Cirillo | Massimo Ranieri - Le rose non si usano più | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 101 Seiten

Reihe: Incendi

Cirillo Massimo Ranieri - Le rose non si usano più

Le rose non si usano più
1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-6783-178-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Le rose non si usano più

E-Book, Italienisch, 101 Seiten

Reihe: Incendi

ISBN: 978-88-6783-178-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Apparentemente, Jacopo Cirillo e Massimo Ranieri non c'entrano nulla l'uno con l'altro per motivi biografici e anagrafici. Solo apparentemente, però, perché la vita dell'autore è costellata, fin dall'infanzia, da ricordi, storie, commedie e drammi legati al grande artista napoletano. Con meraviglia, seguendo Cirillo, scopriamo che Massimo Ranieri è un concatenamento: un attore prestato al canto, un ballerino prestato alla recitazione, uno showman prestato al ballo e un cantante prestato allo spettacolo. Indefinibile, perché si sposta continuamente da un'arte all'altra senza risiedervi, è un artista totale, un susseguirsi poliedrico di performance che coprono tutto lo scibile artistico. Nonostante una vulgata che lo relega spesso a semplice cantante melodico, Ranieri è riuscito a costruirsi una carriera multiforme e variegata, apprezzata e legittimata dai più grandi protagonisti della cultura artistica del Novecento come Pasolini, Fellini, Strehler e Nureyev. Un libro che è un omaggio a un grande artista italiano, per molti un idolo e un'icona, per altri invece un personaggio da scoprire in tutto il suo straordinario talento.

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1


Prima parte


 

Rose rosse


1.


Il vero nome di Massimo Ranieri è Giovanni Calone.

È nato a Napoli il 3 maggio del 1951 da una famiglia operaia. Viveva nel quartiere Pallonetto di Santa Lucia ed era il quarto di otto figli. Il padre, Umberto, faceva l’operaio all’Italsider; la madre, Giuseppina, si occupava di tutto il resto ed era conosciuta ai più come “la carabiniera”. Anche lei veniva da una famiglia di otto figli, e Ranieri la descrive benissimo:

Mia madre veniva da una realtà in cui non c’era tempo per nient’altro che per vivere. […] Quello era un mondo dove la fantasia serviva per sopravvivere; dove potersi procurare gli alimenti di prima necessità, il pane, il latte, magari un pezzo di carne, era già un traguardo; dove sentirsi al sicuro, con un po’ di soldi in tasca per qualche settimana, era già motivo di conforto. Un mondo dove la carta serviva per accendere il fuoco, certamente non per leggere e scrivere.2

Insomma, a casa Calone non si scherzava, e non si perdeva tempo. Giovanni infatti doveva lavorare, anche da bambino. Ha fatto lo strillone – aveva già una voce imponente – poi il posteggiatore, il raccoglitore di spazzatura, il barista e, per arrotondare, cantava nei ristoranti mentre serviva ai tavoli.

Quando Giovanni aveva otto anni, era l’unico scugnizzo di Napoli a non saper nuotare. Proprio per questo, suo fratello Aniello e il cuginetto Gaetano lo portarono al largo con una barchetta e lo buttarono in acqua, a tradimento. Non paghi, gli bloccarono anche la testa con le mani e con i piedi.

Qualche giorno dopo, per lo spauracchio causato dal sangue del suo sangue, Giovanni non riusciva ancora ad avvicinarsi all’acqua. Proprio per questo, Aniello e la sua banda lo trascinarono davanti a Castel dell’Ovo e lo piazzarono su uno scoglio scivolosissimo al centro dello specchio d’acqua di fronte ai ristoranti.

«Canta» gli disse Aniello.

«Ma, io…»

«Canta. Altrimenti ti butto a mare.»

E Giovanni cantò.

I turisti ricchi, che si abbuffavano in dileggio degli scugnizzi affamati, ammutolirono davanti a un ragazzino secco come una semmenzella con una voce straordinaria, che interpretava le più famose canzoni napoletane. Ammutolirono e aprirono i portafogli. Fu il primo grande successo di Massimo Ranieri, e il primo grande successo (economico) di Aniello.

Giovanni iniziò a cantare, sempre. Nel periodo in cui lavorava al bar Gelo, portava spesso il caffè nel negozio di parrucchiere lì di fronte, un posto molto ben frequentato. Ogni volta che entrava, i titolari gli chiedevano di esibirsi per i clienti, lui interpretava con gioia Modugno e Celentano e usciva tra gli applausi divertiti delle ricche signore in permanente. Un giorno andò a farsi la messa in piega una certa Mara Del Rio, cantante abbastanza famosa all’epoca; Giovanni si sgolò anche per lei, che se ne innamorò all’istante, chiamò il suo potente marito per farglielo sentire e, dopo qualche telefonata, anche il maestro e talent scout Gianni Aterrano rimase colpito dal talento del ragazzo, procurandogli una prima scrittura da duecentomila lire, un’enormità.

Tutti, in famiglia, erano al settimo cielo. Tutti tranne sua madre. La carabiniera Giuseppina, infatti, nonostante il figlio avesse appena comprato l’arredamento nuovo per ogni stanza della casa, lo spedì regolarmente al lavoro la mattina dopo. Cantare non è un mestiere vero, ripeteva sempre, bisogna vivere con i piedi ben piantati a terra. Bisogna faticare.

Sua madre non ci credeva o, meglio, non voleva. Il padre, invece, era l’esatto contrario e, grazie a quelle duecentomila lire, pensò che il sogno potesse diventare realtà, e che il mondo iniziasse a disporsi per loro, e per il figlio.

Un esempio? La storia dell’America.

Nel 1964, a tredici anni, Giovanni si faceva chiamare “Gianni Rock”, dopo raccontiamo anche il perché; il suo amico Nunzio Gallo decise di organizzare un tour negli Stati Uniti con Sergio Bruni, famoso cantautore e compositore dell’epoca. Di fatto, Giovanni doveva fargli da apripista, un modo carino per definire chi entra prima dell’artista e fa la prova microfono per l’acustica della sala.

Immaginatevi un ragazzetto di Napoli che arriva a New York in transatlantico, al seguito di un cantante vero. Appena sceso dalla nave, Giovanni vide una cosa che lo colpì: un portantino nero, con il carretto per i bagagli, cantava Volare di Domenico Modugno. Da adulto, Ranieri raccontò che, ai tempi, identificava tutti i neri con Ray Charles e che, per questo, si sentì particolarmente orgoglioso del fatto che Ray Charles stesse cantando una canzone italiana.

Sergio Bruni, dal canto suo, non fu molto carino con “Gianni Rock”; soffriva perché, quando si apriva il sipario e il ragazzetto gorgheggiava qualche accenno di canzone, il pubblico lo accoglieva con grande entusiasmo. Si racconta che, una volta, Bruni guardò il pianista e gli disse: «Maestro, ma stu guaglione ha da fa’ proprio questa apertura? Non può cantare dopo di me?».

Dunque Giovanni si fece valere così tanto da meritarsi un provino in un locale molto famoso di New York, dove lo scritturarono per cinquemila dollari a settimana. Cinquemila dollari a settimana, a tredici anni. Niente male, se non fosse che in America non si potevano mettere sotto contratto i minorenni, dunque tutto sfumò e il gruppo di musicisti tornò in Italia.

Ho sempre fantasticato su questa storia, provando a immaginare come sarebbe andata la vita di Massimo Ranieri se fosse rimasto in America, tipo Sliding doors: una love story con Madonna, l’accento newyorchese abbellito dalla cadenza napoletana, una villa enorme a Los Angeles con cinema e studio di registrazione e un attico a Manhattan davanti a Central Park. Massimo Ranieri che vince un sacco di Emmy, saluta tutti sul red carpet, va sempre ospite da Jimmy Kimmel, fa un po’ di beneficienza ben pubblicizzata, un cameo d’autore in una serie Tv e, magari, presenta pure la notte degli Oscar al posto di Neil Patrick Harris.

Basta, adesso. Non posso distrarmi troppo, devo documentarmi, essere impeccabile. Mi figuro, per l’ennesima volta, il momento ormai prossimo del nostro incontro. Entro nella stanza, saluto, stringo la mano, mi siedo e attacco subito con la storia della nonna. Ranieri si commuoverà, forse, o almeno si lascerà andare a un sorriso compiaciuto. Ma poi?

Devo trovare una domanda da cui iniziare, qualcosa con cui stupirlo, stimolarlo, pungolarlo per ottenere risposte che nessuno, prima d’ora, aveva mai ascoltato.

Mi guardo attorno, il treno è pieno, ci sono solo alcuni sedili vuoti o usati per le valigie e gli zaini da passeggeri troppo pigri, o troppo gracili, per raggiungere le cappelliere in alto. Chissà, potrebbero essere tutti grandi fan di Massimo Ranieri, sarebbe bello. Più probabilmente, come spesso accade, si limiteranno a considerarlo l’interprete di un paio di canzoni, e niente più.

Eccola, allora, la prima domanda che posso fargli: perché la maggior parte delle persone che non sono tuoi fan ti conosce solo per due canzoni?

Prima di mettere tutto nero su bianco, provo a fare un sondaggio tra i passeggeri, sperando che non confutino drammaticamente la mia tesi. Comincio da una signora di settant’anni, con l’espressione della zia che ti regala gli ovetti Kinder pur sapendo che non ti piace il cioccolato.

Le chiedo: «Signora, che cosa le viene in mente se le dico Massimo Ranieri?»

E la signora risponde, prevedibile.

Continuo con un ragazzo di trent’anni, occhiali spessi e un paio di baffoni un po’ anacronistici. Stessa domanda, differente risposta: «Scusa, chi?». Buon per me, ho appena individuato il grado zero dei fan di Massimo Ranieri, forse l’unica persona in Italia che non l’ha mai nemmeno sentito nominare.

Già, perché il paradosso è proprio questo: tutti sanno chi è, molti però lo circoscrivono a due, due sole, uniche canzoni che, a questo punto, immagino abbiate già indovinato.

Arriva il controllore.

«Biglietto, grazie.»

Glielo porgo.

«Posso farle una domanda?»

Mi guarda strano. Gliela faccio. Lui risponde, come la signora di prima. Dopo parlo con una manager di quarant’anni in tailleur, con una famiglia in gita (padre con le occhiaie, madre con pranzo al sacco, bambino piccolo che non smette di ripetere: siamo arrivati?, siamo arrivati?, e adesso?, e adesso?) e, infine, con un tizio che si era chiuso in bagno per evitare i controlli.

Sempre la stessa risposta, sempre la medesima dicotomia.

Che cosa vi viene in mente se dico Massimo Ranieri?

Rose rosse. Perdere l’amore.

E poi?

Poi basta.

E pensare che ci sono tantissime altre canzoni di Ranieri, e addirittura più belle. Come quella con cui, a vent’anni, in Croazia ho cercato di convertire al ranierismo i miei due amici di sempre.

2.


Agosto 2002
Isola di Krk, Croazia

«Abbiamo dell’erba a portata di mano o è tutta in valigia?»

«Io ho...



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