E-Book, Italienisch, 434 Seiten
Crouch Fulmini a Kansas City. L'ascesa di Charlie Parker
1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7521-658-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 434 Seiten
ISBN: 978-88-7521-658-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Lungamente annunciato negli Stati Uniti e attesissimo dagli appassionati di jazz, Fulmini a Kansas City è il primo capitolo della biografia che lo studioso e narratore afroamericano Stanley Crouch ha dedicato a Charlie Parker, il più grande sassofonista di tutti i tempi. Frutto di studi pluriennali, di ricerche e interviste sul campo, e animato da una prosa brillante e immaginifica, il libro ricostruisce la vita leggendaria di «Bird» negli anni che vanno dalla nascita nel 1920 fino al 1940: l'infanzia nella Kansas City dominata dalla malavita di Tom Pendergast e dallo swing delle territory bands; il rapporto con una madre iperprotettiva e allo stesso tempo troppo permissiva; il matrimonio a soli sedici anni e una paternità troppo precoce; la fascinazione per la musica, il cinema, la tecnologia, l'avventura; l'incontro drammatico con la droga; il trasferimento, infine, a New York, capitale del jazz moderno, con cui si sarebbe aperta la seconda, più matura fase della vita di Parker. A metà fra il saggio e il racconto, fra l'affresco di un'epoca e il romanzo di formazione, Fulmini a Kansas City è un vividissimo quanto inedito «ritratto dell'artista da giovane».
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1.
Era una domenica mattina, la temperatura insolitamente mite per dicembre. Un gruppo di musicisti sedeva sul bordo del marciapiede di fronte a una pensione di Des Moines, in Iowa.
Des Moines era una tappa di quello che all’epoca era noto come il Circuito Balaban e Katz. Negli anni Trenta, inserirsi nei vari circuiti spettacolistici era per un musicista la maniera di vedere tante città, tanti panorami diversi. Il Circuito Balaban e Katz, per esempio, partiva da Kansas City e saliva fino a Lincoln, in Nebraska; poi a Omaha; di lì a Des Moines, quindi a nord verso Minneapolis e St. Paul; poi scendeva di nuovo a sud passando per Madison, in Wisconsin, e per Milwaukee, per arrivare a Chicago, quindi a Springfield, nell’Illinois, a St. Louis, e, dopo un passaggio a Jefferson City in Missouri, di nuovo a Kansas City. In quel girovagare se ne sentivano di musiche e anche di parlate; e insieme a quelle, si incontravano tante donne. Il rischio c’era, sempre, ma era l’avventura che valeva bene tutti quei chilometri e quella fatica. Una volta sceso da quei vagoni, ti stiracchiavi, se c’era tempo ti tiravi un po’ a lucido, poi, con comodo, raggiungevi la sala da ballo, montavi lo strumento, sistemavi la sedia pieghevole di legno, tiravi fuori gli spartiti, ti accordavi, ti rilassavi; arrivata l’ora, il jazz si scatenava da te come un lampo, un puledro scarmigliato. E a quel punto ti sentivi vivo; era allora che dal tuo strumento sgorgavano fascino, grazia, audacia; era allora che la tua mente riluceva come oro del Klondike.
Per uomini come quelli, come per tanti altri, Kansas City era la Mecca. Era stata per anni una vera città aperta, grazie alla predominanza dei gangster locali e al regime corrotto istituito dal boss politico Tom Pendergast; e proprio in quegli anni era diventata terreno propizio alla creatività febbrile che si manifestava sulle pedane delle orchestre. Nel 1941, però, Pendergast si era ormai visto confezionare un bel completo a strisce e la vibrante aura notturna di Kansas City era in declino. La musica ormai aveva cominciato ad andarsene dalla città, prendendo a ovest, a nord e a est insieme con i musicisti, i quali, a Kansas City, non avevano mai conosciuto né la Depressione né la disoccupazione. Dalla fine degli anni Venti e per tutti i Trenta avevano potuto suonare, sfidarsi, fare baldoria a tutte le ore del giorno e della notte. In quella città-miracolo del jazz, i vari stili e lo swing venivano minati e scavati come vene aurifere o pozzi petroliferi e, se non tutte le notti, di certo con costanza sufficiente a permettere che lì il ritmo venisse sottoposto a un trattamento diverso, meno uniforme, a uno swing che aveva un carattere tutto sud-occidentale. Con il suo battito pulsante riusciva a cantare, oltre agli inviti, ai richiami, alle grida e ai lamenti della carne, anche l’anima.
Quel giorno, questi musicisti – quelli seduti sul marciapiede davanti alla pensione di Des Moines – non stavano nella pelle all’idea di andare a New York, dove si faceva sul serio. In quel momento, tuttavia, stavano solo divertendosi a punzecchiare Bob Dorsey, sassofonista tenore, ricordandogli fin nel più cocente dettaglio della volta in cui avevano ridotto in mutande l’orchestra di Nat Towles, di cui lui aveva fatto parte. In mutande, proprio, a Omaha a Lincoln.
Sì, Dorsey si ricordava l’umiliazione bruciante sotto cui quei musicisti di Kansas City li avevano seppelliti. Già da sola, la sezione ritmica – quello zuccone di Jay «Hootie» McShann al piano, quel rottinculo di Lucky Enois alla chitarra, al contrabbasso quell’energumeno di Eugene Ramey e alla batteria Gus Johnson, un vero metronomo – era una macchina da guerra. E poi quelle frasette escogitate lì su due piedi e ripetute (, le chiamavano), insidiose come il sinistro di un pugile, e gli uno-due di quel demonio al sax contralto: insomma, erano finiti al tappeto, buoni per il conteggio.
Il sax contralto, quella sera, lo aveva suonato Charlie Parker, ventun anni, che adesso stava seduto lì fuori con gli altri. Neanche sessanta chili, magro come un lampione, aveva un bel viso aperto che scintillava alla luce del mattino, mentre rideva di gusto a quegli sfottò. Gli sedeva accanto Ramey, compagno inseparabile (Parker gli si rivolgeva con il suo secondo nome, Glasco), uno tanto nero che con un pugno assestato al cielo avrebbe spedito a dormire il sole. Ai loro piedi correva il canaletto di scolo, come una trincea o una fossa. La mattinata mite, stranamente calda, non richiedeva niente più di una giacchetta o di un maglione pesante, certo non una coperta o una trapunta. Il tempo scorreva così lento che era impossibile notare i secondi, i minuti e le ore che trascinava con sé.
Da dentro, qualcuno corse alla porta della pensione e la spalancò. Giunse la voce di una radio.
Il tizio urlò qualcosa a proposito di Pearl Harbor. : Gene Ramey ha ricordato che qualcuno fece questa battuta.
Quello sulla porta ribatté che non c’era tanto da scherzare, si preparavano cose terribili.
Non che ce ne fosse certezza, ma con l’aria che tirava da qualche anno, fra passi dell’oca e razze superiori, nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla pace mondiale.
, rispose Ramey.
Il messaggero di sventura non lo trovò buffo. E neanche la maggior parte di quelli con cui parlarono, dopo che Roosevelt ebbe chiesto al Congresso di dichiarare la guerra, il giorno dopo. Nei giorni successivi, i musicisti sentirono incessanti variazioni sullo stesso tema:
.
Se il resto del paese cominciava solo allora a prepararsi a una guerra, quei musicisti, conosciuti come la Jay McShann Orchestra, in guerra si sentivano da quando avevano cominciato a lavorare. Erano jazzisti: come a dire, in guerra con un sacco di orchestre concorrenti per accattivarsi i ballerini, e in guerra con tutti i musicisti, a uno a uno o organizzati, per conquistarsi un posto nel mondo della musica, fosse di prima o seconda tromba o sax, fosse una fama locale o un riconoscimento nazionale. Volevi riuscire? E allora dovevi scollarti dalla sedia e fare in modo di farti notare. Serviva qualcosa che fosse solo tuo, che nessun altro sapesse fare. Certo, se eri giovane e sapevi imitare un musicista famoso ti potevi anche meritare una pacca sulla spalla, ma quello era appena l’inizio. Perché poi c’era da lavorarci sopra, da pensarci, pensarci e ripensarci finché non arrivavi a cavare dallo strumento un suono che fosse riconoscibile come quello della tua voce. Le persone fuori dal comune sono quelle uniche anche solo nel modo in cui camminano, in cui si muovono in un ambiente, nei passi che inventano quando ballano; allo stesso modo, un musicista fuori dal comune deve faticare finché non abbia un fraseggio , un ritmo . Come un cuoco capace di far sembrare nuova una ricetta sperimentata, il musicista deve sapere come miscelare la sua pastella, come equilibrare le spezie, e quanto un’idea deve cuocere in padella prima di rivoltarla. Sono queste le cose che formano uno stile, ed è dallo stile che arriva ogni riconoscimento. E la differenza fra un artigiano e un artista è tutta qui.
Quel mattino di dicembre, gli uomini dell’orchestra di Jay McShann erano su di giri perché avevano ottenuto una scrittura, dal 13 di febbraio, alla Savoy Ballroom di Harlem, forse la sala da ballo più famosa della nazione. Era il posto dove ci si batteva per il titolo dei pesi massimi delle orchestre, dove si vinceva o si perdeva tutto. A rigor di termini, al Savoy giudici non ce n’erano; facevano le loro veci i ballerini, che venivano per passare la notte in una baldoria di piroette, salti, spintoni, giravolte, contorcimenti, in un turbinio di piedi lanciati in aria con l’effetto e a tempo, in combinazioni di passi in contrappunto con gli scarti e le scivolate dei partner, quando ogni coppia pareva ridursi a due torsi resi elastici dallo swing dell’orchestra con il beat più potente.
A raffreddare alquanto l’entusiasmo degli uomini di McShann fu la cartolina che ricevettero a Topeka, in Kansas, il 31 dicembre 1941.
Che lasciassero perdere i giapponesi: che era un autentico atto d’infamia.
A quella scrittura, però, mancavano ancora più di cinque settimane, abbastanza perché i musicisti di McShann potessero discutere di quello che Lucky Millinder la sua orchestra avrebbe fatto loro al Savoy, e di come loro gli sarebbero saltati alla giugulare. Lo sapeva, con chi stava parlando? Aveva anche solo una vaga idea del fatto che loro erano un prodotto di Kansas City, Missouri, la capitale dello swing? Non si contavano nemmeno più i musicisti che da New York erano arrivati tutti spavaldi in città e che avevano ricevuto la loro lezione di buone maniere restando impantanati nelle sabbie mobili di una jam session al Subway, locale che aveva già visto rotolare molte altre teste della costa atlantica.




