E-Book, Italienisch, 110 Seiten
Reihe: Minimum Fax cinema
Herr / Barillari Con Kubrick
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-3389-037-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 110 Seiten
Reihe: Minimum Fax cinema
ISBN: 978-88-3389-037-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nel gennaio del 1999, mentre stava terminando il montaggio di Eyes Wide Shut, Stanley Kubrick telefonò a Michael Herr, con cui aveva sceneggiato Full Metal Jacket, e disse che sarebbe stato felice di fare una lunga intervista con lui in occasione dell'uscita del film. Si erano conosciuti nel 1980 e per anni avevano scritto insieme quello che è ritenuto da molti il più grande film di guerra di tutti i tempi, ma la loro amicizia era durata ben oltre Full Metal Jacket, e quando l'improvvisa morte di Kubrick impedì l'intervista che aveva chiesto, Michael Herr scrisse al suo posto questo libro furioso e malinconico, la storia di quell'amicizia e di quel capolavoro. Nel tratteggiare la figura di Kubrick, Herr si propose di confutare la trita mitologia che lo circondava, sostituendo all'icona minacciosa del regista folle e misantropo il ritratto di un uomo pieno di calore umano, leale, appassionato e infinitamente curioso. Con Kubrick è uno sguardo privilegiato e definitivo sul regista che ha cambiato per sempre il cinema contemporaneo, e sull'uomo, complicato e spesso frainteso, che si teneva nascosto dietro l'immagine dell'artista.
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KUBRICK COME GUERRA
Stanley era il re delle tenebre, e guidava un esercito di demoni.
Gustav Hasford,
sceneggiatore di
È nascosta una verità vasta e ostile, un brusco abisso della memoria, appena sotto la superficie di alcune parole pronunciate da Michael Herr con «brutale candore», come disse Kubrick, nel corso di una delle loro prime, lunghissime conversazioni telefoniche. Alla domanda di Kubrick se per caso conosceva qualche buon romanzo sul Vietnam da cui trarre un film, Herr, che all’epoca aveva già scritto ed era uno dei maggiori esperti di quella guerra e delle sue infinite narrazioni, gli rispose – e non vi fu, probabilmente, nessuna esitazione prima di questa risposta, né la più piccola incrinatura d’insincerità nella sua voce – che no, non ne conosceva davvero nessuno, aggiungendo che quella, per essere sinceri, «era più o meno l’ultima cosa al mondo che gli interessava», e ripetendo anche a Kubrick che lui voleva diventare «l’ultima persona al mondo cui pensare» per una sceneggiatura sul Vietnam. Addusse come motivo il rigetto che alla fine prova uno scrittore per l’argomento a cui sono dedicate tutte le sue opere, i sette anni passati sul suo libro e gli altri due sulla sceneggiatura interminabile di , ma si intuisce da ciò che Michael Herr aveva già compiuto, dall’altezza delle sue ambizioni, che non poteva essere – che non era – soltanto questo a trattenerlo dal legare il suo nome a quello che si annunciava come un altro capolavoro, dal lavorare al fianco di colui che considerava il più grande regista vivente, , un uomo della cui leggenda si dichiarava «predisposto ad ammalarsi».
Che questa non fosse l’unica ragione né la più importante è dimostrato con forza anche da quanto era accaduto meno di un anno prima, quando Herr aveva ricevuto ancora in bozze proprio il romanzo sul Vietnam che in seguito avrebbe adattato per Kubrick nella sceneggiatura di . Era accompagnato da una lettera dell’editore che lo esortava a leggerlo nella speranza di avere da lui un commento positivo per il lancio del libro, ma non appena vide di cosa trattava, Herr ebbe subito l’impulso di accantonarlo – anche se il libro riportava in epigrafe, come un invito, una frase di – perché voleva impedire a qualsiasi costo il risorgere dei ricordi e degli stati d’animo che quel genere di storia avrebbe provocato in lui; e così, anche dopo averlo letto d’un fiato a dispetto dei suoi propositi, concludendo che era «un capolavoro», aveva fatto tutto il possibile per allontanarlo dai suoi pensieri, non aveva risposto all’editore, non aveva scritto all’autore per complimentarsi, e infine aveva gettato via le bozze del libro, barricandosi dietro a un silenzio che pure gli procurava un vago senso di vergogna. In questo modo, sebbene non fosse riuscito a ignorare il libro come intendeva fare con tutti i libri sul Vietnam in quello che aveva definito il suo nuovo, liberatorio «periodo postbellico», non si ricordava nemmeno più di averlo letto quando, qualche mese dopo, Kubrick lo chiamò e gli chiese consiglio. Trascorsero due anni da quella telefonata; poi, per una di quelle insistenze del caso che fanno pensare all’esistenza del destino,1 Kubrick capitò su una recensione che elogiava quel romanzo, lo lesse, pensò che conteneva il suo prossimo film e ne parlò a Herr, e fu allora che lui si rese conto di aver fatto così tanto per staccarsi da tutto ciò che quel libro raccontava che non era in grado di rammentare pressoché nulla. Ma gli fu sufficiente rileggere la prima pagina, e tutto, di colpo, «ritornò».
Quando nell’estate del 1967 era partito per il Vietnam come corrispondente di guerra, Herr aveva appena ventisette anni e tutto quello che sapeva sulla scrittura veniva da una svogliata laurea alla facoltà di letteratura della Syracuse University e da qualche decina di articoli di viaggio e recensioni cinematografiche non pagate – e in poche settimane la guerra, che ha il potere di creare gli uomini non meno che di annientarli, aveva fatto di lui un grande scrittore.
Il primo, impetuoso reportage comparve su nell’agosto di quell’anno. Si intitolava «Hell Sucks», perché il Vietnam era l’Inferno e l’Inferno faceva schifo, «il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali, i vietcong erano ovunque contemporaneamente come un cancro ramificato», rivelava Herr a un’America ancora ostinatamente ingenua, raccontando la devastante offensiva vietnamita del Tet con parole nuove, violente e visionarie, in cui sembrava agire la stessa dexedrina assunta dai marines per resistere in quella guerra di notti e giungle, e andare in battaglia guardando dritta in faccia la . «Il giornalismo tradizionale», scrisse in , «non era in grado di far luce su questa guerra più di quanto le armi tradizionali fossero in grado di vincerla». Fin dai suoi primi giorni all’Inferno, Michael Herr si era ritrovato a combattere con una calibro 30 in mano, sparando da un avamposto per coprire una pattuglia di quattro uomini che cercava di rientrare, e a curare, «impreparato e impaurito», le centinaia di feriti accatastati nell’ospedale di Can Tho come sacchi di sabbia, come un’inutile trincea contro la morte; a essere trasportato da un campo di battaglia all’altro su elicotteri carichi di cadaveri, con il vento che sollevava i teli che li coprivano e svelava i loro sguardi spettrali, e a camminare nella giungla umida e infuocata che i vietnamiti chiamavano «l’aldilà», «così persino i morti cominciarono a raccontarmi delle storie e la loro storia era sempre presente in me e sempre la stessa: “Mettiti al mio posto”». Non tentò nemmeno di adottare il professionale distacco del reporter, gli era impossibile attenersi alla disseccata oggettività dei fatti – non credeva nei fatti, disse una volta, aveva visto i fatti usati spesso come menzogne – e non voleva commettere il più grave errore che potesse fare un testimone, «l’errore di credere che tutto ciò che serviva per compiere un atto di testimonianza fossero gli occhi», ma così facendo, disse in seguito qualcuno, prese in sé «una parte delle mostruosità che vide», una parte del cuore delle tenebre americane. Rimase in Vietnam per due anni, ma non scrisse quasi nient’altro dopo quel reportage, e forse fu anche questo a piegarlo, l’aver accumulato troppo orrore senza mai liberarlo nella scrittura: «il problema era che non sapevi sempre cosa vedevi se non dopo, forse anni dopo, e che buona parte di quello che vedevi non arrivava mai alla coscienza, si limitava a restare immagazzinato nei tuoi occhi». Fece ritorno a New York verso la metà del 1969,
e per i sei anni che seguirono continuai a vederli tutti quanti, [i morti,] quelli che avevo visto veramente e quelli che mi ero immaginato, i loro e i nostri, gli amici a cui avevo voluto bene e gli sconosciuti, immote figure di una danza, l’antica danza. Finché non capii che anch’io non ero che un ballerino.
Aveva iniziato di getto a scrivere , sia pur incontrando difficoltà che diventarono a poco a poco sempre più grandi. «A Saigon andavo a letto sempre strafatto, così spesso mi perdevo i sogni, e [...] quelli che persi laggiù si sarebbero fatti strada più tardi, avrei dovuto saperlo», si legge ancora nelle pagine che risalgono a quel periodo, essendo , al tempo stesso, un libro sulla guerra e una riflessione sull’impossibilità di scriverlo. «Andai là per seguire la guerra, e fu la guerra a seguire me».
Era solo a metà del libro quando all’inizio del 1971 giunse il crollo, portato dalla notizia della morte di tre suoi colleghi in Vietnam. Disse in seguito, nell’unico accenno che fece a quella lunga esperienza di disperazione, che non vedeva più nessuno, perché non voleva che nessuno lo vedesse. Per anni il libro non fece pressoché alcun progresso, poi
una notte, come un frammento di shrapnel che ci mette anni per farsi strada e uscire, sognai un campo gremito di morti. Lo stavo attraversando con un amico, più che un amico una guida, e lui mi faceva abbassare a guardarli. Erano ricoperti di polvere, imbrattati di sangue, alcuni smembrati e senza più i pantaloni, proprio come quel giorno che li buttavano sul camion a Can Tho, e io dicevo: «Ma li ho già visti». Il mio amico si limitava a farmi un segno con il dito e io mi piegavo di nuovo e questa volta li guardavo in faccia. New York, 1975, quando mi svegliai il mattino dopo stavo ridendo.
Quell’anno riprese un po’ alla volta a scrivere, con fatica. Ogni giorno, poco dopo le undici e mezza del mattino, andava in un piccolo ristorante, si sedeva allo stesso tavolo d’angolo e sorseggiava a lungo un Jack Daniel’s guardando fuori sulla Settima Avenue – e trascorsero quasi due anni prima che rivolgesse la parola a qualcuno. Riuscì lentamente a finire, ma né la pubblicazione di nel novembre del 1977, né l’entusiasmo immediato e unanime dell’America, con il che salutava «il miglior libro nato dalla guerra del Vietnam», servirono ad attutire il tumulto dei ricordi che si agitavano in lui se in un’intervista di quel periodo, una delle quattro o cinque che concesse in tutta la sua vita, ammise con la giornalista del che a volte si rintanava ancora nel suo appartamento, anche per un’intera settimana, facendosi fino allo stordimento di marijuana, «il chiodo nella bara che lo rinchiudeva». In qualche modo, nel corso dei due...




