Cobain | Territorial Pissinigs | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 112 Seiten

Reihe: minimum fax musica

Cobain Territorial Pissinigs

L'ultima intervista e altre conversazioni
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-3389-568-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

L'ultima intervista e altre conversazioni

E-Book, Italienisch, 112 Seiten

Reihe: minimum fax musica

ISBN: 978-88-3389-568-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Il 5 aprile del 1994, con un colpo di fucile, Kurt Cobain si toglie la vita. Ha ventisette anni, come ventisette anni avevano, al momento della morte, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison. Tre anni prima, con Nevermind, i Nirvana avevano cambiato per sempre la storia della musica rock, inanellando una serie di canzoni nelle quali i Beatles e la sensibilità punk trovavano un incredibile e armonico punto d'incontro. Accanto al corpo di Cobain viene ritrovata una lettera d'addio dalla quale emergono con chiarezza la difficoltà nel gestire il successo e l'esposizione mediatica, lo stato di sofferenza fisica che lo avevano indotto a usare l'eroina come antidolorifico, l'incapacità di conciliare una sensibilità fuori dal comune e una fama improvvisa e travolgente. Le interviste raccolte in Territorial Pissings consentono di ricostruire, attraverso le sue stesse parole, la vita, le idee, la concezione musicale di un genio fragile, che ha saputo, quasi contro la sua stessa volontà, farsi portavoce di una generazione lontana dagli antichi sogni rivoluzionari e dalle grandi ideologie ma carica di una creatività e di una rabbia probabilmente irripetibili.

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INTRODUZIONE


È uno dei doveri dei giovani recriminare alla generazione precedente i suoi fallimenti. Per quanto riguarda i bersagli delle accuse è possibile tracciare uno specifico filone che da Holden Caulfield nel 1951 arriva fino ai Nirvana nel 1991: i , i conformisti, i borghesi, la società, il sistema, il mainstream, gli yuppie, l’aziendalismo, i poser, i fake, i venduti. Queste accuse si rifanno a un ideale di autenticità, in base al quale il peggior peccato è probabilmente l’ipocrisia. Il capitalismo è sempre stato in grado di assorbire e metabolizzare il dissenso e la resistenza, appropriandosene, ed è il motivo per cui la sottocultura è costretta a reinventarli continuamente. I Nirvana e Kurt Cobain negli anni Novanta hanno segnato probabilmente il punto culminante di queste accuse, ma è stato anche il momento in cui le tensioni interne alla sottocultura si sono fatte insostenibili. Dopo di loro, qualsiasi critica avrebbe dovuto essere formulata su basi differenti.

Kurt Cobain, come molti ragazzi venuti dopo il Vietnam, dopo il Watergate, dopo la controcultura, aveva assimilato una sorta di cinismo, di disincanto. L’ossessione per l’ironia coesisteva con l’ossessione per l’autenticità. La satira era diventata onnipresente: c’era la rivista (piena di parodie che ridicolizzavano qualsiasi cosa, dai film commerciali alle pubblicità), c’erano i Wacky Packages (pacchetti di sticker con pubblicità di prodotti famosi in versione parodica) e c’era il in cui nel 1975, primo anno della trasmissione, Jerry Rubin figurava nei panni dello «Yippie» in un finto spot pubblicitario in cui reclamizzava una carta da parati coperta di graffiti con slogan hippie. Faceva ridere perché Jerry Rubin si era davvero venduto, passando da attivista radicale a imprenditore di successo; il fatto di esserne consapevole rendeva la cosa tutto sommato accettabile, ma quell’atteggiamento cinico racchiudeva in sé anche una forma di resa. Sembrava che la sinistra radicale avesse ormai deposto le armi. E, in effetti, Reagan e Thatcher erano dietro l’angolo.

Il punk, per quanto a sua volta ammantato di ironia, costituiva un gigantesco atto di rifiuto nei confronti di quel cinismo. Nel 1977 i Sex Pistols pubblicarono un singolo ironicamente intitolato «God Save the Queen». È celebre il sorrisetto di Johnny Rotten mentre chiede al pubblico: «Vi capita di pensare che vi abbiano fregati?» Quel ghigno sarcastico stava lì a significare che c’era un secondo livello in quella battuta: i Sex Pistols fregavano il pubblico, rifiutandosi sfacciatamente di risultare gradevoli, ma anche la cultura aveva fregato tutti, lasciandogli addosso una specie di nichilismo. Tutti sputavano addosso a tutti: il pubblico sul gruppo, e il gruppo sul pubblico.

Nel corso della sua evoluzione il punk ha conservato quel rifiuto nichilistico, ma ha acquisito man mano anche una vocazione egalitaria. Lester Bangs ha raccontato che i Clash invitavano i fan nella loro camera d’albergo. Non erano divi del rock, erano solo una garage band. Il punto non era essere dei virtuosi con lo strumento ma essere virtuosi sul piano politico. E fu questa idea di purezza che il punk si portò dietro fino agli anni Ottanta, un contrappunto alla cultura materialista e aziendalista degli anni di Reagan.

C’erano delle trappole fin dall’inizio in quel fervore giovanile per l’autenticità: innanzitutto il problema di come riconoscerla, e poi la facilità con cui i tratti distintivi dell’autenticità possono diventare l’ennesima posa infarcita di cliché (che sono il marchio di fabbrica delle imitazioni). In queste interviste – la prima delle quali risale al 1990, l’anno prima che i Nirvana sfondassero, mentre l’ultima a due mesi prima della morte di Cobain nel 1994 – Kurt Cobain mostra di aver inglobato il punk degli anni Ottanta nell’«underground» indie/alternativo, e lo vediamo dibattersi per restare fedele alla sua etica punk. Ma era impossibile. Da una parte dovevi avere l’ironia, l’atteggiamento ambivalente di uno a cui non importa di niente, ammettere apertamente la tua complicità col sistema. Allo stesso tempo però era necessario che ti importasse, ed era necessario seguire delle regole ferree per non venderti. Forse bisognava essere come Calvin Johnson, un artista semisconosciuto ma stimato. Probabilmente Kurt Cobain è stata l’ultima persona a credere nel punk, e dover mediare costantemente tra queste tensioni opposte lo stremava. Senza contare che c’era qualcosa di elitario e fighetto nell’oscurità affettata, no? Il punk non dovrebbe essere elitario (è il problema di una sottocultura definita spesso da ciò che è).

Nell’ambito dell’ethos del punk uno dei miei filoni preferiti è quello iniziato con gli Stooges e poi ripreso dai Replacements: l’orgoglio di essere perdenti. Era una forma di anticapitalismo, di resistenza al culto dell’avidità e del successo materiale, amorale, tipico degli anni Ottanta. È esemplificato dalla famosa t-shirt della Sub Pop su cui campeggiava la parola LOSER in maiuscolo, o dal pezzo di Beck del 1994 «Loser». E sentiamo la stessa nota autodenigratoria quando Cobain dice che i Nirvana sono «pigri» e «analfabeti» e che in qualsiasi discussione avevano la peggio perché si erano fatti «troppe canne e troppi acidi». Questa autodenigrazione è un atto di liberazione e sovversione – i ragazzini bullizzati che si riappropriano delle parole un tempo usate per ferirli. Ma allo stesso tempo è anche una posa, come se non volessero essere sorpresi a tenere troppo a qualcosa. Non puoi criticare le mie canzoni perché sono il primo a dire che faccio schifo e non so suonare. Come per tutti gli altri filoni, le cose sono più complicate di così. Magari, è vero, Kurt Cobain non era erudito in fatto di musica o di letteratura, ma era bravo. Magari non andava fiero di nient’altro, ma andava fiero dei suoi dischi.

Ma allo stesso tempo la sua umiltà era autentica. Dopo il traumatico divorzio dei genitori («il mitologico divorzio è una noia», cantava in «Serve the Servants») aveva condotto una vita nomade, a tratti dormendo in macchina. Non aveva finito le superiori, aveva lavorato come inserviente, ma per la maggior parte del tempo era disoccupato. La cosa che lo aveva salvato, il punto in cui iniziava e finiva la sua vita, era la musica. Credeva davvero nella musica, uno spazio in cui poter essere se stesso. Cominciò a scrivere canzoni dedicandovisi anima e corpo, a suonare la chitarra e a esibirsi. E sapeva benissimo come doveva essere la sua musica. Doveva essere come la musica che amava: grezza e dura ma con melodie pop e testi che risultavano strani e interessanti anche dopo averli sentiti mille volte. Proprio come i Beatles e i Black Flag, che erano riusciti a farsi apprezzare dal grande pubblico. Il problema era quello che faceva il mondo alla musica: il commercio, la promozione. Alla fine, nelle sue interviste, si vede che sta metabolizzando questa cosa. Non vuole una «immagine». E, nei suoi testi, riesce a combinare sarcasmo e ambiguità e allo stesso tempo mostrare quanto gli importa, davvero tanto, di un sacco di cose e per tutto il tempo. Se nelle canzoni il trucco funzionava, era più difficile farlo funzionare nella vita. Spesso nelle interviste mentiva o si sottraeva alle domande, ma allo stesso tempo cercava di essere onesto in modo quasi compulsivo, di essere vulnerabile, una persona che soffre e che continua a confessarsi e a mostrare il proprio cuore nonostante si senta tradito dalla stampa e snervato dai fan. Continuò a rilasciare interviste anche dopo il celebre articolo di che dipingeva in modo crudele e brutale il suo rapporto con Courtney Love. Era ormai sospettoso, arrabbiato, sulla difensiva, eppure continuava a credere di potercela fare, di poter riprendere il controllo. Se ne lamentava apertamente. Come mai non ha deciso di sottrarsi a tutto questo, ritirarsi a vita privata? Probabilmente, a un certo livello, voleva disperatamente essere compreso. Probabilmente credeva che fosse possibile essere compreso. Non era capace di essere ambiguo o indifferente, a prescindere da quanto dichiarava.

Negava di avere ambizioni, ma poi lo ammetteva. Voleva fare dischi e avere un pubblico. Solo che voleva farlo alle sue condizioni, come i suoi eroi del punk. All’inizio le sue condizioni erano restare con un’etichetta indipendente e non passare alle major. Ma alla lunga questo si rivelò insostenibile. I Nirvana non erano ragazzini borghesi e privilegiati che suonavano nel garage di una villetta. Quello che guadagnavano con la Sub Pop non bastava neanche lontanamente a vivere. E la distribuzione (oggi un concetto vintage) faceva schifo. I Nirvana pensarono allora di poter rimanere fedeli alla propria visione anche avvalendosi dei vantaggi di una major. Per i Sonic Youth aveva funzionato, anche loro avevano firmato con la Geffen Records e avevano avuto successo, abbastanza da guadagnarsi da vivere ma non così tanto da perdere la credibilità indie. I Nirvana però vendettero immediatamente milioni di copie, diventarono all’istante superstar mondiali, e questo era difficile da conciliare con una credibilità punk. I Nirvana si lamentavano di MTV, ma volevano sfruttare MTV tanto quanto MTV voleva sfruttare loro. Si lamentavano di dover suonare nei grandi stadi (l’arena rock, che schifo) e dell’assenza di connessione col pubblico, di intimità. Ma ormai il pubblico era troppo grande. E da chi era composto in effetti quel pubblico? Dagli stessi ragazzini che li bullizzavano a scuola. Rispetto a questo nuovo pubblico Cobain fa...



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