Atherton Lin | Gay Bar | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 360 Seiten

Reihe: Indi

Atherton Lin Gay Bar

Perché uscivamo la notte
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-3389-496-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Perché uscivamo la notte

E-Book, Italienisch, 360 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-3389-496-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Rifugio, palcoscenico, spazio di incontri, di solidarietà, di espressione sessuale: il bar gay è stato a lungo il luogo in cui una comunità priva di diritti e di rappresentazione, esclusa dal centro della scena e delle città, ha potuto riunirsi, sperimentare l'appartenenza, esistere davvero. Oggi, uno per uno, quei luoghi stanno scomparendo, chiusi oppure trasformati in qualcosa di più innocuo (e certo più commerciabile). Possiamo leggerlo come un buon segno, la dimostrazione che non c'è più ragione di nascondersi; ma, senza voler negare il valore di quello che abbiamo guadagnato, è possibile raccontare anche quello che stiamo perdendo? Muovendosi tra analisi politica, ricostruzione storica, aneddoti personali e una giusta dose di gossip, Jeremy Atherton Lin ci guida in un tour transatlantico dei locali che hanno segnato la sua vita e la storia della comunità LGBTQ, una comunità che forse è più frammentata e meno inclusiva di come vorrebbe rappresentarsi. Gay Bar potrebbe essere solo una raffinata (e necessaria) indagine sul legame tra luoghi e identità, non fosse che segna l'irruzione nella scena letteraria di un autore strepitoso. In una prosa sfavillante come una palla da discoteca o malinconica come l'alba che accompagna il ritorno a casa, Atherton Lin ha scritto uno di quei libri rarissimi che sono insieme lettura colta e guilty pleasure: un perturbante memoir erotico, un romanzo d'amore avventuroso, un'analisi poetica del desiderio che non fa distinzione di generi né di orientamenti e accoglie chiunque abbia esperienza o nostalgia delle notti fuori, dei corpi e degli sguardi, della musica e delle luci, delle storie che viviamo a volte solo per il gusto di poterle poi raccontare. «Ci sono notti che hanno un battito udibile, e noi balliamo».

è uno scrittore e giornalista asioamericano e vive tra Los Angeles e l'East Sussex, in Inghilterra. Ha collaborato con The Times Literary Supplement, The Guardian, Frieze, The Face, GQ, The White Review, Fantastic Man, Granta e The Yale Review, e il suo lavoro è stato antologizzato nel Best American Magazine Writing 2022. Gay Bar, il suo libro d'esordio, ha vinto il National Book Critics Circle Award.
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Da giovane mi terrorizzava l’assenza di passato. Per questo la mia scrittura era autobiografica.

Derek Jarman, , 1992

Non ricordo qual è stato il primo per me. Era da qualche parte a Los Angeles. Se può contare, il mio primo gay bar è stato un ex gay bar. Il Probe, su North Highland Avenue, un tempo scandaloso club privato per uomini gay. Io non lo sapevo. Il solo nome la diceva lunga sul suo passato, ma nella mia testa era soltanto una vaga allusione all’atmosfera esplorativa della vita notturna. Comunque il nome del locale non lo usavamo quasi mai. Quando sono arrivato in città per frequentare il college, nel 1992, il locale ospitava ogni giorno una serata diversa vietata ai minori, la serata goth, Helter Skelter, industrial, Kontrol Faktory, e poi c’era Club 1970, la festa disco in costume.

A quest’ultima ero arrivato con un balzo in cima alla fila essendo in compagnia di due bambole del dormitorio. Ad ogni modo a portarmi al Probe per la prima volta era stato il mio compagno di stanza non molto dopo l’inizio dell’anno scolastico. Tim era uno skater che indossava pantaloni talmente larghi che non gli si vedevano i piedi. Siamo andati per una festa chiamata Citrusonic che si teneva ogni settimana per gli appassionati di funky breakbeat: rumori di cartoni animati sovrapposti a percussioni tribali con frammenti di testo sparsi qua e là sull’ecstasy che entrava in circolo. Io dondolavo rigidamente la testa fingendo di essere sotto l’effetto di qualcosa. Tim ha ballato un po’– un ciondolare impassibile che sembrava preludere a uno sbotto di breakdance che non arrivava mai – prima di catturare l’attenzione di una ragazza che faceva la figlia in una sitcom che guardavo da piccolo. Per il resto della serata erano rimasti seduti su una cassa.

Ballavo da solo, a testa bassa, come se fosse così che facevano gli etero, mentre quelli che avevo intorno si sorridevano a vicenda, presi bene dalla droga. Non sapevo di essere in un posto che un tempo era stato prettamente omosessuale. Nei primi anni Settanta si chiamava Paradise Ballroom, uno dei locali di Hollywood in cui uomini gay di pelle scura avevano dato vita a uno stile di danza chiamato . Ci si bloccava in varie pose a ogni di «Papa Was a Rolling Stone» imitando le foto di Greta Garbo, Marlene Dietrich e Gloria Swanson. Alcuni habitué della scena erano apparsi come ballerini in , trasferendo il posing dalla disco allo schermo televisivo. Gli storici del ballo non concordano su quanto si siano effettivamente influenzati il posing e lo stile hip hop del presente in , una serie di rapidi movimenti intervallati da pause, che si narrava fosse stato inventato come modo per gestire con disinvoltura un passo falso. Comunque sia, un’evoluzione del posing fu il , un’allusione a un termine offensivo per indicare gli uomini omosessuali. (Nel corso degli anni la parola è stata usata col significato di catamito, femminuccia, frocio, culattone, puttanella da prigione e accompagnatore di hobo.) Il punking – o , come divenne noto per evitare il termine peggiorativo – si sarebbe poi intrecciato al della East Coast.

Nel 1978 divenne il Probe, un locale per soli leathermen e cloni, machomen così simili fra loro da sembrare replicati in serie in un laboratorio. Si radunavano tutti nello stesso posto per essere scambiati per la stessa persona. Nel 1979 un sociologo americano scrisse: «La tipologia di locale che si sta diffondendo più rapidamente nel mondo dei gay bar è un luogo in cui gli uomini gay possano dichiarare con gusto di non essere come le donne».1 Al Probe, in occasione di una festa di Halloween, tutti i clienti che si presentavano da drag furono fermati alla porta sulla base del fatto che il cross-dressing non rispettava il tema della serata, ossia Sodoma e Gomorra.

Il Probe compare nel film del 1980 nel ruolo che spesso i nightclub rivestono nei film: un luogo di depravazione dove il protagonista si ritrova faccia a faccia con lo spettro di un sé smarrito. La facciata di cemento ha l’aspetto austero di un bunker, o di una lapide. All’interno Richard Gere scivola accanto a cloni sonnambuli in berretto di pelle che si passano boccette di popper. Le feste del Probe avevano temi più o meno elaborati: Adamo e Yves; Sotto il mare; Morte sul Nilo; il Ballo; Halloween a New Orleans; Guerra (con il poster che recitava: 2)

La maratona annuale di dj set del Black Party poteva durare anche quindici ore. In preparazione alla serata il dj del locale per un mese si faceva lunghe dormite e non saltava mai la palestra. I dischi venivano accuratamente selezionati fra le decine di promo che arrivavano ogni settimana. La playlist tracciava un arco che raggiungeva gradualmente l’apice per poi esplodere. Alle prime ore del mattino una diva cantava dal vivo. Via via che ci si inoltrava nella giornata, venivano messi brani più lenti, a volte malinconici, come «Close to Perfection» di Miquel Brown o «Come to Me» di France Joli, riconducibili al genere chiamato o, più impropriamente, .

Nel 1984, nonostante le luci in sala fossero diventate sempre più fioche, i criteri di selezione dei membri si fecero più rigidi. Alle feste in biancheria intima i clienti venivano incoraggiati a «esplorare () il buio»3 con delle torce mentre un fascio di luce bianca di tanto in tanto spazzava la pista soffermandosi su sporadici quadretti lascivi. L’anno successivo il volantino di un evento chiamato Marquis de Sade’s Playroom descriveva un lungo corridoio buio in cui riecheggiava un gocciolio da catacombe e uomini in attesa dietro muri di dura pietra. Negli anni Novanta simili eventi si organizzavano ancora occasionalmente. Pochi mesi prima che arrivassi in città, il Black Party aveva proposto il tema Nighstalkers, probabilmente ispirato al soprannome del serial killer californiano che aveva terrorizzato la mia infanzia. Il volantino della festa prometteva .4 La situazione era descritta nel dettaglio: .

Per me quella dissolutezza andava in scena in altre notti, per altri uomini. Di tutte le categorie umane quella dell’uomo gay adulto era quella con cui avevo meno confidenza. Molti erano morti. Nel 1992, l’anno che mi ero trasferito a L.A., nella contea erano stati diagnosticati oltre quattromila nuovi casi di Aids; nel complesso il numero di vittime nei dieci anni da quando si era diffusa la notizia si avvicinava a quattordicimila. nella maggior parte dei casi si trattava di uomini che andavano a letto con altri uomini. Secondo una ricerca ogni gay di Los Angeles conosceva in media diciotto infetti. Fu nel 1992 che l’Aids fu dichiarata principale causa di morte fra la popolazione giovanile maschile a livello nazionale.

In un saggio uscito quell’anno, «The Pursuit of the Wish», si citavano le parole di un gay che raccontava che, seppure ormai non fosse più così, prima per lui fare sesso era come lavarsi i denti. L’autore, E. Michael Gorman, osservava che quegli uomini che avevano rivendicato una mascolinità esagerata sulla scia dell’emancipazione gay si ritrovavano ora a vestire i panni della badante: forzatamente femminilizzati dalla malattia. Alcuni di quelli intervistati da Gorman erano ottimisti. Uno diceva: «Fra gioco e lutto ritroviamo noi stessi».5 Gorman commentava: «Un possibile cambiamento interessante è il declino del bar come istituzione tipicamente gay».6 Il Probe reagì a tali fluttuazioni nel modo in cui gli uomini si abbordavano fra loro (e si eccitavano) tramite l’introduzione di un servizio di segreteria, 976-PROBE. Il locale si aprì a ospitare serate che attiravano studenti, adolescenti disadattati, raver, etero. La sua mailing list d’élite si dissolse: non era più un locale esclusivamente gay. Il Probe divenne il teatro di feste altrui.

La Los Angeles in cui mi ero trasferito era una città di spazi vacanti. C’era un surplus di appartamenti vuoti. Ero arrivato a settembre, poco dopo aver compiuto diciotto anni. L’aria era secca e immobile dopo un periodo di venti eccezionalmente forti. Il cielo era annerito dai gas di scarico, dagli edifici e dalle palme date alle fiamme a marzo durante le rivolte per Rodney King. L’Aids era ovunque, ma i segni visibili – e il lutto – erano occultati. Non so nemmeno dire che cosa provavo. Forse una parola per descrivere il senso di perdita non esiste, se non sai cos’hai perso.

***

Era il 1992, e io ero contro la visibilità dei gay. I gay che si rendevano visibili non mi facilitavano in nessun modo la vita. Davano corpo ai sospetti che mi perseguitavano nei corridoi della scuola. Non volevo che tutti fossero costretti a pensare ai gay. Di sicuro non volevo che ci pensasse il mio compagno di stanza. All’inizio dell’anno scolastico arrivai per primo. La nostra stanza era così piccola che seduto sul mio letto riuscivo ad appoggiare i piedi sul suo. Pensavo che avrebbe chiesto di essere spostato in un’altra stanza, ma Tim era un tipo navigato. Si era preso un anno sabatico. Le sue pupille oscillavano...



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