Kelley | Thelonious Monk | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 1566 Seiten

Kelley Thelonious Monk


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-3389-217-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 1566 Seiten

ISBN: 978-88-3389-217-7
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La figura di Thelonious Monk (1917-1982) è da sempre tra le più apprezzate dagli studiosi e dagli appassionati di jazz. Eppure spesso ne è stato offerto un ritratto parziale, se non distorto: quello di un genio eccentrico, di un uomo mentalmente disturbato, di un musicista primitivo e naïf. Questa biografia rimette finalmente nella giusta prospettiva critica la vita e la musica del grande pianista-compositore. Grazie a un lavoro di ricerca durato più di dieci anni, durante i quali l'autore ha avuto accesso per la prima volta ai documenti privati della famiglia Monk, scopriamo un Thelonious diverso: un musicista pienamente consapevole della propria arte, determinato a lottare senza compromessi per difendere la sua visione musicale; un individuo sensibile e spiritoso, che malgrado gli eccessi conquistava immancabilmente la stima e la simpatia del prossimo; un uomo attentissimo alla realtà sociale, che nella musica vedeva anche il mezzo per affermare la possibilità di un mondo migliore. Selezionato dal New York Times fra i 100 migliori libri del 2009, finalista al PEN USA Literary Award, premiato come miglior libro sul jazz dalla Jazz Journalists Association, Thelonious Monk. Storia di un genio americano è destinato ad affermarsi come l'opera definitiva su un gigante indimenticato del jazz.

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PRELUDIO


Mi si presenta una scelta: posso scrivere di Monk così come lui è, oppure scrivere di come appare e di come in genere si pensa che sia. Non è una scelta difficile, perché entrambe le possibilità offrono un terreno fertile; le due storie hanno solo gradi diversi di plausibilità.

Paul Bacon, critico, 19491

A Benetta Smith, «Teeny» per gli amici, piaceva molto andare a trovare gli zii Nellie e Thelonious. Per un bambino di fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, il piccolo appartamento a pianterreno dei Monk, al 243 della Sessantatreesima Strada Ovest, doveva sembrare quasi un luna park. Lo zio Thelonious, al piano, trasformava i canti di Natale in composizioni monkiane, oppure teneva banco prendendo in giro amichevolmente e facendo domande sulla vita che mettevano in difficoltà. La zia Nellie chiacchierava in continuazione, a volte intrattenendo i bambini con storie esagerate e meravigliose, a volte maledicendo agenti, manager e chiunque approfittasse del suo caro marito, a volte rimproverando delicatamente una delle nipotine affinché non «prendesse a botte» il piano. I loro figli «Toot» (Thelonious Jr) e «Boo Boo» (Barbara) aggiungevano animazione e divertimento; scoppiavano di energia ed erano incoraggiati dai genitori a esprimersi in piena libertà. Appartamento e quartiere diventarono una specie di parco giochi per Teeny e i suoi sei fratelli e sorelle, e per i cugini e gli amici di famiglia. Lo zio «Baby», il fratello minore di Thelonious, Thomas, viveva a due portoni di distanza, e così i suoi quattro figli erano sempre lì.

Come tutti gli altri nipotini, anche Teeny trattava suo zio come uno zio, non come un genio eccentrico o una celebrità. Durante una delle tante visite che gli fece nel 1959 o nel 1960 (aveva circa dodici anni), Teeny notò un volume delle composizioni di Chopin appoggiato sul mezzacoda Steinway a nolo dello zio. Il piano di Monk era famoso per essere sempre ingombro di cose. Occupava buona parte della cucina e si allungava nella stanza di fronte. Il coperchio era sempre chiuso, poiché serviva da deposito provvisorio per spartiti, carte varie, riviste, biancheria stirata e piegata, piatti e un numero imprecisato di attrezzi da cucina assortiti.

Teeny sfogliò il volume chopiniano, poi si girò verso lo zio e gli chiese: «Come mai lo tieni sul piano? Credevo che non sapessi leggere la musica. Sei capace?» Era una sfida. Per tutta risposta, Monk si sedette al piano, scelse dal libro una composizione molto difficile e cominciò a suonarla a rotta di collo.

«Le mani erano più veloci dell’occhio», ha ricordato Teeny molti anni dopo. «Quando ebbe finito, si alzò di colpo dal piano e mi fece un sorriso. A quel punto io gli dissi: “Non l’hai suonato bene”».

«Cooosa? Che cosa vai dicendo? L’ho suonato dieci volte più veloce di chiunque altro!»

Teeny aveva la risposta pronta: «Dice “adagio”, e tu l’hai fatto “allegro”».2

Monk amava quei duelli verbali, il punzecchiamento scherzoso, le sfide lanciategli da chi non si mostrava intimidito da lui. Ed era orgoglioso della sua famiglia, e della conoscenza, allora in boccio, che Teeny dimostrava della musica.

Per mezzo secolo e più, la critica e la stampa hanno ritratto Monk come «eccentrico», «matto», «puerile», «cupo», «naïf», «istintivo», «primitivo», perfino «taciturno». Ha osservato Nat Hentoff, uno dei pochi critici che gli furono davvero vicini: «Monk [...] è diventato una specie di personaggio da fumetto stereotipato per i notisti di colore dei supplementi domenicali a cui tocca scrivere qualche pezzo esotico sul jazz. Foto di Monk in occhiali scuri o con il pizzetto venivano di solito corredate dalla didascalia “Monk il Matto” oppure “il Gran Sacerdote del Bop”. Il “materiale” di quegli articoli erano i resoconti esagerati delle vicende della sua vita. Non si tentava mai di discutere la natura o la serietà dei suoi intenti musicali».3 Tipico di tanta pubblicistica su Monk è il benevolo ritratto apparso sul a firma Lewis H. Lapham. Qui Thelonious è descritto come «un uomo emotivo e istintuale, in possesso della visione del mondo di un bambino. Monk parla, dorme, mangia, ride, cammina o danza ogni volta che ne sente l’impulso».4 Correva voce che fosse poco comunicativo, che la musica fosse il suo unico mezzo di espressione. Si diceva che vivesse chiuso nel suo piccolo mondo, in esilio dalla realtà, e che non fosse interessato a nulla se non alla sua musica e a se stesso. La sola musica che lo interessava era la sua, oppure le canzoni popolari e i vecchi standard, di cui si appropriava conformandoli al suo idioma.

Perfino i suoi fan e suoi sostenitori facevano dichiarazioni circa la mancanza di conoscenza e/o d’interesse di Monk per altri generi musicali, soprattutto per la musica classica. Con tutta l’intenzione di fargli un complimento sincero, il critico francese André Hodeir ha insistito nel dire che questo «jazzman genuino» non aveva interesse per la «musica seria». Assicurava ai propri lettori che «le sirene della dodecafonia non hanno fatto mutare a Monk la sua rotta jazzistica. È probabile che nemmeno sappia che esiste, una musica simile. Sento di poter dire con sicurezza che lo sviluppo graduale del suo linguaggio è stato il risultato di intuito, intuito e nient’altro».5 John Mehegan, pianista, critico e didatta, in un suo saggio del 1963 ha ripetuto suppergiù le stesse cose. «L’intero corpus di risorse dell’uomo occidentale», ha riflettuto, «per quanto riguarda la pratica del pianoforte, che risale al sedicesimo secolo, rimane ignoto a Thelonious Sphere Monk per un semplice motivo: Monk non è un uomo occidentale. È un Nero».6 Perfino il suo collega Bill Evans, pianista jazz, è autore di una dichiarazione divenuta famosa: la musica «unica ed eccezionalmente pura» di Monk si spiegherebbe con la mancanza «di un’esposizione alla tradizione della musica classica occidentale o, in realtà, di una più ampia esposizione ad altri generi che non siano il jazz e la musica popolare americana».7 Quincy Jones ha allargato il mito del genio incorrotto a tutte le interazioni di Monk con il mondo esterno, quasi Monk fosse una botte sigillata in fermentazione: «Opere classiche ne conosce poche, come conosce poca vita al di fuori di se stesso, e credo che sia per queste ragioni che non ha mai creato su basi artificiose o inibite».8

Questo mito è tanto attraente quanto assurdo. La verità è che Thelonious Monk aveva una conoscenza e un gusto grandissimi per la musica classica occidentale, per tacere della sua conoscenza enciclopedica degli inni, della musica gospel, delle canzoni popolari americane e della quantità di arie poco note che sfuggono a una semplice categorizzazione. Per lui, era tutta musica. Una volta, era il 1966, a Helsinki una falange di giornalisti mise Monk alle strette per conoscere le sue opinioni sulla musica classica e per sapere se secondo lui il jazz e la musica classica si sarebbero mai potuti incontrare. Alla conversazione era presente il batterista di Monk, Ben Riley: «Tutti si aspettavano una risposta, una qualche definizione di musica classica e di jazz... e lui ha detto: “Due è uno”, facendo tacere tutti. Nessuno ha più detto una parola».9 Proprio così, due è uno. Monk amava Frédéric Chopin, Sergej Rachmaninov, Beethoven e Bach, e come molti della generazione del bebop provò interesse per Igor Stravinskij. La sua vita, poi, non era più monastica di quella di qualunque jazzman cittadino, anzi, era di gran lunga più colorita e interessante di quella di un monaco vero. I miti su Monk hanno nascosto la verità, e la verità, tanto sulla sua vita quanto sulla sua musica, è affascinante e complicata, e non meno originale o creativa del mito.

Monk non aveva abilità o nozioni musicali innate (anche se aveva l’orecchio assoluto), né era un completo autodidatta. Ricevette un’educazione musicale formidabile e la sua caratteristica sonorità fu il frutto di un lavoro molto intenso. Ma non si isolò mai dal mondo, nella solitudine della meditazione musicale. Ci volle un villaggio per fare Monk: un villaggio popolato da insegnanti di musica tradizionali, da musicisti che abitavano nel quartiere di San Juan Hill, a New York, dove crebbe; una predicatrice itinerante, una quantità di amici e collaboratori che ne facilitarono gli studi e le scoperte; e una grande famiglia estesa, desiderosa di dargli una mano e di fare sacrifici, anche grandi, per consentire a Thelonious una vita creativa senza compromessi. Trasse ispirazione, idee, lezioni dai membri della sua famiglia, dall’esperienza di tutti i giorni, dalle gioie e dalle difficoltà e dalla città stessa: i suoi suoni, i suoi rumori, il suo spettacolo. Questo, quindi, non è solo un libro su di lui o sulla sua musica; è piuttosto un racconto intimo delle persone che gli diedero forma: sua madre Barbara, donna lavoratrice e devota; sua moglie Nellie e l’intera famiglia di lei; i loro figli; suo fratello e sua sorella e i loro bambini; la sua comunità musicale; la baronessa Nica de Koenigswarter, sua santa patrona e amica; gli amici d’infanzia e le prime cotte; i membri dei centri ricreativi locali; i suoi antenati e l’eredità che gli avevano lasciato; per non parlare di agenti, manager, produttori, critici, giudici, poliziotti, avvocati e tutti quelli le cui azioni ebbero un influsso...



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