E-Book, Italienisch, 441 Seiten
Charles / Ritz Brother Ray. L'autobiografia
1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7521-694-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 441 Seiten
ISBN: 978-88-7521-694-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Come fa un ragazzino nero cresciuto a piedi scalzi in un paesello della Florida negli anni Trenta a trasformarsi in un fenomeno musicale planetario? Come fa un cieco a farsi strada fino all'Olimpo delle star lasciandosi guidare, invece che da un cane e da un bastone, solo dal suo amore per la musica? Questa è la storia audace, appassionante e quasi miracolosa di Ray Charles, raccontata dal suo stesso protagonista con un candore e un entusiasmo rari. Dalle prime lezioni di piano nel retrobottega di un emporio ai tour nelle selvagge dance hall di provincia, fino agli studi delle grandi case discografiche e alle arene di mezzo mondo, Ray ripercorre le tappe di una vita avventurosa e determinata e di una carriera lunghissima, e insieme la storia della musica e della società americane (senza tacere nulla delle sue esperienze con il sesso e la droga, delle sue convinzioni politiche e dei suoi dilemmi religiosi). A chiudere questa imperdibile autobiografia, aggiornata fino agli ultimi giorni di vita dell'autore, c'è un'utile discografia completa e commentata.
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PRIMO ANNO A SCUOLA
Volente o nolente, quando il treno partì da Greensville una mattina presto di fine settembre 1937, io ci stavo sopra.
Era la vecchia linea costiera, aveva una carrozza apposta per i ragazzini ciechi che andavano alla scuola di St. Augustine. C’erano altri ragazzini sul treno, tutti uguali a me, ma non ero dell’umore adatto a socializzare. Me ne restai solo e imbronciato.
Il viaggio non fu molto lungo: duecentocinquanta chilometri, ma mi sentivo fin troppo lontano da casa. Ah, me n’era venuta nostalgia dal momento in cui ero salito a bordo. Quel povero ragazzetto di campagna non era mai stato su un treno prima d’allora, non era mai stato in compagnia di sconosciuti e non aveva mai lasciato casa sua. E soprattutto, la mia vista era quasi completamente svanita. A quel punto riuscivo a distinguere solo i colori più forti, ossia il giorno e la notte, e le forme più grandi.
Arrivato a scuola, continuai a restare sulle mie. Non parlavo quasi con nessuno. Sembravano conoscersi bene, gli altri ragazzi; era tutto un ridere e scherzare, riabbracciarsi e festeggiare l’inizio della scuola. Per me invece erano un mucchio di sconosciuti e non mi importava niente di loro. Con tutta la gente che avevo intorno, ero comunque solo. E ci stavo male. Dentro, ci stavo veramente male.
Anche gli occhi mi facevano male. Ogni volta che guardavo una fonte di luce sentivo dolore. Per cui non era molto divertente dover venire a capo di tutte queste cose: la nuova situazione, i nuovi compagni, tutti i cambiamenti della mia vista.
Soffrivo un sacco. Le prime due settimane non feci che piangere. Mi mancava Mamma. Mi mancava Mary Jane. Mi mancava la mia piccola Greensville e tutti quelli che ne facevano parte. Ah, come mi disperavo: tutte queste novità mi spaventavano.
Gli altri ragazzini non mi erano d’aiuto. Appena mi vedevano piangere si accanivano:
«Guarda la femminuccia, gli manca la sua mamma».
«Uè, uè. Il pupo non fa altro che piangere».
Sapete come sono i bambini. Non hanno tatto; sanno essere terribilmente crudeli. Continuai perciò a tenere il broncio e lamentarmi, mi sentivo triste e malinconico. Ma a un certo punto, non chiedetemi perché, finalmente ne venni a capo e cominciai a prendere le cose per il verso giusto. Strano, devo dire, ma sono fatto così: alla fine, mi adatto.
Ascolta, mi dissi, non ci puoi fare molto con questa storia qui. Per cui meglio che continui ad andare avanti.
La mia vita la si può vedere anche così. Sono stato capace di adattarmi. Sì, fu faticoso, ma in qualche modo riuscii a cavarmela alla meno peggio in quel marasma emotivo. Triste e solo, spaventato, agitato, insicuro, alla fine mi resi conto che non avevo scelta.
Invocare Mamma piangendo serviva a poco. Non sarebbe venuta a prendermi. Ero solo. Per cui, molto lentamente, mi feci forza e cominciai a seguire le attività che scandivano la vita scolastica giorno dopo giorno, e provai a tirarne fuori il meglio.
Se devo dirvi la verità, la scuola non era poi così male. Dipendeva dallo Stato e noi bambini non dovevamo portare niente tranne i vestiti. In certi casi, quando eravamo troppo poveri perfino per avere dei vestiti, ci davano degli abiti smessi. A me diedero dei vestiti di seconda mano. Ovviamente gli altri bambini, ciechi e non, lo vennero a sapere, che ricevevo roba di seconda mano, e questo non migliorò la mia posizione.
All’epoca, come del resto ancora oggi, la scuola accoglieva sordi e ciechi, maschi e femmine, neri e bianchi, più o meno dai sei ai diciotto anni. E se c’era la segregazione!
Prima di tutto, ci si divideva in due, i bianchi e i neri. Che ve lo spiego a fare. C’era la parte bianca e la parte nera. Se eri nero ti veniva fatto capire, e alla svelta, che non potevi oltrepassare la linea divisoria a meno che non ti dessero il permesso. Se dovevi andare all’ospedale, per esempio, ti era consentito passare attraverso il loro territorio. Anche i nostri insegnanti dovevano essere neri.
Dopodiché all’interno dei due gruppi razziali c’era un’altra divisione: i ciechi e i sordi. E all’interno di questi due ci si divideva ulteriormente in femmine e maschi.
C’erano, credo, circa trenta o trentacinque bambini neri ciechi, e una buona parte di loro, a differenza di me, qualcosa la riuscivano a vedere. Erano la mia piccola famiglia, i ragazzini con cui avrei passato i successivi otto anni della mia vita.
Ripensare a tutto ciò adesso mi fa venire da ridere, almeno per una cosa che all’epoca non avevo notato, probabilmente perché non ero molto consapevole dei problemi razziali. Diventare cieco mi rese ancora meno conscio della cosa. Ma pensate all’insensatezza di dividere in bianchi e neri dei bambini . Dico, neanche ci vedevamo!
Non posso dire che la cosa mi facesse rabbia. No. Ero troppo preso dai miei problemi e, a parte tutto, non ragionavo in quei termini. In effetti, di tutta la questione della razza cominciai a interessarmi solo anni dopo. Come musicista andavo in giro parecchio, e presto mi resi conto che non potevo fare pipì dove mi pareva. Allora sì che i nodi vennero al pettine.
In ogni caso, è davvero strano pensare di separare dei bambini, i bianchi dai neri, quando la maggior parte di loro non sa neppure distinguere i due colori.
Gli orari della scuola erano rigidi. Sveglia alle cinque e mezza, colazione, preghiere in cappella, lezioni, ricreazione, altre lezioni, pasto, laboratorio, gioco, cena, e un’ora di compiti la sera. (Il pranzo lo chiamavamo pasto.) Erano severi, e non tolleravano monellerie. La cosa non mi scocciava granché. Ero un ragazzino del Sud allevato da una donna che non mi aveva fatto proprio vivere come un selvaggio. Sapevo che obbedire faceva parte della vita, anche se la cosa non mi faceva sempre impazzire.
I ragazzini ciechi vivevano tutti in un unico edificio: il dormitorio dei maschi da una parte, il dormitorio delle femmine dall’altra. I supervisori delle due sezioni, il signor Knowles per i maschi e la signorina Katy per le femmine, alloggiavano fra i due dormitori, per essere sicuri che non ci fossero passaggi da una parte all’altra.
Mi feci degli amici. Clarence Nelson, di Pensacola, e il mio compagno di letto a castello, Joe Walzer (che adesso fa il disc-jockey). Una volta che cominciai a ingranare, presi rapidamente dimestichezza con i locali della scuola ed ero in grado di andarmene in giro con gran facilità. Passavo molto del mio tempo a studiare come si comportavano i ragazzi grandi.
I ragazzi grandi. Una frase molto popolare. I ragazzi grandi avevano fatto questo, i ragazzi grandi avevano fatto quest’altro. Tra i ragazzini erano loro ad avere il potere, e presto mi resi conto che le cose sarebbero andate decisamente meglio anche per me, crescendo.
Prima cosa, dovevo imparare il braille. Facile; in pratica mi ci vollero dieci giorni o giù di lì, e in un paio di mesi sapevo già leggere interi libri di storielle come e . Li chiamavamo abbecedari. Non sembravano una gran fatica.
Un paio d’anni dopo, ne avevo nove o dieci, scoprii di essere bravo anche in laboratorio. Imparai alcune tecniche: a scolpire, a intrecciare le canne di vimini per i sedili delle sedie, a costruire scope e stracci, sottopentole e oggetti di cuoio. Mi piaceva. E in poco tempo fui in grado di tirar fuori cose degne di un professionista. Ero particolarmente bravo come tessitore, con quei vimini ci sapevo veramente fare.
Il pomeriggio, dopo le lezioni, giocavo nel cortile con i maschi. Adoravo correre ed ero parecchio veloce. Non ero un atleta completo, ma me la cavavo. Tra di noi facevamo certi giochi nostri e ce n’era uno in particolare che mi piaceva. Funzionava così. Prendevamo una rivista, la arrotolavamo e la piegavamo un paio di volte perché diventasse una cosa dura, quindi la legavamo tutta con lo spago. Era la nostra palla. Poi prendevamo il bastone da una scopa e lo usavamo come mazza. Il battitore doveva prendere nella mano sinistra la palla, lanciarla in alto e colpirla con il bastone.
Vi sorprenderebbe sapere quanti di noi mancavano la palla: anche quelli che ci vedevano. Ogni squadra aveva tre o quattro giocatori. Ovunque si fermasse la palla, l’altra squadra batteva da lì. Colpendo la palla avanti e indietro, marciavamo gli uni verso il territorio degli altri.
Era un gioco scemo, ma lo adoravo. (Giocavamo pure a football americano, con tutte le regole, solo che non facevamo passaggi lunghi.)
Direi che ero uno studente con la media del sette. Le materie in cui andavo meglio erano matematica e musica, e ora capisco il motivo: sono collegate tra loro. All’epoca non lo sapevo, ma sicuramente in qualche modo lo sentivo.
Dopo aver imparato a conoscere la scuola, me ne andavo in giro per le stanze in cui i ragazzi e le ragazze grandi si esercitavano al pianoforte. Mi piaceva restare lì ad ascoltare.
Ero sempre a caccia di suoni nuovi. Per divertimento provavo a copiare tutto quello che ascoltavo. Non cominciai a prendere lezioni vere e proprie fino a quando compii otto anni, l’anno successivo.
Ma proprio quando mi ero inserito per bene nella vita della scuola, successe una cosa che mi fece perdere di nuovo l’equilibrio.
A Natale, gli studenti andavano tutti a casa. Tutti, s’intende, tranne me. Mamma non aveva soldi da mandarmi. (Lo Stato pagava solamente il trasporto casa-scuola all’inizio e alla fine di ogni anno scolastico. I trasporti extra li pagavano i genitori, se volevano portarsi i figli a casa.) E...




