grossista Werle. Per un attimo Ibsen trascina Relling dentro il dramma, che altrimenti non fa che commentare con i suoi sarcasmi. Ora è lì, prigioniero del suo amaro destino di eterno corteggiatore fallito della signora Sørby, durante entrambi i suoi matrimoni, prima con il vecchio dottor Sørby e ora con il grossista Werle. E per un attimo è solo il suo destino, e nient’altro, a essere congelato sulla scena. L’attimo del personaggio secondario. Sia prima che dopo Relling è sempre lo stesso, l’uomo che pronuncia le battute a effetto, una delle quali è rimasta tra le immortali della letteratura norvegese: “Togliete all’uomo comune la sua menzogna vitale, e gli toglierete anche la felicità.”
Ecco dunque cosa cominciò a spiegare ai suoi allievi, in parte seduti, in parte semisdraiati nei banchi. Chiese di tornare al punto del terzo atto dove il dottor Relling entra in scena per la prima volta, di leggerne le battute, e poi di andare avanti fino all’inizio del quinto (dava per scontato che gli studenti conoscessero l’intero dramma, anche se l’analisi vera e propria era arrivata solo a metà del quarto atto, visto che per prima cosa all’inizio aveva assegnato la lettura integrale come compito a casa, e si permetteva di supporre che l’avessero svolto, a prescindere da quel che loro, individualmente o collettivamente, avessero realmente fatto; non vedeva motivo – pensò con un sorrisetto interiore che attraversò il suo corpo piuttosto prostrato dopo la piccola bevuta meditativa del giorno prima – di fare da poliziotto alla classe), esattamente al punto in cui il dottor Relling, del resto, pronuncia la sua battuta, diventata poi tanto immortale, sulla menzogna vitale, e disse: “Ecco, vedete, il dottor Relling non fa che chiacchierare a ruota libera tutto il tempo, tranne che in un punto, quello in cui ci troviamo. Qui lo vediamo, per la prima e ultima volta, trascinato nel dramma.” Gli allievi fecero come richiesto, sfogliarono indietro, sfogliarono avanti, sfogliarono indietro fino al punto in cui erano, cioè dove vedevano il dottor Relling, per la prima e ultima volta, trascinato nel dramma. Se stavano sbadigliando? No, non sbadigliavano; perché avrebbero dovuto? Non era qualcosa contro cui contestare in modo così violento da sbadigliare; era un’ora assolutamente normale di norvegese di un lunedì mattina alla Scuola Superiore di Fagerborg in una classe di maturandi. Erano lì, seduti ad ascoltare le interpretazioni dell’insegnante di un dramma che dovevano portare alla maturità per l’esame di norvegese, , così chiamato da un’anitra selvatica che viveva in un solaio, un solaio buio, è specificato; qualcuno guardava la pagina, qualcuno guardava lui, qualcuno guardava fuori dalla finestra. I minuti ticchettavano via lentamente. Il professore continuava a parlare di quel personaggio inventato, il dottor Relling, che a quanto pare ha pronunciato una battuta immortale in un dramma di Ibsen. Eccolo qui – disse – congelato per un attimo nel suo amaro destino. Amaro per lui, al limite del ridicolo per noi, soprattutto se ci venisse presentato attraverso i sarcasmi dello stesso dottor Relling.
Ma, aggiunse con il dito puntato dritto...




