Coltri | Dov'è casa mia | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 169 Seiten

Reihe: Indi

Coltri Dov'è casa mia

Storie oltre i confini
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-3389-074-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Storie oltre i confini

E-Book, Italienisch, 169 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-3389-074-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Khalat, una giovane curda siriana, lascia la città d'origine per frequentare l'università a Damasco; lo scoppio della guerra civile distrugge i suoi sogni ma non la sua volontà di resistere alla violenza e portare in salvo la famiglia. Anneke è una ragazza danese con un obiettivo molto chiaro: porre la sua vita al servizio dei più deboli; una missione in Darfur la costringe a spingersi oltre il limite dell'altruismo e ad affrontare un nuovo difficile inizio. Théogène, orgoglioso preside di una scuola elementare, rifiuta di accettare i pregiudizi e le superstizioni che dividono in due fazioni la gente del campo profughi in cui si trova. Pagherà il prezzo della sua coerenza insieme alla sposa Rosette. Queste sono solo alcune delle storie vere che Davide Coltri ha raccolto nel corso del suo lavoro in ambito umanitario, e che testimoniano un presente non ancora condiviso: vite lontane ma al contempo vicinissime, universali. Dov'è casa mia ci mostra guerre civili e atti di terrorismo ma anche la solidarietà, la resistenza e la speranza di una vita diversa. Con ferocia e delicatezza, Coltri racconta le storie che superano i confini, la casa che si è persa e quella che - ora più che mai - si spera di trovare.

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COS’È IMPORTANTE PER ANNEKE


La porta a vetri si è aperta svelando il logo rosso della Ong e una cinquantina di sedie grigie. C’era posto qua e là tra gli altri candidati, tutti attorno ai venticinque anni, tutti impazienti che la porta si richiudesse e tenesse fuori il vento e la pioggia dell’autunno londinese. Ho lasciato cadere l’ombrello sfondato su una montagnola colorata di suoi compagni. Una ragazza coi capelli lunghi e castani mi ha fatto un mezzo sorriso e mi sono seduto vicino a lei.

«Anneke», ha detto stringendomi la mano.

«Per quale posizione?», ci siamo chiesti all’unisono.

Era la stessa. Abbiamo fatto un’espressione imbarazzata e siamo rimasti in silenzio, io intento a torturarmi le unghie, lei a sottolineare una dispensa. Attorno a noi si svolgeva un confabulare agitato, in un inglese dagli accenti diversi: ho riconosciuto voci australiane, spagnole, indiane e, da qualche parte dietro di me, pure quella di un altro italiano. Mi sono imposto di dare tregua alle unghie, ho letto sul cellulare per l’ennesima volta la descrizione della Ong, come mi aveva consigliato di fare il mentor all’università.

Dopo un po’ un tizio con una cartelletta in mano ci ha invitato a scendere tutti al piano di sotto, uno stanzone immenso attraversato da divisori in compensato.

«Vi raggrupperemo in coppie di candidati che competono per la stessa posizione. Dei valutatori registreranno le vostre reazioni agli scenari», ha annunciato, e poi non ha risposto alle nostre domande di chiarimento.

Durante le otto ore successive siamo stati sottoposti a cinque simulazioni: un attacco terroristico, un tentativo di rapimento, la stesura di un progetto di assistenza alimentare, il montaggio di una tenda senza istruzioni e senza parlare tra noi, il lancio di un appello a parti belligeranti. Per ogni frase che dicevamo, per ogni gesto e reazione, un valutatore in casacca gialla prendeva appunti.

Anneke e io siamo stati alleati e antagonisti insieme, spinti a dimostrare che uno era migliore dell’altro e allo stesso tempo sollecitati a formare una coppia efficiente e collaborativa. In risposta al mio attacco di panico davanti all’ammasso di teli e paletti che avremmo dovuto trasformare in tenda, Anneke ha disegnato su un foglio i vari elementi, quindi li abbiamo numerati in sequenza tramite un accordo fatto di cancellature e punti di domanda. Allo scadere del tempo la tenda era pronta, perfetta. Più tardi ho negoziato con quattro terroristi armati di improbabili kalashnikov il rilascio di Anneke, mettendo sul piatto argomentazioni filosofiche piuttosto scadenti, faccia tosta e un biscotto che mi ritrovavo in tasca: non sono riuscito a salvarla ma almeno lei rideva mentre la strattonavano fuori dalla stanza. Durante una pausa ci siamo scambiati i numeri di telefono. Quando sono tornato a casa, la sera, ho pensato che ci eravamo persino divertiti, nonostante le circostanze sfavorevoli.

Nei giorni successivi, agli amici che mi chiedevano come fosse andata rispondevo: «Bene, ma c’era questa ragazza danese...»

Ci sentivamo quotidianamente, per informarci se l’una o l’altro avesse ricevuto la buona notizia. Una settimana dopo la selezione, quando una mail mi ha comunicato l’esito, ho pensato che doveva esserci un errore. Ho scritto un messaggio per Anneke, poi l’ho cancellato, infine l’ho chiamata.

«Complimenti, te lo meritavi davvero», ha detto.

«Lo meritavi anche tu, più di me», ho risposto. «Non mollare».

Il mese seguente ero in Iraq: l’aereo atterrava su una pista arsa dal sole e un autista gentile che non parlava inglese mi accompagnava in una guesthouse semideserta e subito dopo al campo profughi. Lì avrei trascorso buona parte dell’anno successivo.

Poco tempo dopo, uscendo dall’ancora più assolato aeroporto di Al-Fashir, nel Darfur Settentrionale, Anneke è investita da una raffica improvvisa di vento e sabbia. Mentre tenta di ripararsi dietro un pilastro di cemento, il foulard di seta che tiene in testa le vola via e sparisce tra i vortici di polvere, al di là del recinto del parcheggio.

Aspetta quasi mezz’ora, poi un furgone con il simbolo della sua organizzazione entra nello spiazzo e si ferma davanti a lei. Al volante c’è un uomo sulla quarantina, muscoloso, con un berretto nero in testa. Ha un’espressione seria, tesa. Le mostra il badge, come prescritto dal protocollo di sicurezza. Anneke trova strano che venga a prenderla proprio il capomissione.

«L’autista stava pranzando».

«Molto gentile da parte sua».

«Chiamami Zain».

«Stiamo andando in ufficio?»

«No, sarai stanca per il viaggio. Inizi domani».

«Grazie. E quanti siamo nella guesthouse?»

«La guesthouse dello staff è al completo. Ma nel compound dove vivo io c’è una casetta vuota: starai lì».

«Non sapevo ci fosse un compound».

«È nuovo», dice Zain, sterzando a sinistra.

Si ferma davanti a un cancello chiuso. Una guardia slaccia la catena, la macchina entra nel cortile. Una gettata di cemento s’infila tra le mura di tre casette basse. Camminando nello spazio angusto tra le pareti, Anneke ha l’impressione di inoltrarsi in un labirinto.

«Di qui», le indica Zain, aprendo una porta di ferro.

La stanza non ha altro arredamento che un lettino, due sedie e un armadio. In un angolo c’è la porticina del bagno.

«Le linee internazionali non funzionano, ma domani ti diamo un telefono locale. Nel frattempo se hai bisogno di qualcosa vieni da me: seconda casetta a sinistra, subito dopo il gabbiotto della guardia», e per la prima volta sorride. Gli manca un incisivo.

«Vorrei riposare un po’», dice Anneke.

Anneke sente Zain che si allontana, poi si spoglia e s’infila sotto un lenzuolo infeltrito. Da fuori arriva il brusio ostinato di una radio e ogni tanto la risata sguaiata della guardia. Una luce strana, tra il giallo e il viola, filtra nella stanza attraverso le imposte scassate dell’unica finestra. Chiude gli occhi e si addormenta subito.

Quando si sveglia è quasi buio. Zain è lì, seduto in fondo al letto, e le accarezza le gambe.

Ho visto subito la notifica del messaggio di Anneke, era notte fonda e mi ostinavo a lavorare anche se il cervello mi aveva abbandonato già da un po’.

Senza nemmeno un saluto, mi scriveva: .

Non sapevo come rispondere, ho preso tempo con una faccina triste, poi: .

Ho atteso invano una risposta, un commento. Sono andato avanti: .

, ha scritto lei.

Messaggio non letto.

Zain le toglie la mano dalla bocca. Anneke sente il sapore del suo sudore sulla punta della lingua. Il battito del cuore le esplode nelle tempie, ma il resto del corpo è completamente irrigidito. La voce con cui grida aiuto le suona irriconoscibile e inadeguata.

Il capomissione sbuffa, poi le accarezza una guancia. «È inutile che urli: la guardia fa quello che dico io».

Anneke chiude gli occhi, aspetta che le dita di lui scendano lungo il collo. Invece la mano si solleva di colpo, con lo stesso scatto nervoso con cui poco prima rinunciava a risalire oltre il ginocchio. Il movimento è tanto repentino che le viene da chiedersi se la sua pelle, bagnata di sudore freddo, abbia emesso una scarica elettrica. Riapre gli occhi, non ha fiato per parlare.

Zain è in piedi, si è tolto il berretto: la testa pelata ha una forma sgraziata, a punta. Gli occhi sono sbarrati, grosse gocce gli colano dalla fronte.

«Non è successo niente», le dice, senza cambiare espressione.

Anneke fa cenno di sì con la testa.

L’uomo espira rumorosamente, esce sbattendo la porta poi dice qualcosa di incomprensibile alla guardia.

Anneke si alza, va in bagno a lavarsi la faccia, vomita. Torna a letto, rimane sveglia tutta la notte.

Il mattino seguente Zain le apre la portiera della macchina senza guardarla in faccia, guida in silenzio fino all’ufficio, raduna i colleghi e le colleghe e la presenta a tutti. Una donna sulla trentina le rivolge un sorriso strano.

Le danno un telefono. Si chiude in bagno, digita un numero, preme il tasto verde con la cornetta.

Ma una voce sottile le insinua che in fondo è stata anche colpa sua, perché ha accettato di dormire nel compound. Un’altra voce, dura e implacabile, le intima di guardare avanti, le ricorda le notti insonni sui libri del master, la frustrazione dei mesi in cui non trovava lavoro, e la volontà di mettere gli altri davanti a sé. Quando una terza voce interviene dicendo che quanto ha subito ha il nome preciso di molestia sessuale, le altre due le urlano che è lì per assistere donne e bambine che sono state stuprate dai soldati governativi nel villaggio di Tabit. Lei, invece, non è stata toccata. In fondo non è successo niente, come ha detto Zain.

Anneke mette giù alla fine del secondo squillo.

...



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