E-Book, Italienisch, 256 Seiten
Reihe: Incendi
Favetto Attraverso persone e cose
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-6783-296-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Il racconto della poesia
E-Book, Italienisch, 256 Seiten
Reihe: Incendi
ISBN: 978-88-6783-296-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
La poesia, una mappa di storie, un racconto di geografie. Attraverso lingue, paesaggi e persone Gian Luca Favetto mette insieme vita e scrittura, guidandoci in un percorso in cui la poesia e la letteratura danno forma e direzione al vivere. Dai libri trovati in casa, a quelli inseguiti, alle storie sognate, ogni incontro diventa un bagaglio necessario per la comprensione di come stare di fronte al mondo. Ci sono Omero e i lirici greci, Pavese, Montale, Hemingway, la Yourcenar e Karen Blixen, insieme a Whitman, Byron, Shelley e Keats, e poi Rilke e Pollock, Chagall e Villon, L'attimo fuggente e 2001 Odissea nello spazio, Bolaño, Vignot e Wlliam Shakespeare. Alla domanda 'che cosa ci insegna e ci lascia la poesia?', Favetto risponde con la sua esperienza di lettore e di scrittore attento ai luoghi e agli uomini che li abitano, dalla Val di Chy alla baia di Halong, dal Mont Ventoux al Golfo di La Spezia, il Roero e il cimitero romano degli inglesi, Parigi, il Sudamerica e New York. Tiene tutto e tutto raccoglie e accudisce, la poesia. Con la sua forza e la sua grazia cuce insieme singole esistenze e popoli interi, folgoranti imprese e ordinaria quotidianità, legami profondi e prime scoperte. Lo fa con versi, suoni e parole che servono per andare. Per ripartire ogni volta e cercare la propria meta. O la propria metà.
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1 | Che cos’è la poesia
Giardini immaginari con veri rospi dentro. È la definizione più folgorante di poesia che abbia incontrato. È anche l’unica che ricordi e che posso offrire, se costretto ad armarmi di parole per rispondere alla domanda . Altrimenti, se non si pretendono parole, faccio un sorriso.
Una definizione? chiedi. Io sollevo leggermente le braccia davanti a me, le tengo alla distanza in cui si tengono naturalmente, il palmo delle mani girato verso l’alto, e sorrido. Un po’ è imbarazzo, un po’ insicurezza, un po’ prendo tempo e spero che passi la voglia di conoscere il mio parere, un po’ penso veramente che la poesia sia questo, un sorriso, un mezzo sorriso. Muovo il capo – un soffio di movimento: se non sei attento, non te ne accorgi.
In genere, insistono: che cos’è per te la poesia? Allora smetto di sorridere e cito i giardini immaginari con veri rospi dentro.
È una definizione di Marianne Moore, l’ha incastonata in una poesia, lei che era poetessa, amica di Ezra Pound e Joseph Cornell.
Ezra Pound. È l’immanenza della poesia. Scrive: «Quello che veramente ami rimane, / il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato. / Quello che veramente ami è la tua vera eredità». Ossessivo biografo di sé e del mondo, enciclopedista visionario dei che tutto raccolgono, passato, presente, futuro, il Mediterraneo e l’Altro Mondo, la e l’, il West e Confucio, il mito come nostalgia e il fuoco della curiosità che rinnova ogni orizzonte, è uno sperimentatore irriducibile, è stato Dante per un po’ e anche un certo François Villon, ladro poeta, come ha scritto, lui che da poeta ha elaborato persino rivoluzionarie teorie economiche – morto a 87 anni nel novembre del 1972.
Joseph Cornell. È un collezionista di nostalgie, riservato e solitario. Ricompone mondi in piccole scatole, assembla oggetti e vite perdute recuperandole in forma di frammenti. Riconosciuto come artista geniale, è il poeta del caso e della città – e la città è New York – che adopera il caso e New York per costruire le sue teche di legno, le sue scatole di ombre con dentro tappi, libri, conchiglie, fotografie, bambole, animali, collage, così rivela sé stesso e le proprie ossessioni, mettendo fuori gioco la timidezza – morto a 69 anni nel dicembre del 1972.
Due poeti della memoria vorace e dispersa, anche dispersiva. Due raccoglitori di tempo – questo fa un poeta: raccoglie tempo e lo plasma in forme diverse, con parole suoni spazi silenzi che lo misurano, lo scompongono e ricompongono, e lo restituiscono come mondo, architettura, abitazione.
Per raccogliere il tempo, a volte, bisogna falciarlo o strapparlo al suo orto, non basta chiedere che ti segua, che venga a te e si offra come cibo. Le labbra del tempo sono potenti, ti risucchiano e ti masticano.
Raccogliere tempo è un mestiere pericoloso, è abbandonarsi al proprio limite mortale – morire, dormire, forse sognare –, accettarsi corpo al di là del pensiero e, per quest’unica via, accedere all’eternità. Il corpo agisce, si dice e si consuma.
La mortalità è l’unico passaporto per l’eternità, dice Marianne Moore in una poesia, . Comincia così: «Che cos’è la nostra innocenza, / che cosa la nostra colpa? Tutti sono / nudi, nessuno in salvo. E da dove / viene il coraggio: la domanda senza risposta, / il risoluto dubbio – / chiama senza voce, ascolta senza udire – / che nella sventura, perfino nella morte, / incoraggia gli altri / pure nella sua sconfitta, sprona / l’anima a essere forte?». È questione di consapevolezza – di sé. Si raggiunge a poco a poco, mai del tutto. La morte, unica, è del tutto – non il morire, il dormire, forse il sognare…
A lungo Ezra Pound e Joseph Cornell sono rimasti in corrispondenza con Marianne Moore, la poetessa dell’osservazione minuta. Secondo Thomas Stearns Eliot, compagno di versi di Pound – entrambi, scampati all’America, hanno messo radici in Europa –, è una dei pochi poeti della sua generazione ad aver reso qualche servigio alla lingua: «Devo dire che Marianne Moore ha tenuto conto delle lezioni di Ezra Pound: la poesia deve essere scritta con la stessa eleganza della prosa. Si direbbe che la Moore abbia immerso il suo spirito nelle perfezioni della prosa; nella precisione della prosa, piuttosto che nel suo splendore; e che abbia trovato, per vie autonome, il suo ritmo, la sua poesia, il suo modo di pesare e apprezzare la parola singola».
Thomas Stearns Eliot. È un monumento, un museo della poesia, segnato come e più degli altri coetanei dalle guerre mondiali del Novecento. Sono andato con scarsa frequenza a visitarlo, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa… Ho provato con , solo provato, poi con i , che ho anche ascoltato in una , e a teatro ho visto , il suo dramma ispirato all’omicidio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, dicembre 1170, ma non ci siamo incontrati, non abbiamo condiviso lo stesso tempo, per questo dopo anni mi sono perdonato, e anche lui – che chiedeva alla lingua di suonare al di là della logica e del razionale – mi ha perdonato, credo. Credo anche che gli sarà data ragione, quando il suo ultimo verso si compirà: «Così il mondo finisce / non con uno schianto ma con un lamento». Ce ne accorgeremo tutti, anche se saremo già morti. Nella mortalità è l’eterno. Eliot muore nel gennaio del 1965, a 76 anni.
Marianne Moore è una di coloro che lo hanno compreso, sia Eliot, sia il fatto che nella mortalità è l’eterno. Lo vive e lo trasmette ai lettori. Oltre ad averlo scritto in , lo suggerisce in un’altra poesia intitolata, appunto, – arriviamo finalmente ai giardini e ai rospi, arriviamo alla definizione.
«Non piace neanche a me» – questo il primo verso, che discende dal titolo – «ci sono cose più importanti di tutti quei trastulli. / Eppure leggendola, in qualche modo, pur con tutto il disprezzo possibile, / uno scopre che in essa comunque c’è posto per qualcosa di autentico.» Si dilunga, poi con uno scatto poco prima della fine arriva la denuncia: «Il risultato non è poesia» finché i poeti «non offriranno al nostro esame ». Ecco la crudezza e l’illusione, ecco la magia, l’immaginazione che ospitano la materialità e la finitezza delle cose. I giardini devono essere immaginari ma, dentro, i rospi devono essere veri – un po’ come di Bosch. Il contrario sarebbe impostura.
Hieronymus Bosch. Il realista immateriale, il visionario beffardo e cruento che osa il caos per ridisegnare l’ordine del mondo, terra di confine fra l’orrore e la grazia, la meraviglia e la pena. Pittore. Fiammingo e fiammeggiante, nato non si sa bene quando a metà Quattrocento nel Brabante con il nome di Jeroen Anthoniszoon van Aken. Per il resto, di lui si conosce pochissimo, se non le sue opere, e nemmeno con certezza le date – morto nel mese di agosto del 1516. , stratificazione di immagini, versi, figure, colori, materia, spirito e spiriti, elucubrazioni e maschere, è un poemetto in tre canti degno di Moore Cornell Eliot Pound messi insieme. Tutti, tutti loro hanno provato a dire il proprio tempo.
Moore Cornell Eliot e Pound procedono per rapide associazioni di idee. Le associazioni della Moore e di Cornell, in più, sono anche limpide. Lei costruisce poesie con le parole, lui con le teche e i collage: sillabe e frammenti che mettono in relazione immagini.
Marianne Moore muore anche lei nel 1972, a febbraio, a 84 anni. Fra i suoi amici e corrispondenti c’era anche Wystan Hugh Auden – che muore l’anno dopo, nel 1973, a settembre, a 66 anni.
Wystan Hugh Auden. Nato in Inghilterra, vissuto negli Stati Uniti, passato in Italia, morto in Austria. È colui che invoca la verità sull’amore – ma come, una verità? Una sola?
Comincia così la sua poesia: «Qualcuno dice che l’amore è un piccolo ragazzo, / qualcuno dice che è un uccello, / qualcuno dice che fa girare il mondo / e qualcuno dice che è assurdo, / e quando ho chiesto al mio vicino, / che aveva l’aria di sapere, / sua moglie si è davvero indispettita / e ha detto che non era il caso, no». Poi è una pioggia di domande, un’indagine lunga una cinquantina di versi che di tanto in tanto implora: «la verità, vi prego, sull’amore». E con questo verso finisce – tradotto letteralmente «oh, dimmi la verità sull’amore». Dimmela tu, se puoi.
Lo chiedo a Auden, che Brodskij ha definito la più grande mente del Ventesimo secolo: non uno scienziato, non un politico, un poeta.
Iosif Brodskij. L’autore di , nato e cresciuto nelle paludi baltiche, è vissuto sempre lontano, con San Pietroburgo e Venezia nel cuore. Un uomo in...




