Cognetti | A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull'arte di scrivere racconti | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 112 Seiten

Cognetti A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull'arte di scrivere racconti


1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7521-639-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

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ISBN: 978-88-7521-639-9
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«A un certo punto del mio apprendistato mi misi in testa che, se volevo diventare un bravo scrittore di racconti, dovevo imparare a pescare». Un'educazione letteraria e sentimentale. Paolo Cognetti, probabilmente il più apprezzato scrittore italiano di racconti della sua generazione, si confronta con i grandi maestri di questo genere. Come si fa a scrivere un grande racconto? Cosa c'è dietro il lavoro quotidiano sulla pagina? Qual è il prezzo da pagare per riuscire a racchiudere il mondo in venti cartelle? Da Raymond Carver a Ernest Hemingway, da J.D. Salinger a Alice Munro, da John Cheever a Flannery O'Connor, Cognetti ci prende per mano trascinandoci nelle vite interiori e nelle botteghe di questi autori. A un certo punto ci sembrerà di sentire di cosa è fatto il lungo e duro tirocinio che può portare a capolavori come I quarantanove racconti di Hemingway o Nemico, amico, amante... della Munro. Non solo la tecnica, ma la disposizione d'animo, l'ostinazione, la vita. Un libro sull'arte di raccontare storie che solo un grande narratore poteva regalarci.

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Scrittori pescatori


A un certo punto del mio apprendistato mi misi in testa che, se volevo diventare un bravo scrittore di racconti, dovevo imparare a pescare. Non solo perché tutti i miei scrittori preferiti erano pescatori, né per la misteriosa attrazione della letteratura americana verso balene, pescispada, trote e salmoni, ma perché in quel periodo immaginavo la scrittura come una specie di monachesimo, e ogni monaco che si rispetti ha una pratica di meditazione, dunque la pesca sarebbe stata il mio yoga, la mia danza vorticosa, il mio tiro con l’arco, la mia preghiera.

Il valore metaforico era fuori discussione. Che cosa si fa, mi dicevo, quando si va a pescare? Si sta da soli in riva all’acqua, che è la vita, cercando di catturare i pesci che ci nuotano dentro, che sono le storie. Da fuori l’acqua nasconde i suoi segreti, ma un bravo pescatore è in grado di capire la profondità dal poco che si vede in superficie, di pazientare mentre tutto sembra immobile e di tenersi pronto. E di combattere, quando è il momento. Chi è Achab se non lo stesso Melville a caccia del suo impossibile romanzo-mondo? E di che parla, l’inizio del , se non di un Hemingway inaridito davanti alla pagina bianca? «Era un vecchio che pescava da solo nella corrente del Golfo, ed erano ottantaquattro giorni che non prendeva un pesce». È un gioco rischioso e bisogna saperlo quando si salpa per il mare aperto: Achab arriva a morirne, inabissandosi in groppa alla sua balena, mentre a Santiago tocca il destino più beffardo di tirar su un gigantesco marlin solo per vederlo sbranato dagli squali.

Ma i grossi pesci sono cose da romanzieri, pensavo. Io all’epoca leggevo soltanto storie di poche pagine. Se la narrativa fosse davvero una religione, noi lettori di racconti saremmo i seguaci di una setta: pochi, perseguitati, costretti alla segretezza. La nostra terra promessa è al di là dell’oceano, i nostri patriarchi si chiamano Hawthorne e Poe. Abbiamo un’intera tradizione parallela a quella ufficiale, una letteratura americana del Novecento che comincia da Sherwood Anderson, Ernest Hemingway, Flannery O’Connor, passa per Malamud, Salinger, Cheever, Grace Paley, Carver, Dubus, e finisce con George Saunders, Charles D’Ambrosio, Peter Orner, la grande Alice Munro. Gente famosa e perfetti sconosciuti. Scrittori di racconti (anche quando per sbaglio hanno scritto un romanzo o due). Io conoscevo a memoria l’incipit dei miei preferiti: «In autunno c’era ancora la guerra, però noi non ci andavamo più»; oppure: «Di mattina lei mi versa il whisky sulla pancia e se lo lecca tutto, di pomeriggio cerca di buttarsi dalla finestra»; oppure ancora: «Mio marito mi regalò una scopa per Natale. Non era giusto. Nessuno può convincermi che fosse un pensiero gentile». Erano sempre guerre o matrimoni, uomini che inseguivano donne che inseguivano chissà che. Storie in cui venivo catapultato nel giro di una riga o due. Mi affascinava il loro rigore, l’economia assoluta di parole e immagini, la complessità che potevano nascondere, il grande dentro al piccolo. No no, niente correnti del Golfo per me, io sarei stato un pescatore d’acqua dolce. Non la scia della ma le orme di Nick Adams nel bosco mi avrebbero indicato la strada: alla mole dei cetacei preferivo di gran lunga il guizzo delle trote, all’orizzonte piatto dell’oceano la spuma dei torrenti.

Una ragazza che mi voleva bene, e che credeva nell’importanza di assecondare i sogni altrui, mi regalò una bellissima canna da pesca. Decidemmo di chiamarla Sofia, perché era il personaggio di cui avevo cominciato a scrivere e perché aveva un bel suono per un attrezzo che dev’essere amico del vento. Ho dimenticato un dettaglio non da poco: tra tutti i modi in cui si può tirar fuori un pesce dall’acqua io mi ero scelto il più letterario e difficile da imparare, quella nobile disciplina chiamata pesca a mosca. Chi la vede praticare lungo un fiume non può che rimanerne incantato. Si tratta di far volteggiare nell’aria l’imitazione di un insetto, costruita con piume d’uccello e fili di seta e legata al termine di una lenza detta coda di topo, anch’essa quasi priva di peso. Bisogna muovere la canna come un pendolo, avanti e indietro sopra la testa, allungando via via la coda fino a raggiungere l’estensione desiderata, e solo allora si lascia planare la mosca sull’acqua nel modo più delicato, e nel punto più vicino a quello in cui pensiamo si nasconda la trota. Aggiungeteci il vento, la vegetazione che cresce sulle sponde di un fiume, i tronchi d’albero incastrati tra i massi e la tendenza di un filo di nylon ad aggrovigliarsi ovunque, e capirete che la lotta con il pesce è proprio l’ultimo dei problemi, un po’ come l’arte dei finali per lo scrittore di racconti. Se si arriva ad affrontarlo si è già dei lanciatori esperti. Io che ero un novizio cominciai, secondo i dettami di un manuale, esercitandomi in mezzo a un prato, dove non avevo ostacoli e potevo fare tutti gli sbagli che volevo. Sceglievo un masso a una decina di metri di distanza e cercavo di capire come farci atterrare la mia mosca sopra. Era solo un batuffolo di cotone, per il momento, ma più che la mira mi sforzavo di trovare il gesto: «È un’arte da eseguire in quattro tempi tra le dieci e le due», avevo trascritto sul mio taccuino, dove il braccio è la lancetta delle ore e la posizione verticale indica il mezzogiorno. Indietro sono le dieci, avanti sono le due; e i quattro tempi dettano il ritmo del pendolo: avanti, aspetta, indietro, aspetta, e poi daccapo, cercando di riconquistare «la potenza e la bellezza perdute».

Quelle frasi venivano da un manuale di altro tipo. Che fosse il libro giusto si capiva fin dalla prima riga: «Nella mia famiglia non esisteva una chiara linea di demarcazione tra religione e pesca a mosca». Norman Maclean era indubbiamente uno scrittore monastico. Un coetaneo di Hemingway, nato e cresciuto nel Montana occidentale, figlio di un predicatore convinto che «tutte le cose buone, dalle trote alla salvezza eterna, derivassero dalla grazia, e la grazia dall’arte, e l’arte non è una cosa facile da imparare». Norman doveva averne ereditato l’austerità, se in tutta la vita scrisse appena due libri – uno sugli incendi e l’altro sulla pesca a mosca. Ma non era solo un libro sulla pesca. Ai miei occhi era un testo iniziatico che richiedeva di essere decodificato, e fingendo di parlare di trote elargiva alcuni insegnamenti chiave sulla scrittura di racconti. A un certo punto lo dichiarava apertamente: «Il pescatore ha una frase per descrivere quello che fa quando studia la forma di un fiume. Dice di , e forse per raccontare una storia bisogna fare più o meno la stessa cosa». E poi spiegava come si fa, quando si hanno buoni occhi e l’acqua è disponibile a esser letta: «Basta vedere una cosa evidente che ti spinge a notare una cosa che non avevi notato, che a sua volta ti permette di vedere una cosa che non è nemmeno visibile». Vedere l’invisibile attraverso il poco che si vede: non è la stessa ambizione di ogni scrittore onesto? Ma in ogni caso: «Non esiste pesca a mosca se non si cercano risposte alle domande».

A me pareva di non fare altro. Ero in montagna, dove abito per qualche mese all’anno, e di mattina mi rompevo la testa cercando di scrivere di Sofia, di pomeriggio portavo l’altra Sofia nel prato per imparare i rudimenti del lancio. Nessuna delle due voleva saperne di svelarmi i suoi segreti. Guardiani di mucche e falciatori di fieno mi scrutavano dai pascoli mentre facevo sibilare la mia coda di topo nell’aria, dalle dieci alle due e ritorno; al ritorno la coda schioccava come una frusta e non sapevo che era un grave errore. È il problema dell’autodidatta, nella pesca e nella scrittura: non c’è un maestro a spiegarti dove sbagli e può passare molto tempo prima che tu lo scopra da solo. Ecco che già cominciavo a sentenziare come il vecchio Norman. Lui era un meticoloso e fin troppo prudente allievo di suo padre, ma aveva trovato il genio dell’artista nel fratello Paul, uno spaccone con le idee chiare sui rischi della scrittura:

Fratello, non puoi pescar trote nella vasca da bagno. Tu vuoi pescare nell’acqua aperta, luminosa, perché sei uno scozzese e hai paura di perdere la mosca se peschi tra i cespugli. Ma i pesci non prendono il sole. Stanno sotto i cespugli dove sono al riparo dai pescatori come te. Nessuno può dire di aver passato una buona giornata di pesca se non ha lasciato almeno un paio di mosche impigliate nei cespugli. Non li acchiappi, i pesci, se non hai il coraggio di andare dove sono.

Questo avrebbe dovuto consolarmi dai miei fallimenti mattutini: se ogni pagina stracciata è una mosca lasciata nei cespugli, potevo almeno riconoscermi il coraggio di essere andato a pescare nel difficile. Anche se non ero per niente sicuro che lì ci fosse quello che cercavo. Scrivendo vedevo anse, rapide, pozze profonde, e mi chiedevo dove lanciare. Non nell’acqua aperta, spiegava Norman, né in quella limpida, né in quella più bella da vedere:

Era una cascata appena sommersa, in cui l’intero fiume si sollevava in un’onda, si vaporizzava in uno spruzzo, poi ricadeva su se stesso e diventava azzurro. Non appena si riprendeva dal trauma tornava indietro a vedere perché era caduto. Nessun pesce poteva vivere nel punto in cui il fiume esplodeva nelle curve e nei colori che avrebbero attratto un fotografo. I pesci stavano in quella lenta corrente di ritorno, nella schiuma sporca, e quella sporcizia era proprio una delle maggiori attrazioni.

Pagine come questa mi davano parecchio da riflettere....



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