Besserie | L'ultimo atto del signor Beckett | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 146 Seiten

Reihe: Amazzoni

Besserie L'ultimo atto del signor Beckett


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-6243-532-1
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 146 Seiten

Reihe: Amazzoni

ISBN: 978-88-6243-532-1
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



A Parigi, nel XIV arrondissement, in rue Rémy-Dumoncel, c'è un palazzo bianco, la casa di riposo Le Tiers-Temps. Tra gli ospiti, un signore dal volto cupo e gli occhi penetranti che gioca con i ricordi, mescolando due lingue, l'inglese della sua Irlanda e il francese dell'esilio letterario. Si tratta di Samuel Beckett, Premio Nobel per la letteratura nel 1969. Il racconto alterna in maniera suggestiva fatti realmente accaduti e immaginazione, flashback e monologhi interiori: circondato dai suoi fantasmi, afflitto dal dolore per la perdita dell'amata moglie Suzanne, l'ottantenne Beckett rievoca la vitalità del passato mentre assiste all'inesorabile cedimento delle proprie forze. Con una massiccia dose di humour e di tenerezza, Maylis Besserie ci rivela uno stupefacente Beckett in attesa del suo finale di partita. Un'emozione sempre più forte si impadronisce del lettore, man mano che il romanzo accompagna il grande irlandese verso l'ultimo dei suoi silenzi.

Besserie L'ultimo atto del signor Beckett jetzt bestellen!

Weitere Infos & Material


AL TIERS-TEMPS
4 agosto 1989


Ho rispettato gli ordini alla lettera. Un cartello gialloblù appeso in bagno ne definisce i particolari.

GLI OSPITI SONO TENUTI A RISPETTARE

LE ELEMENTARI REGOLE D’IGIENE

E PULIZIA PERSONALE

COMPATIBILI CON LA PERMANENZA IN ISTITUTO.

IN CASO DI NECESSITÀ LA DIREZIONE

SI RISERVA DI INTERVENIRE.

Finora andava tutto benissimo. La tonalità salmastra del bagno testimoniava la mia buona volontà e un incontestabile uso del sapone. Macchiette biancastre galleggiavano ancora sulla superficie dell’acqua in via di raffreddamento. Uscire dalla vasca, era un’altra cosa. Bisognava calcolare bene tutta l’operazione, prima. Misurare gli angoli. Il mio obiettivo immediato consisteva nel raggiungere, all’altro capo della vasca, il sedile. Su questo punto, le istruzioni sono inequivocabili: l’uscita dalla vasca passa per un trasferimento in posizione seduta, sulla poltroncina di plastica approntata all’uopo.

Grazie all’ingegnoso sistema ideato dai suoi costruttori, il summenzionato sedile era sospeso sopra la vasca. Straordinaria invenzione ingegneristica al servizio di noi decrepiti. Afferro quindi la maniglia. C’erano due maniglie: una fissata al muro, l’altra sul bordo della vasca, entrambe parte integrante del protocollo di trasferimento sopra descritto. Mi sollevo quindi e atterro bruscamente sul sedile. Vittoria di Pirro. Seppure in porto, lo devo ammettere, il mio didietro aveva accusato il colpo. Molto probabilmente per aver mal regolato la velocità di atterraggio, o meglio di allunaggio. Con l’occasione devo confessare di disporre d’un posteriore – in gran parte costituito di ossa straordinariamente acuminate – poco propenso ad aiutare, in questi casi. Purtuttavia, mi sembra fondamentale precisare la scomodità del summenzionato sedile. Tutt’altro che una bergère, anzi piuttosto duro. Lo dico pur non essendo più abituato ad alcunché di duro, negli ultimi tempi. Vabbè, glissiamo.

Dopo essermi spostato sul sedile – il sedile sospeso – non mi ci trovavo mica male. Mi piaceva stare così appollaiato, le gambe ancora a mollo nella brodaglia saponosa che mi trasmetteva giusto quel tanto di calore per sentirmi a mio agio. Restavo, un momento, così. Polpacci immersi. Dita dei piedi lesse. I piedi sugli scogli del Forty Foot. Vedevo mio padre tuffarsi dal promontorio riservato ai signori. Io e mio fratello gli andavamo dietro. Il brivido del volo piombava in un’acqua fredda come la morte. Nuotavamo, magri come chiodi. Gli occhi fissi sulla baia. Ringalluzziti dal mare d’Irlanda. Il mare freddo.

Sandycove, Glenageary, Dún Laoghaire. Raccoglievo sassolini. Me li mettevo in tasca. Tanto che le tasche si bucavano e mia madre mi sgridava. Mia madre era fredda. Io non la smettevo, nonostante tutto. Non potevo farne a meno. Stipavo le mie tasche sfondate di sassolini lisci. Scivolavano inevitabilmente dentro i pantaloni, lungo le gambe. Mi cadevano sotto; come se li facessi io. Subito ne raccoglievo ancora. Decine di sassetti, da farmene scoppiare le tasche. Pensavo che avrebbero tappato il buco. I sassolini piovevano sull’erba. Un mucchio di sassi a formare una tomba in miniatura. Una sepolturina di zavorre. Tomba d’Irlanda che mi lasciavo ai piedi. Ai piedi della torre.

Pare che si chiami Joyce adesso, la torre. La James Joyce Tower.

Introibo ad altare Dei

Comincia così. Io ero partito male – i miei incipit lasciano a desiderare. È importante cominciare bene. Io ero partito male dall’Irlanda. Peraltro, sono stato costretto a ritornarci. Diverse volte. E a forza di partire, non sono più tornato.

Bisognava pensare a un modo per uscirne. Anche i bagni migliori finiscono. Prendo accuratamente la mira per la traiettoria delle gambe così da raggiungere in un modo o nell’altro la scaletta per vecchi, posta davanti alla vasca in mio onore. Si era ben lontani dalle ballerine di Degas che salgono le scale, le gambe leggere a sfiorare appena con le punte le tavole che le condurranno sulla scena. Se n’era ben lontani. Mostruosamente lontani.

*

Stamane un individuo non meglio identificato si è introdotto in camera mia. Un complice del soggetto che di solito mi insegna a stare ritto sulle zampe. Pare mi avessero avvertito. Bah. Non fa in tempo a entrare nel mio buco che subito chiarisce l’andazzo.

– Adesso, signor Beckett, faremo un piccolo test d’equilibrio. E ha pensato bene di rassicurarmi aggiungendo: Tranquillo, è facilissimo, le basta eseguire quanto le dirò.

Primo sfondone. Eh sì, fin dall’infanzia, infatti, ogni qualvolta mi si chiede di eseguire una certa cosa in un certo modo, io ho l’impressione di mettermici seduta stante, di rispettare le consegne con gran scrupolo, mentre in realtà non combino proprio niente. Può addirittura capitare, in casi molto sfortunati, che senza rendermene conto mi applichi nell’esatto opposto di quanto richiesto – il che, lo capisco, può dare la sensazione che prenda per il culo l’universo mondo. In generale però, non combino niente. Ci provo, a essere bravo. Ma i gesti mi disobbediscono. Contraddicono la buona fede di cui sono pieno. Mi spingono verso correnti avverse e mi lasciano a fallire in un mare di contraddizioni. Nella mia infanzia ne ho spesso pagato le conseguenze. Ancora me ne bruciano le orecchie. Ne ho pagato spesso le conseguenze. Non ne azzecco una. Una bella scocciatura – a pain in the neck, dicevano dalle mie parti. Una scheggia conficcata nelle carni. Conficcata male. Sono il primo a dolermene, pur non potendo intervenire granché. E così, consapevole del mio congenito difetto, non mi apprestavo al fatidico test con lo stesso smodato entusiasmo del mio interlocutore – entusiasmo che collegavo a una crassa ignoranza da parte sua delle fatiche che la nostra vita ci tiene in serbo, lasciandoci ben poco agio di entusiasmarci. Glissiamo.

L’entusiasta era anche imponente, più peloso di uno yeti, ciuffi di peli rigurgitanti tra i bottoni automatici della camicia. Dal gargarozzo gli fuoriusciva un vocione tonante che emetteva suoni in una lingua di cui non ero certo di cogliere ogni sfumatura. Si prende la briga di esibire un quadernone in fondo al quale pendeva una penna rossa trasparente e retrattile, prima di pronunciare la seguente frase enigmatica:

– Forza, test d’equilibrio, signor Beckett: scala di Berg. E pensa bene di chiudere con quest’espressione: All’arrembaggio, forza e coraggio.

Senza avere ancora ricevuto delucidazioni né sul paventato arrembaggio, né sugli estremi specifici della manovra richiesta, decisi di passar sopra, in un primo momento, alle eccessive confidenze dell’orso (era forse lui, ad arrembare? Cominciavo a sospettarlo), in considerazione del fatto che, tra la mentalità dell’animale e il suo comportamento, le suddette erano tutto sommato abbastanza coerenti.

Eravamo ancora alle prime presentazioni quando il bruto tornò alla carica suggerendomi un mucchio di acrobazie a cui mi sottomisi con l’incrollabile fede di un chierichetto.

– Provi ad alzarsi, signor Beckett, ma per favore senza aiutarsi con le mani.

Primo tentativo, salvo per un pelo. Secondo tentativo. Secondo fallimento. Non meglio.

– Un attimo che segno: sa alzarsi da solo, ma con l’aiuto delle mani. Andiamo avanti, forza e coraggio.

Dio ci risparmiò un’altra rima.

– Adesso, provi a restare in piedi due minuti senza reggersi. Lasci la presa... Bravo. Ma proprio niente male, signor Beckett! Stessa cosa, ora, ma a occhi chiusi.

L’animale non mi avrà mica preso per una ninfetta fresca di iscrizione al suo corso di ginnastica? Mi cadevano le braccia – ma non era il momento. Non era proprio il momento. Anch’esse, mi pare logico, dovevano partecipare alla macabra danza a cui mi consacravo per ordine del mio aguzzino.

– Alzi le braccia a novanta gradi. Stenda le dita e si sporga il più possibile in avanti. Badi a sostenersi, signor Beckett, attento a non cadere.

Io sono di quelli che cadono, pensai. Di quelli che crollano, rotolano sotto i mobili, scivolano lungo le pendici dei colli. Care cadute. To’, allitterazione. Da sempre mi sono care le cadute. A Foxrock mi lasciavo cadere dalla cima più alta, aspettando di essere trattenuto all’ultimo dalle accoglienti braccia dell’abete grande – estrema rete. Prima della caduta sentivo il vento lassù, gli aghi rabbrividire. Mi dondolavo con loro sempre più forte, in aria, un uccello spiumato, finché lo slancio mi portava via. Cadevo e ricadevo ancora. Resuscitavo sempre. Morivo e poi ricominciavo. Mille finali da cui uscivo indenne. In un certo senso, inabile alla morte.

Nel trasmettermi l’ultima consegna, la voce del fenomeno si mescolò agli strofinii dei rami ancora agitati per via della mia ascesa. Sull’albero grande, Cooldrinagh e Kerrymount Avenue si offrivano di nuovo alla mia vista e alle mie vertigini. Io sono di quelli che cadono, mi dissi. Riempii i polmoni e mi abbandonai al maggior piacere che mi sia dato conoscere. Due braccia accoglienti mi trattennero, ancora. Inabile alla morte. Brutta caduta. Non il finale, non ancora.

*

Ieri, all’attesissima ora della passeggiata, mentre stavo per infilarmi la giacca, mi sono fatto sgridare – ritorno all’infanzia – da una certa “Jacqueline” (o forse era Catherine, tendo a confondere questi due nomi). Fatto sta che la signora, e da qui prendeva abbrivio il mio processo, mi ha accusato di essermi imbottito le tasche dei pantaloni con fette biscottate per la colazione. Orribile mania. Non pago di non...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.