E-Book, Italienisch, 200 Seiten
Reihe: Intrecci
Zandel Un affare balcanico
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-6243-573-4
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 200 Seiten
Reihe: Intrecci
ISBN: 978-88-6243-573-4
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Figlio di esuli fiumani, è nato nel campo profughi di Servigliano nel 1948. Ha all'attivo una ventina di romanzi, tra i quali 'Massacro per un presidente' (Mondadori 1981), 'Una storia istriana' (Rusconi 1987), 'I confini dell'odio' (Aragno 2002, Gammarò 2022), 'Il fratello greco' (Hacca 2010), 'I testimoni muti' (Mursia 2011). Esperto di Balcani, è anche uno degli autori del docufilm 'Hotel Sarajevo', prodotto da Clipper Media e Rai Cinema (2022).
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7.
Per una settimana Vadinovic non si fece vivo, come invece prevedevo e, al tempo stesso, temevo. Alla luce di quanto successe dopo, non credo che in tutti quei giorni si fosse dimenticato di me, piuttosto penso volesse darmi il tempo di sistemarmi nel nuovo ufficio e prendere confidenza con le persone e l’ambiente in cui mi sarei mosso. Lo arguii quando riconobbe la mia voce al solito “pronto!”, e senza neppure qualificarsi, lo sentii domandarmi: “Bok, prijatelju, kako si? Tu sistemato, sì? conosciuto nuovi colleghi?”
“Tutto bene, grazie. E grazie per il trasferimento... un bel salto per me!” mi sentii in dovere di dirgli.
“So che parlato con Gubetti, bene!”
“Sì... ormai giorni fa!”
Avrei voluto chiedergli se era stato lui a dire a Gubetti del nostro pranzo al Bocciofilo, ma mi guardai bene dal farlo. Ormai ogni volta che alzavo il ricevitore avevo la brutta sensazione di essere spiato, ma forse esageravo, vedevo fantasmi dove non c’erano. Anche se Vadinovic doveva sospettarlo, se non addirittura saperlo, perché diede un’altra versione, di comodo, della sua raccomandazione.
“Veduto che di tutto staff di piani alti no hanno nessuno che parla serbocroato... mi sembrava velika mana... come si dice mana in italiano?”
“Difetto...”
“Ecco... grande difetto... per bene di azienda, lavoriamo tutti per bene di azienda... Dobro, Guido, vidimo se uskoro!”
“A presto! Bok!” lo salutai.
Quanto presto ci saremmo visti lo venni a sapere una volta arrivato a casa. Nella cassetta della posta trovai un biglietto di invito di Momo Jovanovic per una cena, indirizzato a me e signora, il sabato di quella stessa settimana, e aggiunto a penna cekamo te!, ti aspettiamo, firmato semplicemente Zoran, cioè da Vadinovic. Si era guardato bene dal dirmelo al telefono. Dunque sospettava anche lui di essere intercettato. L’indirizzo stampato sull’invito era Strada F, Olgiata, e appena entrato, temendo chissà quale strano luogo fosse quella via contrassegnata solo da una lettera dell’alfabeto, andai a controllare sulle mappe dei quartieri di Roma allegate all’elenco telefonico. Scoprii così che tutte le vie del lussuoso comprensorio portavano il nome di Strada, più una sola lettera dell’alfabeto.
Mi tranquillizzava il fatto che l’invito fosse stato esteso a mia moglie, che avevo messo al corrente delle mie avventure fin dall’inizio, dal momento in cui avevo sentito oltre la parete della toilette il breve e sospetto scambio di battute tra Vadinovic e Jovanovic al successivo incontro con Vadinovic e la sua donna Nataša al ristorante da Nino, e tutto quanto ne era poi seguito, compresi i miei cambiamenti in ufficio.
“Come dovrò vestirmi?” si preoccupò Stella quando le dissi dell’invito.
Di natura semplice com’era, provava sempre un certo imbarazzo nel frequentare ambienti sconosciuti, soprattutto quelli che riteneva un po’ altolocati, visti i protagonisti.
“Elegante!” mi limitai a dirle, considerando che lo sarebbe stata come sempre senza eccessi, al netto dei vestiti firmati Max Mara che era solita usare nelle occasioni più importanti.
La sera dopo, lasciati i figli a casa, con le due maggiori che badavano al fratellino, ci avviammo con la nostra modesta Lancia Prisma che avevo provveduto a far lavare e tirare a lucido. Stella indossava un miniabito nero girocollo a maniche corte e un cinturino in vita, con sopra un blazer adatto a quella primavera più che inoltrata e scarpe con mezzo tacco, io un classico smoking che mettevo assai di rado e già solo per questo mi sentivo un po’ a disagio, perché mi rendeva consapevole di trovarmi in una situazione particolare. Naturalmente dissimulavo tranquillità, ma in fondo ero teso, forse più di Stella, che in queste occasioni veniva a patti con sé stessa, limitandosi a comportamenti di semplice cortesia verso coloro con cui si trovava a interagire, e se ne stava sempre un po’ defilata. Per me sarebbe stato più difficile fare altrettanto. Anche io ero curioso di scoprire chi fossero gli altri ospiti, non pensavo certo che saremmo stati Stella e io gli unici. Mi chiesi se mi sarei trovato davanti Gubetti, o forse addirittura Capurso, l’amministratore delegato o il direttore generale, ma lo escludevo vista la riservatezza dell’invito.
Arrivati all’Olgiata, ci trovammo di fronte a un cancellone con tanto di guardiania affidata a un uomo di colore in divisa che ci chiese dove fossimo diretti e poi gentilmente ci diede tutte le indicazioni per raggiungere la Strada F. Superata la guardiania entrammo in un vero e proprio parco, con molto verde, giardini e alberi, tra i quali s’intravedevano grandi ville, acquattate dietro cancelli e mura da dove emergevano tetti o terrazze che fossero. Guidai lentamente tra i viali, trovai senza difficoltà la Strada f, e cominciai a controllare i numeri civici. Arrivammo così al cancello della villa di Jovanovic, davanti al quale stazionavano due uomini ben piantati, in giacca e cravatta, ai quali porgemmo l’invito prima ancora che ce lo chiedessero.
“Proseguire dritto fino entrata villa” disse uno di questi, nel tipico italiano privo di articoli degli slavi.
Ci inoltrammo per un breve viale illuminato ai lati da torce, in fondo al quale si stagliava grande e ben visibile la facciata della villa a due piani, il primo quasi interamente a vetrata, con l’ingresso. Qui c’erano altri due addetti, con un grande sorriso ospitale uno di questi ci fece segno di fermarci, e poi, subito dopo, aprì come gesto di cortesia lo sportello.
“Lasciate pure motore acceso!” mi disse l’uomo, sorridente. “Farò io parcheggio.”
A una decina di metri vedevo stazionare alcune Mercedes, Porsche, fuoristrada... Come avevo immaginato la mia Lancia Prisma era la più miseranda di tutte, ma trovai la cosa persino divertente. In fondo che c’entravo io con quella gente? Ancora non mi ero reso conto in che situazione mi stavo cacciando.
Salimmo i pochi gradini che conducevano all’entrata, spalancata su un salone illuminato a giorno, una sorta di chiostro con in mezzo divani e poltrone rivolti verso un grande tavolo al centro, basso, di vetro lavorato e argento, mentre alle pareti prendevano luce gigantografie del pachidermico Jovanovic con le sue prede di caccia grossa: un orso enorme, alci dai palchi imponenti, antilopi, leoni. Dalla parte opposta a quella da cui eravamo entrati il salone si apriva su un giardino, e da lì arrivava, con l’odore di carni alla brace, un brusio molto forte di voci, qualche risata allegra. Ci avevamo messo appena piede quando mi vidi venire incontro Vadinovic.
“Dragi Guido!” mi chiamò, io ricambiai il saluto e passai a presentare: “Mia moglie Stella.”
“Oh, Stella, drago mi je!” esclamò in serbo, il che corrisponde al nostro “piacere di conoscerla”, e si produsse in un baciamano. Subito dopo un complimento: “Bel nome Stella...” e sempre rivolto a lei: “Ha detto Guido come si dice Stella in nostra lingua?”
“No... non mi pare” rispose Stella un po’ imbarazzata.
“Reci, Guido!”
“Zvijezda.”
“Lui detto in croato, ma uguale... in serbo Zvezda.”
Già, pensai, in serbo era Zvezda!
“Bel nome Zvezda” sentimmo una voce provenire da un lato della sala. “Mia squadra è Crvena Zvezda, Stella Rossa, ma ora è solo nome, niente a che fare con comunismo...” rise. “Solo Serbia.”
Vedemmo venire verso di noi un bell’uomo, i capelli appena brizzolati, con una giacca di seta su una maglietta blu Armani. Lo riconobbi immediatamente, ma mi guardai bene dal mostrare stupore. Anche lui si inchinò per baciare la mano a Stella, e poi si presentò.
“Željko” disse, evitando di aggiungere il cognome Ražnatovic. Conosciuto nelle cronache di guerra come comandante Arkan.
Sono certo che Stella non avesse capito chi fosse a omaggiarla, perché si mostrò compiaciuta, come attratta dal magnetismo dell’uomo. Lui poi si girò verso di me per darmi la mano.
“Guido, drago mi je!... Non immaginavo di trovarla qui...” dissi.
Mi guardò con un sorriso compiaciuto. “Sai chi sono?”
Vadinovic mi mise una mano sulla spalla.
“Certo che lo sa” rispose al mio posto: “Guido je naš!”
Io non battei ciglio, per una sorta di cortesia. E di timore. Tutti insieme uscimmo nel giardino, pieno di gente, di uomini di varia eleganza, in alcuni tanto eccessiva da apparire un po’ cafona, in altri informale ma di gusto, il colpo d’occhio però era dato dalle donne, tutte appariscenti, alcune molto belle, comunque affascinanti, bionde, truccatissime, con vestiti aderenti per mettere in risalto i corpi, in particolare le lunghe gambe nude sempre esibite. Uomini e donne stavano in piedi o seduti ai tavoli da giardino sui quali si diffondevano la luce discreta di alcuni fari puntati in modo da non dare fastidio agli occhi e le volute di fumo del roštilj che, insieme agli odori della carne, arrivava da un grande braciere collocato in fondo al giardino, che sarebbe stato più logico chiamare parco, visto come era grande, tutto a prato inglese, coronato da oleandri e alberi ad alto fusto, un lato ravvivato anche dall’acqua blu luminosa di una piscina rettangolare.
Giusto il tempo di prendere un bicchiere di champagne da un vassoio porto da un cameriere in giacca bianca e papillon e mi vedo venire incontro Momo Jovanovic, grosso come nelle foto e come me lo ricordavo quando avevo seguito lui e Vadinovic la prima volta.
“Immagino tu Guido,...