Canty | Dove sono andati a finire i soldi | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 183 Seiten

Canty Dove sono andati a finire i soldi


1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-337-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 183 Seiten

ISBN: 978-88-7521-337-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Chi pensa che solo le donne - o le donne meglio degli uomini - sappiano scrivere di relazioni e di sentimenti, si ricrederà leggendo questo libro: Kevin Canty è uno scrittore in grado di rappresentare il mondo emotivo maschile con straordinaria potenza ed eleganza, di rivelarne la delicatezza nascosta dietro l'apparente solidità. I protagonisti delle sue storie sono uomini sul punto di prendere una decisione difficile, o che ne stanno scontando le conseguenze: c'è chi passa un ultimo pomeriggio in compagnia del figlio della donna che lo sta lasciando; chi resiste a una seduttrice mentre aspetta un incontro con la ex moglie in un motel sommerso dalla neve; chi deve superare il trauma della morte della compagna cominciando una nuova storia d'amore; chi deve vendere immobili tenendo d'occhio un figlio di quattro anni che morde gli altri bambini. Canty costruisce le vicende dei suoi personaggi con la mano sicura del grande narratore «classico», illuminandole con una compassione profonda che però non concede nulla al sentimentalismo. A detta dei critici, il suo stile sobrio e tagliente ne fa il miglior erede di Raymond Carver sulla scena letteraria americana contemporanea.

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TERRA BRUCIATA


L’allenamento di calcio di Eddie va per le lunghe. Dai sedili anteriori della Crown Victoria di Nancy, io e lei stiamo a guardare e intanto fumiamo e mastichiamo Red Vines. È una giornata d’autunno, bella, e gli alberi che fiancheggiano il campo da gioco sono rossi e gialli e sfolgoranti. Un fascio obliquo di luce solare rende il parabrezza semiopaco, incrostato com’è di moscerini spiaccicati e dei segni lasciati dalle gocce di pioggia.

«Mi sembra che sia migliorato», dico a Nancy.

«Ma guardalo», dice lei, «è su un altro pianeta».

Scuote il pacchetto per prendere un’altra sigaretta mentre io penso a un modo per esprimere il mio disaccordo. Eddie è sicuramente suo figlio, e sicuramente gli vuole bene, ma a volte con lui è dura. Come adesso: Eddie sta lì insieme agli altri bambini, tutti con i parastinchi e le divise, e quando gli arriva la palla, se proprio se la trova di fronte, la colpisce. Corre avanti e indietro per il campo come tutti gli altri. Però dà sempre l’impressione di restare come stupito nel vedersi la palla davanti, quando gli arriva. E la maggior parte delle volte è in leggero ritardo sull’azione. Ogni tanto sembra mettersi a canticchiare fra sé.

«Dieci bambini che giocano a calcio», commenta Nancy, «e uno che fa finta di giocare a calcio. Mio figlio».

Butta fuori il fumo in un modo che ricorda i film degli anni Cinquanta, quasi un sospiro. Allungo una mano sul sedile posteriore, prendo una birra dal frigo portatile. Ho lottato contro il fuoco per tutta l’estate, e al momento me la sto spassando alla grande. Due docce al giorno, gelato a colazione. Di solito questo è il periodo migliore dell’anno: dopo aver lasciato il fronte degli incendi e prima di rimanere al verde.

«Dagli un po’ di respiro», le dico. «Ha solo dieci anni».

«Undici», mi corregge.

«Si rimetterà in pari».

«No», dice lei. «Sai com’è Jack».

Jack è il suo ex marito, il padre di Eddie, non certo un essere umano di successo.

«Ci sono voluti tempo ed esperienze perché Jack diventasse così», le dico.

«Era così anche prima».

«Non sapevo che ci fosse un prima».

Gli altri genitori sono a bordo campo a gridare, a fare il tifo per i figli, a urlare commenti all’allenatore o a prenderlo da parte per parlargli con calma. Un paio di volte, quando Nancy era al lavoro – lavora come infermiera di sala operatoria e fa i turni – con Eddie ci sono andato io, noi due soli, e sono rimasto a bordo campo con gli altri genitori, ma Nancy non lo vuole fare. Dice che si è stufata delle occhiatacce, e non ha tutti i torti. Quei genitori vogliono vincere, vincere, vincere. Quando Eddie s’imbambola e sbaglia un tiro, loro guardano te.

«Devo trovare un modo per fare un po’ di soldi», dice Nancy. «Ho bisogno di andare via dalla città per un po’».

È vero, ha l’aria più stanca del solito.

«Ce li ho io i soldi», le dico. «Un bel gruzzolo. Andiamo in Messico. Laggiù potremmo tirare avanti per tutto l’inverno senza problemi».

È così che vanno le cose tra noi, da quando sono tornato: lei scuote la testa, fa un tiro di sigaretta e poi mi guarda come se fossi un idiota. Tre anni fa, quando l’ho conosciuta, dimostrava molto meno della sua età. Allora mi ero stupito di scoprire che aveva trentadue anni. Tre anni fa stava sempre ad ascoltare ogni mio più piccolo progetto, era sempre pronta a mettersi in viaggio: Messico, Thailandia, ovunque. L’altr’anno stavamo per andare nella Carolina del Nord, così le avrei fatto vedere la mia terra, la spiaggia e i campi di tabacco e i monti Blue Ridge. Ma non siamo mai andati da nessuna parte.

«E poi?», domanda. «Cosa facciamo quando torniamo?»

Non la sopporto quando è così sarcastica e acida, ma so di meritarmelo. L’anno scorso dopo la stagione degli incendi avremmo potuto andare in Thailandia. Io avevo i soldi. Lei i giorni di ferie.

«Torno a scuola», le dico. «Finisco gli studi e mi prendo l’abilitazione all’insegnamento. Te ne ho già parlato».

«Se lo dici tu».

«E questo che significa?»

«Che hai detto la stessa cosa anche l’anno scorso. E ti pare di avere ripreso gli studi?»

«Lavoravo».

Scuote di nuovo la testa, questa volta è triste, non arrabbiata; mi prende la birra di mano e ne beve un po’. Io le sfilo la sigaretta dalle dita e faccio un tiro, ma non riesco ancora a fumare. Due mesi passati nei boschi a respirare fuoco, e ora mi sembra di avere i polmoni pieni di ghiaia.

«E poi ho in ballo quella domanda di invalidità», le dico. «Se quest’autunno torno a scuola la perdo».

«Sono andata di nuovo a letto con Jack», annuncia.

Non me lo aspettavo. È come se avessi un’ape o qualcosa che mi ronza in un orecchio, perciò scuoto la testa per levarmela di torno, ma quella non se ne vuole andare. È andata a letto con Jack.

«Perché?», domando.

«Non lo so», dice. «Lui voleva».

«No. Perché me lo vieni a dire?», chiarisco.

«Non lo so», risponde. Mi agita la sigaretta davanti alla faccia come se fosse quella a potermi dare la risposta. Tiene lo sguardo fisso davanti a sé oltre il parabrezza, nella dura luce pomeridiana. I bambini corrono, i genitori gridano, le foglie vorticano.

Giù nelle profondità della terra le placche si muovono, i continenti si spostano, così lentamente che non ce ne accorgiamo nemmeno. Non possiamo far altro che lasciarci trasportare. È una sensazione che ho, una cosa che sento. Ora Nancy sta piangendo, ma in quel suo modo privato che per me non significa niente di buono. È la sua sofferenza, sono le sue lacrime. Mi sembra che dovrei arrabbiarmi, invece non lo faccio. È solo che ho la sensazione di galleggiare al disopra di tutta la scena e che tutto questo non stia capitando veramente a me. Mi sforzo di sentire qualcosa, mi obbligo a ricordare che mentre io ero là sul fronte dell’incendio a respirare fumo lei si scopava Jack tra le sue belle lenzuola pulite. A pensare una cosa del genere un uomo si arrabbierebbe. Dovrebbe arrabbiarsi.

Eppure vedo la cosa da una distanza di milioni di chilometri, e mi sembra che stia succedendo a qualcun altro. Guardare Nancy che piange.

«Non eri tenuta a dirmelo».

«E invece l’ho fatto». Ora sta usando il suo tono da infermiera. È così che parla ai suoi pazienti, è così che gli chiede di fare come dice, ma non perché lo vuole lei. Per il loro bene.

Un altro minuto passato a guardar fuori dal parabrezza, a respirare, a fumare. Il fumo nell’abitacolo comincia a darmi fastidio, allora apro il finestrino e la fresca aria autunnale si riversa all’interno, aria che sembra satura della luce solare che la attraversa. Per me è come una medicina, come una birra fredda in un pomeriggio caldo: luce chiara e aria pulita.

«Io e te non andremo da nessuna parte», mi dice. «Quando stiamo assieme è la solita storia. E voglio uscirne, Richard. Non ne posso più di essere al verde, di prendermi cura di Eddie da sola. Voglio qualcuno che si prenda cura di me, almeno un po’».

«Ma io stavo lavorando», le dico. «Ero via a far soldi. Cosa c’è di male?»

«Voglio una casa», dice.

«Te la compro io», rispondo.

«No che non lo farai».

Sembra così depressa, mentre lo dice. Le sfioro il braccio, la pelle morbida dell’incavo del polso, poi la attiro verso di me e le bacio il palmo della mano, l’incavo del polso, quel punto morbido. Le placche si muovono sotto di noi, i continenti, i mari.

Quando alziamo gli occhi, Eddie è lì che ci guarda dal finestrino del lato passeggero dove sto io.

«Ehi, ciccio», dico. «Sei stato fantastico in campo».

«Di cosa stavate parlando?», chiede.

«Devo andare al lavoro», dice Nancy.

Eddie ha l’aria mortificata – gli è stato imposto di chiudere il becco, l’ha capito – ma non dice niente; sale sul sedile posteriore della grande Crown Victoria di Nancy e si sdraia.

«Sono stanco», dice. «Possiamo andare da Dairy Queen?»

Nancy comincia a scuotere la testa per dire di no, ma intervengo io.

«Dopo che abbiamo lasciato tua madre al lavoro», gli rispondo.

Nancy mi lancia un’occhiataccia, ma che si fotta. Non è con Eddie che sto troncando. Non è Eddie che mi sta mandando al diavolo.

«Odio il calcio», dice Eddie.

«Non cominciare», replica Nancy. «Mancano solo tre settimane».

«Non mi piace lo stesso», ripete Eddie. «Non mi piace e non sono bravo, perciò cosa ci vado a fare?»

«A me oggi è sembrato che tu sia andato bene, in campo», e a quelle parole madre e figlio mi lanciano un’occhiataccia.

Io e Nancy siamo...



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