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E-Book, Italienisch, 384 Seiten
Hessel Danza con il secolo
1. Auflage 2012
ISBN: 978-88-96873-68-7
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 384 Seiten
ISBN: 978-88-96873-68-7
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Attraversare un secolo e farlo insieme ai Grandi della Storia: questo è stato il destino di Stéphane Hessel, l'uomo che con 'Indignatevi!' ha scosso le coscienze del mondo. Alle spalle di quelle poche pagine che si sono trasformate in un richiamo generazionale e culturale, c'è una vita straordinaria. Nato nel 1917 da una famiglia di artisti e scrittori. Hessel ha vissuto la stagione della Resistenza a fianco di De Gaullle, ha partecipato ai grandi momenti della vita internazionale come la stesura della Dichiarazione universale dei Diritti dell'uomo, passando dall'Onu a Saigon. dall'Africa a New York. Ad animarlo sempre una splendida curiosità per gli altri e un esistenza prodiga di militanze. La vita di Hessel racchiude molte vite, narrate in quésto libro con leggerezza, poesia e la forza di chi non smette di voler essere parte di un mondo che cambia.
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Prima transumanza: da Berlino a Parigi
Per tanto tempo ho conservato un quaderno in cui avevo dipinto gli episodi della mia vita, dalla nascita fino all’arrivo in Francia, all’età di sette anni. A ogni acquerello corrispondeva una didascalia. Ricordo ancora il primo: riproduceva una figura femminile sdraiata su un letto accanto a un’altra, più piccola. Ai piedi del letto due paia di pantofole, un paio il doppio dell’altro. Di fronte, un uomo in camice bianco era seduto a tavola davanti a un piatto con una macchia rossa. La didascalia recitava: «Dopo la mia nascita, il dottore mangia una fetta di prosciutto». Avevo riportato il racconto di mia madre, divertita da quel gesto inopportuno del suo ostetrico nella Berlino dell’ottobre 1917, dove mancava tutto.
I miei genitori abitavano in un grande appartamento di un bel palazzo di fine secolo, con una scala curva di cui calpestavo con soddisfazione il tappeto rosso. La casa si trovava all’angolo tra le strade Friedrich-Wilhelm e Von-der-Heydt, a cento metri dal Tiergarten, il grande parco della capitale dove io e mio fratello andavamo a giocare con il cerchio. Quel quartiere delle ambasciate, di cui ancora oggi conservo un ricordo così preciso da poterne disegnare la pianta, è stato interamente raso al suolo dalle bombe. Di quella casa non resta più nulla.
Nella mia memoria c’è un’immagine che colloco subito dopo la fine della guerra; ho poco più di due anni. È Natale, e io ballo nel salone sgomberato per le feste. Alle caviglie e ai polsi ho alcuni nastri di rafia blu e rossa. Mio fratello mi guarda. I parenti applaudono. Io giro, e giro e giro.
Chi sono quei parenti? La famiglia di mio padre aveva acquisito una cospicua fortuna dal commercio dei cereali. Aveva lasciato la Polonia per fermarsi in quello che allora era il grande porto tedesco di Pomerania: Stettin, tornata a essere la polacca Szczecin nel 1945. Il terzo figlio, Franz, venne alla luce nel 1880, e con l’inizio del secolo Heinrich Hessel e sua moglie Fanny ruppero con la tradizione ebraica, si stabilirono a Berlino e fecero battezzare i figli secondo la religione luterana.
Due di loro, Alfred, il maggiore, e Hanns, il minore, corrispondono alla tipica immagine della borghesia ebraica integrata che al principio del XX secolo occupa posizioni sociali di primo piano: banche, università, teatro e stampa, nell’intellighenzia insomma, cosa che di fatto la rende un bersaglio prima della destra nazionalista, poi dei nazisti. Gli altri due figli non sembrano usciti dallo stesso stampo: Anna, che doveva essere molto graziosa e delicata, uccisa dalla tubercolosi all’età di venticinque anni, e mio padre, Franz, di quindici anni più giovane, che rimase sconvolto da quella morte, maturando forse la malinconia e il distacco dalla vita materiale tipici dei poeti. Gli affari sono per Paul Briske, suo cognato, che manderà in rovina la fortuna di famiglia; la banca è per Hanns e l’università per Alfred, che morirà a Göttingen nel 1939, pianto dai suoi studenti. Franz, fin da ragazzo, si dedica alle lettere, alle lingue e allo studio dell’antica Grecia.
Mia madre, Helen Grund, nacque a Berlino nel 1886. Era la figlia minore di un banchiere melomane la cui famiglia, di confessione protestante e di origine slesiana, aveva dato alla Prussia brillanti architetti ed eccellenti funzionari.
Di recente ho scoperto che il mio bisnonno era stato fatto comandante della Legione d’Onore per aver contribuito, intorno al 1850, alla sistemazione del bacino fluviale della Saar, collaborando con le autorità imperiali francesi. Mia nonna era nata a Zurigo da una famiglia tedesca emigrata in Svizzera dopo la rivoluzione del 1848. Aveva una cognata francese e una inglese. I racconti di mia madre sulla sua infanzia, sui quattro fratelli e sorelle che coccolavano lei, la più piccola, lasciavano intuire un mondo di gioia intensa, di folli imprudenze, di angosce materne e indulgenza paterna che avrebbero portato mia nonna in una casa di cura, dove morì prima della mia nascita.
All’inizio Franz era attratto dalla bohème artistica di Schwabing, il Montparnasse di Monaco, dove per tre anni visse ai piedi della contessa Franziska zu Reventlow, tra il poeta Stefan George e il suo discepolo Karl Wolfskehl, in un circolo di intellettuali superbi che lo colpì profondamente, benché se ne prendesse gioco nei suoi scritti satirici. Tornato a Berlino fondò una rivista letteraria, «Vers und Prosa»[1]. Poi nel 1906 arrivò a Parigi, dove si legò a Henri-Pierre Roché, Guillaume Apollinaire e Marie Laurencin.
Helen voleva fare la pittrice e il suo professore, Mosson, che fu anche il suo primo compagno, la esortò a formarsi alla Grande Chaumière di Parigi, con Maurice Denis.
Franz e Helen, entrambi così tedeschi e cosmopoliti, si incontrarono nel 1912 al Café du Dôme di Montparnasse.
La Parigi degli anni prima della guerra era il crogiolo culturale e morale da cui io e mio fratello siamo usciti, luogo di sogni e di rivolte. È là che i nostri genitori hanno deciso di sposarsi, non per creare un vincolo ma al contrario per accrescere la loro libertà, fortemente rivendicata. Libertà rispetto alle loro famiglie: i fratelli di Helen pensavano che ci fossero troppi ebrei tra gli invitati alle nozze; quelli di Franz, più tolleranti, si chiedevano se lei non lo avesse sposato per i soldi.
Chi di loro poteva capire quel legame così particolare che li univa e allo stesso tempo li liberava l’uno dall’altra?
Il matrimonio ebbe luogo a Berlino, un anno prima della dichiarazione di guerra. Helen era incinta, e decise di partorire a Ginevra. Il suo primo figlio, Ulrich, nacque il 27 luglio 1914, mentre Franz partiva per raggiungere il reggimento. Il neonato, che nacque con una lesione al cervello, fu salvato dalla caparbietà della madre, ma avrebbe conservato un’invalidità che fece di lui il mio fratello maggiore e al contempo il minore. Tre anni dopo, mentre a Verdun ci si massacrava, io fui il frutto di una licenza a Berlino accordata a Franz dal servizio della censura, dove si era fatto stanziare. Quella che era per lui l’assurdità della guerra si esprime in Romanza parigina[2], il suo miglior libro, che prende la forma di uno scambio di lettere con il suo amico francese Henri-Pierre Roché. Franz vi mette in scena il suo incontro a Parigi con Helen, della quale si fa difensore innamorato e ambiguo, descrivendola come avrebbe voluto amarla.
Durante quella fase bellicosa delle relazioni franco-tedesche, mio fratello e io, bambini, non godemmo molto della presenza paterna. Helen e sua sorella Bobann costituivano il nostro universo fisico e mentale, un universo fatto di risate e di carezze, di giochi e travestimenti: due berlinesi scatenate.
Helen aveva per me i tratti di Afrodite, con gli occhi azzurri e i lunghi capelli biondi, la tenerezza focosa e il bisogno di sedurre. Ha impostato il suo legame con me sull’ammirazione: valorizzarmi senza mai criticarmi o rimproverarmi. Gli effetti di un’educazione del genere sarebbero potuti essere disastrosi, ma ha voluto trasmettermi anche la modestia, qualità che riteneva fondamentale. L’ha descritta in uno dei suoi aforismi preferiti: «Bescheidenheit ziert nur den Erfolgreichen», «Perché la modestia sia conveniente, deve accompagnare il successo». Molto tempo dopo ho trovato nel suo diario la testimonianza di quel paradosso: si infuriava quando ci si sottraeva alla sua seduzione, eppure riservava a se stessa uno sguardo critico impietoso.
Nostro padre? Helen ce ne dava soltanto un’immagine alquanto sbiadita, quella di una mente sottile in un corpo ingrato. Franz era quasi calvo, di bassa statura e piuttosto robusto. Il suo volto e i suoi gesti erano gentili, appariva ai nostri occhi come un saggio, un po’ assente, che viveva in disparte e non si occupava molto di noi. Discreto, teneva all’eloquenza e amava giocare con le parole. Rivedo lo studio in fondo al corridoio in cui lavorava e dove aleggiava un costante odore di tabacco. Ne usciva per leggerci alcuni passaggi della sua traduzione dell’Odissea; quello in cui Ulisse cava l’occhio a Polifemo fece tremare di disgusto il ragazzino che ero allora. Ben più dei racconti dei Grimm o dei libri di Wilhelm Busch, che leggevamo sdraiati sul tappeto del salotto di mia nonna Fanny, la mitologia greca e le epopee omeriche sono state il mio primo nutrimento intellettuale. Franz mi ha insegnato il gusto del politeismo, che non riduce il divino all’entità unica e un po’ angosciante del Padreterno, ma ci consegna al commovente dispotismo di Atena, di Afrodite, di Apollo e di Ermes. Quarant’anni dopo la sua morte, è diventato per me una figura iniziatica.
La sua opera, che conoscevo poco e dalla quale non mi aspettavo altro che svago, è riemersa offrendo un punto di vista profetico e malinconico sugli inizi del secolo, in accordo con Bertolt Brecht e Walter Benjamin.
Un po’ di tempo fa ho ricevuto da un editore tedesco un testo di cinque pagine, trovato in una raccolta d’archivio, in cui mio padre, rivolgendosi a mio fratello e a me, ci raccomanda la lettura di alcuni estratti dei suoi scritti, che pensava sarebbero potuti esserci utili.
Il misto di modestia, tenerezza e senso di responsabilità che ne emerge mi ha toccato profondamente. Come un segnale arrivato da molto...