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E-Book, Italienisch, 326 Seiten
Reihe: Narrativa
Laxness Il paradiso ritrovato
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7091-922-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 326 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-922-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Steinar di Hlíðar vive in un mondo di miti e valori antichi nell'Islanda di fine Ottocento. Umile contadino e artigiano della pietra, del legno e della poesia, strenuo custode degli ideali delle saghe, si rifiuta di vendere ai potenti del distretto un magnifico cavallo che i suoi due figli considerano magico e che dunque per lui non ha prezzo. Una creatura tanto speciale può essere degna solo di un re, perciò il villico finisce per regalarla al suo sovrano, re Cristiano di Danimarca, insieme a uno scrigno dotato di una chiave nascosta in una poesia. Ma la reazione della corte reale non può essere più deludente per Steinar che, perso di colpo il suo mondo fiabesco, sembra trovare il paradiso in terra nelle parole di un predicatore mormone, e parte fiducioso alla scoperta dello Utah. Comincia così la sua picaresca iniziazione alla nuova fede nella controversa comunità poligama che popola il Regno Millenario di Salt Lake City, dall'altra parte del mondo, dove il contadino islandese comincia a costruire una vita migliore per la propria famiglia, mentre l'adorata figlia, rimasta sola in patria, cade vittima di soprusi e di- sgrazie di ogni sorta. È forse questo il deserto da attraversare per meritarsi la Terra Promessa? Ispirandosi a fatti storici e ai propri viaggi americani, Laxness combina crudo realismo e metafora, satira pungente e folklore in un romanzo sull'Islanda di ieri travolta dalla modernità, che molto si interroga sulla posizione sociale della donna. E compone una parabola sulla ricerca umana della felicità, del «paradiso», dell'«America», con tutti i suoi beati miraggi e le sue disillusioni.
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1. Un cavallo d’aria e d’acqua
All’alba del regno di Cristiano figlio di Guglielmo, terzultimo dei sovrani stranieri che esercitarono il potere qui in Islanda, viveva a Hlíðar, in quelle campagne note come Steinahlíðar, un contadino di nome Steinar. Suo padre l’aveva fatto battezzare così in seguito alla pioggia di pietre1 franate dalla montagna nella primavera in cui era venuto al mondo. Al principio di questa storia, Steinar aveva moglie e due bambini, un maschietto e una femminuccia. Le terre di Hlíðar erano venute in suo possesso per eredità.
Nel periodo in cui cominciano queste vicende, gli islandesi erano noti per essere il popolo più indigente di tutta Europa. Così erano stati anche i padri, i nonni, i bisnonni, risalendo fino ai primi colonizzatori; ma loro erano convinti che nei tempi antichi l’Islanda avesse conosciuto un’età dell’oro, in cui gli islandesi non erano contadini e pescatori, bensì eroi e poeti di sangue reale, provvisti di armi, ori e navi. Come altri ragazzi islandesi, anche il figlio del villico di Hlíðar aveva imparato in fretta a essere vichingo e uomo del re. Con il legname portato a riva dalle correnti s’intagliava asce e spade.
Hlíðar era stata costruita come qualunque altra fattoria islandese da tempo immemorabile: stanza principale con piancito, vestibolo e piccolo soggiorno con letto per gli ospiti dalle pareti interamente rivestite in legno. Una serie di facciate a timpano, sempre in legno, rivolte al cortile com’era costume nelle case contadine, costituivano la dispensa, l’essiccatoio, il fienile, la scuderia, l’ovile e da ultima la fucina. Sul retro torreggiavano d’autunno le biche di paglia, che sparivano in primavera.
Fattorie come questa, con il tetto ricoperto di torba erbosa, sorgevano all’epoca ai piedi di rilievi montuosi in mille luoghi d’Islanda. Quella su cui ora ci soffermiamo si distingueva per come l’accuratezza e la qualità artigianale della sua manutenzione ne compensassero l’aspetto tutt’altro che imponente. Mai era tollerata pecca né difetto, in nessun’ora del giorno o della notte, né deterioramento di alcuna sorta, all’interno come all’esterno degli edifici: il contadino era sempre lesto a riparare il danno, da buon custode della sua proprietà, anche a costo di alzarsi dal letto. Era abile nel lavorare il legno tanto quanto il metallo. Da lungo tempo nelle Steinahlíðar era costume indicare ai giovani le mura di Hlíðar perché le prendessero a modello nella vita: le pietre che le costituivano erano posate con tanta maestria da non aver pari nella regione. Le fattorie delle Steinahlíðar sorgono su un suolo sovrastato da rupi che ventimila anni fa era un fondale marino. Nei crepacci si forma un terriccio su cui attecchisce una vegetazione che intacca la pietra e la erode, così che quando le precipitazioni primaverili e autunnali dilavano le fenditure, una quantità di frantumi di roccia frana sui campi sottostanti. Ogni anno questi detriti danneggiano i prati e i cortili di qualche proprietà, a volte anche gli edifici stessi. Il villico di Hlíðar aveva spesso un gran daffare in primavera per spietrare il prato e il cortile, anche perché attendeva a tale compito con più scrupolo di chiunque altro. Innumerevoli volte gli toccava chinarsi e tirarsi su reggendo fra le braccia un pesante macigno, senz’altra ricompensa che la gioia di vederlo opportunamente ricollocato in una muratura.
Si racconta che Steinar di Hlíðar avesse un cavallo grigio considerato il migliore di quelle plaghe. Questo cavallo era un fenomeno, di quelli che farebbero comodo a qualunque fattoria. Non parevano sussistere dubbi sul fatto che possedesse qualità soprannaturali, fin da quando era puledro e all’improvviso era apparso al fianco di una giumenta grigia piuttosto anziana che da lungo tempo faceva parte di una mandria di quelle montagne. Era appena uscita a pascolare a Lónsbakkar, dopo aver passato l’intero inverno in stalla, ma nessuno aveva visto in lei i segni di una gravidanza. Se mai c’era stato un caso di immacolata concezione qui in Islanda, era questo. Il parto era avvenuto durante una bufera, in una di quelle che vengono popolarmente chiamate «gelate dei corvi», e che la tradizione colloca nove giorni prima dell’inizio della bella stagione. Ancora nessun fiore in vista, né una foglia di romice ai piedi di un muro, men che meno un piviere dorato; neppure il fulmaro aveva cominciato a sorvolare i monti per vedere se erano ancora lì… e tutt’a un tratto ecco venuta al mondo una nuova creatura prima che fosse nata la primavera stessa. Il cavallino correva al fianco della vecchia Grisa con un passo tanto leggero che quasi non si poteva dire che le zampe toccassero terra. Eppure gli zoccoli non erano girati all’indietro, il che pareva indicare che il puledro non fosse un mutaforma, almeno non per parte di entrambi i genitori. Ad ogni modo, la giumenta non era in lattazione, dunque di cosa doveva mai vivere questa magica creatura? La vecchia Grisa era stata ricondotta alla fattoria e nutrita a fieno; e al piccolo cavallo d’acqua era stato dato del burro, ossia l’unico possibile surrogato del latte equino che mancava. Così, per tutto il tempo finché non era stato pronto per il pascolo, il giovane mutaforma si era sfamato a fondi di zangola.
Crescendo aveva sviluppato la sua mirabile figura, con un collo ben arcuato e una folta criniera, quarti posteriori magri eppure una bella groppa, zampe lunghe e ottimi zoccoli. I suoi occhi acuti luccicavano, aveva un infallibile senso dell’orientamento, un’andatura sicura ma morbida, e un galoppo senza pari. Era stato chiamato Nevischio, per via del clima di quella primavera, e da allora gli anni erano sempre stati calcolati a partire da quello della sua nascita: «la primavera in cui Nevischio aveva un anno», o due, o tre, e via dicendo.
In alcuni punti del pendio roccioso si erano formate gole che più a monte si allargavano in avvallamenti erbosi. Di tanto in tanto i cavalli del circondario si radunavano in mandria lì – «sul Ciglio», come diceva la gente – oppure lungo le rive dei ruscelli o sui prati in prossimità del mare. Ma Nevischio, ormai aduso ai tanti vezzeggiamenti della gente di Hlíðar, aveva preso l’abitudine di scendere dai monti – o risalire dai prati – trotterellando tutto solo fino alla sua fattoria, dove si strofinava contro lo stipite della porta e nitriva per chiamare chi era in casa. Non doveva attendere a lungo per ricevere un pezzetto di burro, se ce n’era. Era un piacere posare il viso sul suo muso, che era più vellutato delle guance di una vergine; ma le tenerezze prolungate non gli interessavano granché. Ottenuto ciò che voleva, ripartiva al trotto, per poi balzare di colpo al galoppo, come se si fosse spaventato, e non rallentava finché non aveva raggiunto la sua mandria.
A quell’epoca le estati islandesi erano lunghe. Al mattino e alla sera i prati erano talmente verdi da essere rossi, e di giorno gli orizzonti erano talmente azzurri da essere verdi. Ma in questo inopinato spettro cromatico, che nessuno considerava e nemmeno notava, Hlíðar nelle Steinahlíðar continuava a essere una di quelle fattorie del sud dell’Islanda in cui non accade nulla di ragguardevole: il fulmaro sorvolava le scogliere come ai tempi del bisnonno, sulle balze della roccia e nei crepacci crescevano rodiole e felci, angelica, felcetta fragile e botrichio. Dalle alture continuavano a piovere pietre come se uno spietato troll delle montagne stesse versando lacrime. In una fattoria poteva nascere un buon cavallo da sella ogni generazione, se si aveva fortuna; a volte nemmeno uno ogni mille anni. Dall’oceano, al di là delle sabbie e degli acquitrini, da mille anni si sentiva lo stesso mormorare. La beccaccia di mare arrivava dopo la schiusa delle uova, al termine della fienagione, con la sua calzamaglia rossa e il davantino di seta nera sopra la camicia bianca, marciava impettita sul fieno, fischiava e se ne ripartiva. Per tutti questi secoli Snati, il cane della fattoria, aveva conservato la sua fierezza quando avanzava al fianco del pastore seguendo le pecore da latte, ben pasciuto e con la lingua penzoloni. Nelle quiete giornate estive si sentiva dalla fattoria vicina il rumore dell’affilatura delle falci. Quando le vacche si stendevano sul prato, voleva dire che c’era pioggia in arrivo, soprattutto se stavano sullo stesso fianco; se invece si preparava un periodo di siccità, al tramonto muggivano undici volte di fila. Sempre la stessa storia.
Quando Nevischio compì tre anni, padron Steinar gli mise la cavezza per acciuffarlo più facilmente, e lo unì al gruppo dei cavalli da tiro che teneva in fattoria. Prima dell’estate si era abituato al finimento e aveva imparato ad avanzare fianco a fianco con i compagni. La primavera successiva il villico cominciò ad allenarlo a portare una persona in groppa, e poi a cavalcarlo al passo. Nelle notti chiare lo lasciava libero di scorrazzare per i terreni intorno. E quando il rumore degli zoccoli si avvicinava alla fattoria, tra la mezzanotte e l’alba, non sempre erano tutti a letto: poteva capitare che una bambina uscisse, nonostante l’ora, con un secchio di latte appena munto, accompagnata da un giovane vichingo a gambe nude, che dormiva sempre con l’ascia belligera sotto il cuscino.
«Esiste miglior...