E-Book, Italienisch, Band 124, 245 Seiten
Reihe: Nichel
Galletta Malotempo
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-3389-631-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, Band 124, 245 Seiten
Reihe: Nichel
ISBN: 978-88-3389-631-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
è nata a Siracusa e vive a Livorno. Con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Con Nina sull'argine (minimum fax 2021) è stata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Letteratura d'Impresa. Con il testo Pelleossa (minimum fax 2023) è stata finalista al Premio Neri Pozza per opere inedite.
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27 dicembre 1967, mercoledì
La mattina del 27 dicembre 1967, con circa dieci minuti di ritardo sull’orario previsto, Paolo Rasura scende dalla corriera. Arriva da Palermo con un bagaglio leggero, buono per il tempo di partecipare al funerale. Cammina svelto, senza guardarsi intorno. Il vento di tramontana gli taglia la faccia. Attraversa il Corso, supera il bivio della Ferrovia. Si alza il bavero del cappotto, abbassa la testa; maledice l’umido che mangia le ossa. Sale per Colleorbo, fino in cima. È partito di fretta, lasciando tutto a menzo, ma il cambiamento non avverte, non chiede permesso. Mentre stai dappresso ai tuoi pinseri un giorno alzi l’occhi e Filippu sta sotto a un metro di terra. Il tempo del funerale e se ne torna a casa.
Dallo spiazzo di Colleorbo si vede tutta la valle. A levante il Monte Cronio, e sotto il Giardino di Filippu de li Testi. Sulla collina sopra Capo Graziano sventolano le ville dei nuovi padroni. Squadrata come una bara quella di Mario Camarda, sfuggente di forme e di colori quella di Pietro Craparo, il suo socio. Verso il mare le ciminiere del Petrolchimico, il piumaggio di fumo nero come un pavone a lutto. Giù al paese la Chiesa Nova, scema di forme fuori e gelida dintra, infilza il cielo con il suo pinnacolo da piscispada, è frequentata solo per i funerali, che per le cose dei vivi, battesimi, matrimoni, i paesani continuano a preferire la petra bianca della Chiesa della Santa. A ponente la Contrada Malotempo s’inerpica sempre uguale. Costeggia lo scheletro del rio Spina dalle ossa bianche, arriva fino alla casa dei Lucicùli, poi la strada si allarga, supera la Cava d’Istrice fino allo Scorsone. Il fabbricato si snoda lungo la collina, si vede da ogni dove. In menzo, sul colle senza nome, resiste la Casa Verde, solitaria come un fiore spinoso di cactus. Nella luce fredda di dicembre la vite americana che la avvolge mostra le vene, come una ragnatela assonnata. Paolo sa che in capo a un mese le sue scaglie vegetali spunteranno ancora, come spunzoni avvelenati. Distoglie lo sguardo, si concentra sul movimento lento delle automobili dal Corso fino al Dencin, come si chiamano le Terme adesso, uguali fora ma diverse dentro. Sempre meglio di quello che capitò al Teatro e a villa Marcella, demoliti in un cirichincò. Un giorno alzi l’occhi e non riconosci il tuo paese. Santafarra si deforma, come plastica al fuoco brucia, fete.
Allunga il collo oltre i cipressi, ad abbracciare l’arco azzurro del molo del Porto. L’orizzonte di nuvole punta al largo, come a scappare lontano, ma è una finta. Superato Capo Scùttari s’allineano alla costa, come cani alla catena. Tutto quello che entra nel gorgo di Santafarra non riesce ad andare via.
Non trase al Camposanto dal funerale di suo padre Felice, ma ancora non si decide. Detesta ritornare a Santafarra, dove l’avvenimenti gli si mischiano in testa, e i vivi e i morti si confondono. Al di là del cancello intravede suo fratello. S’è un poco inquartato ma è sempre bello, anche se ha più di quarant’anni e nessuna famiglia. Anche Calogero lo vede, e alza il mento come a dire perché non trasi. Accanto lui quel chiangipiano di Nicola Foglia, i capelli rossi come un pospiro. Ecco sua madre Lucia Iodice, con Ciccio frati scimunito. C’è tutta la famiglia Rasura al funerale di Filippu de li Testi, tranne Pascali che pensa solo alla barca. E lui, che ancora non entra, e torna a Santafarra picca e nenti. Filippu de li Testi è morto, e lui non lo ha manco salutato. Non sale al Giardino da dieci anni.
Si decide a entrare, va verso di loro. Cateno Camarda solleva una mano a salutarilo. Angelica Grasso invece non si volta neppure. Si sporge sulla fossa per buttare un mazzolino di margherite, mentre il figlio di Lucicùli, l’antico nemico, il bambino più feroce di tutti, la sostiene dai fianchi, spaventato che la pancia la sbilanci e la faccia cadere. Accanto a loro stanno Angelo, figlio vivo di Michele Lèggio il barbiere, e una ragazzina scognita con un caschetto di capelli nivori. La faccia bianca di petra, tira su con il naso, mentre Angelica allunga la mano, le carezza una guancia. Da dietro spuntano due picciriddi, l’occhi gonfi di pianto. Sono i nipoti di Angelica, figli delle sorelle Rosa e Aurora, e dei fratelli Aldo e Alberto Ferraù, quelli del Granbar. Nati a pochi giorni uno dall’altro, il primo bruno come i Grasso, il secondo chiaro come i Ferraù, entrambi sputati lo zio Giacinto, morto alla Cava d’Istrice per una prova di coraggio malriuscita. Uno si chiama Giacinto e l’altro Giacinto Secondo, ma tutti li chiamano i due Giacinto, come una moneta a due facce.
Angelica lo guarda. I capelli lunghi e liberi le volteggiano intorno al viso come catene arruggiate. Nonostante la gravidanza avanzata e l’aria carica di spilli, porta un vestito corto sopra alle ginocchia e una giacca di pelle leggera. Lo guarda ostile, mentre insieme al marito si avvicina.
«Noi andiamo. Devo badare alle bestie», gli dice Cateno, tenendola per un braccio. Gli sorride, e Paolo cerca dentro i suoi occhi da cane l’antica ferocia, spaesato da lineamenti che non riconosce. Non ha più la cicatrice della cinghiata del padre, uno sbrego che gli arrivava fino alle orecchie, rendendolo spaventoso pagliaccio triste.
«È stata Angelica, con le erbe», dice Cateno indovinando i suoi pensieri. «Passa a trovarci, sto sempre a Contrada Malotempo. Stiamo, adesso».
«Parto domani», dice Paolo.
«Hai ragione, chissà che impegni tieni, con lo studio di pittore. Se per caso ti trattieni, ci fa piacere», replica Cateno. Angelica ha allungato il passo verso l’uscita. «Lo sai come è fatta», aggiunge stringendogli la spalla, affettuoso. La donna spira come il vento, trascinandolo via come un mulinello.
Paolo li guarda allontanarsi sulla lambretta, lei davanti e lui dietro. Angelica ha perdonato Cateno, se l’è pure sposato, e a lui lo tratta così, come se la morte di Giacinto fosse colpa sua. Cateno ha sempre avuto tutto, il coraggio, il carisma, la prepotenza, e ora pure una faccia senza più tracce da capodoglio squartato. E fra poco un figlio da Angelica, la strega della tingitura. «Silvestro e Nina», mormora per ricordarsi che pure lui ha due figli, ma non serve, i suoi sono come quelli di tutti, ti sposi con una e arrivano, ma il figlio di Cateno e Angelica la Stramma sarebbe stato altro. È a Santafarra da poche ore e si sente soffocare, come se avesse uno straccio in gola. . Il pensiero lo trafigge, si scanta, allunga il passo. Se la Stramma gli ha letto dentro è finito.
Calogero sta con le gambe aperte, piantate al suolo. La nuca di pelle candida spunta dal colletto della camicia. Accanto a lui Nicola tiene la mano a Ciccio, che sorride con l’occhi vuoti degli scimuniti. Intorno a loro un cane salta a zampe unite, come una capra.
Paolo ha l’impulso di fuggire. Nicola sta accanto a suo fratello senza rispetto, le braccia si toccano di confidenza. Sa che Calogero si è preso cura di lui ancora neonato dopo che Angelo Foglia fu ammazzato dalla mafia, sa che lo ha fatto perché è un giusto, ma non riesce a fermare quello che sente dentro. La bocca si apre in un conato trattenuto. Cerca aria, come un pisce nella rete. Livido in faccia, una mano sullo stomaco, si avvicina al gruppo. Sembra davvero addolorato per il funerale dell’amico suo Filippu. , gli mormorano le viscere, in un groviglio di succhi indistinti.
Calogero si china sulla fossa, lascia scivolare un oggetto verde brillante. Paolo sente la gola stringersi in un nodo. È lo scarabeo che Filippu gli regalò vent’anni prima, la sera che cenarono al Giardino, ficupala cotti sulla brace e formaggio di toma. , aveva detto il vecchio scultore quella sera, come se sapesse che dopo pochi iorna Angelo Foglia sarebbe morto ammazzato, e Calogero per sola fortuna era rimasto vivo. Strizza gli occhi, per mettere a fuoco tutti.
Ecco Tatiana, la vedova di Angelo Foglia, alta e dritta, rimasta a Santafarra straniera due volte e con tre figli piccoli. Il suo ovale nobile è attraversato da rughe profonde, fili tirati a forza e incisi nella carne dall’omicidio del marito, scioccante come uno sbalzo termico improvviso. I suoi lineamenti sfumano nei figli, Nicola poco lontano, Natàlia chissà dove. Al pensiero di Natàlia il respiro di Paolo si ferma. La sua innamorata di bambino, la sua fidanzata di ragazzo. La prima cosa che ha perso a Palermo, e poi è finita come è finita. Senza un lavoro vero, scivolato dentro a un matrimonio infelice.
Ettore Bronzetti è dentro alla fossa. È lui adesso ad aiutare il padre Eugenio. La vecchiaia ha reso il custode del Camposanto ancora più sicco, come se qualcuno se lo fosse sugato da dintra. Non è mai stato buono ai lavori pesanti, e ad aiutare il dottore Marino nelle autopsie, segare ossa, spezzare costole ci ha sempre pensato la moglie Anita, anche se per Filippu non ci fu bisogno. Il vecchio scultore è morto come si muore a volte, per distrazione o noia di stare fra i vivi, dopo una vita in esilio dintra al suo Giardino, dopo che lo spedirono indietro dall’America come inabile e improduttivo. Un giorno ha solamente passato la soglia che lo separava dal suo mondo minerale.
Tutto vestito di nero, Ettore lavora con calma, l’occhi bianchi di stelle, mentre Nicola sul bordo dello scavo freme come una bestia in trappola. I due amici hanno la stessa età, ma il figlio del cimitero sembra più vecchio. Ha l’anni dei suoi vicini, sussurrano in paese, mentre a Nicola nessuno...




