E-Book, Italienisch, 218 Seiten
Laxness La base atomica
1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7091-376-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 218 Seiten
ISBN: 978-88-7091-376-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
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'Non vogliamo vendere l'Islanda!' Reykjavík, fine anni '40, il paese è appena uscito dalla guerra ottenendo finalmente l'indipendenza, ma gli USA, con un'allettante offerta, ne chiedono un pezzo per una base NATO. Il popolo grida, il governo complotta, gli americani premono, quando in città arriva la giovane Ugla, una Candide contadina, discendente diretta delle eroine delle saghe che ancora popolano le sue lontane valli del nord, armata del fascino e della freschezza del 'prodotto naturale', ma anche di allegria e sano buon senso, e decisa a trovare il suo posto indipendente nella vita. È lei che racconta le sue avventure quando entra come governante in casa del deputato Árland, con un harmonium come unico bagaglio: la sua educazione sentimentale in una luccicante società da operetta, tra cene segrete e sedute spiritiche, faccendieri arricchiti, figli di papà allo sbando, politici che giurano oggi quello che rinnegheranno domani, ma anche nel mondo sotterraneo delle cellule comuniste e di un organista filosofo che predica la vera rivoluzione, l'anarchia dell'arte e la libertà del pensiero. Scritto nel 1947 anticipando la realtà, censurato dall'Europa della guerra fredda, La base atomica rimane un romanzo di sorprendente attualità che, come sempre in Laxness, non si lascia etichettare. Una brillante denuncia politica e sociale che affronta l'emancipazione della donna, della cultura e di un'Islanda proiettata nel futuro con le sue forti radici nel passato. Un capolavoro di poesia e umorismo firmato da chi ha visto ogni sogno venduto, ma ama troppo l'umanità per disperare, per non trovare almeno un mazzo di fiori da cui ripartire.
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Tempesta nella minestra
A cena chiesi se qualcuno voleva comprare dei biglietti della lotteria per il Centro Giovanile. A quel tavolo non si era mai sentita una simile spiritosaggine da quando la nuova cameriera aveva annunciato che intendeva imparare a suonare l’organo. La minestra sprizzò fuori dalla bocca dei due figli di mezzo. Il maggiore, assunto a tempo pieno alla ditta Sofferenze Universali, si limitò ad alzare su di me uno sguardo di compatimento misto a nausea. La signora sulle prime mi fissò senza parole, poi si schiarì la gola in modo sinistro; il marito si riscosse dalla lettura del giornale, con un’aria stanca come se avesse dormito male, e fece: “Eh?”
“Vende biglietti per un Centro Giovanile”, disse il grassottello.
Il dottore chiese di poterli vedere e gliene mostrai uno: su una faccia c’era l’immagine di un edificio, sull’altra la lista dei premi.
“La ringrazio”, disse, restituendomi il biglietto con quel suo sorriso stanco, tuttavia fui contenta di vedere un brillio sui suoi occhiali e lo smalto bianco dei denti. “Ne abbiamo discusso in parlamento”, aggiunse poi, “e anche al consiglio comunale.”
“Scusi, dov’è che ha trovato queste cartacce, mia cara?” chiese la moglie.
“Sono andata in panetteria, durante quell’agitazione, e mi sono fermata a parlare con la ragazza…”
La signora m’interruppe: “Ho sentito dire che è una comunista.”
“Con lei c’era un giovanotto che mi ha chiesto se volevo prendere qualche biglietto”, proseguii.
“Sono comunisti”, confermò la signora.
“A proposito, cos’è successo durante quell’agitazione?” chiese il marito.
“Be’, non è che si stessero agitando poi tanto”, risposi.
“Oh, eccome”, disse il grassone. “Erano i comunisti.”
“C’era un gruppetto di gente che diceva: Non vogliamo vendere l’Islanda! Mi hanno detto che erano quelli dei corsi di formazione per insegnanti e dell’Associazione della Gioventù Cristiana.”
“Ah, ecco, allora non occorre chiedere altro”, commentò la signora. “Ogni volta che spargono la voce che è stato qualcun altro, si può star certi che erano loro. Sono bravissimi a sobillare i citrulli. Corsi di formazione per insegnanti e Associazione della Gioventù Cristiana? Questa sì che è buona. E perché non il circolo femminista e l’Associazione Luterana per le Missioni in Cina? Le consiglio di disfarsi quanto prima di questi biglietti. Altro che Centro Giovanile, quella è una cellula.”
“Posso vederli?” chiese il grassottello. “Posso tenerli?”
Io stavo dietro la sedia della dolce signorinella che, a sorpresa, mi conficcò le unghie affilate nell’incavo del ginocchio, guardandomi in tralice con quegli occhi di fiamma ghiacciata, ma non avevo idea se fosse favorevole o contraria al Centro Giovanile.
In buona fede porsi al ragazzino un biglietto.
“Tutti”, ordinò.
Ma proprio mentre li stava prendendo, si levò una mano luccicante di diamanti e braccialetti, che li arraffò: era quella della signora. E in un batter d’occhio li strappò per il lungo e per il largo, gettando alle proprie spalle i pezzetti che volarono attraverso la porta pieghevole fino nell’altra stanza. Dopodiché mi lanciò un’occhiata gelida e disse senza troppe cerimonie: “Se ricomincia a fare propaganda comunista in questa casa, la licenzio.”
Poi si portò alla bocca una cucchiaiata di minestra.
Il figlio maggiore, che aveva l’abitudine di fumare tra una portata e l’altra, prese una sigaretta, la fronte corrugata, gli angoli delle labbra piegati ingiù, in un incommensurabile disgusto verso la minestra. “È inutile scaldarsi tanto, mamma”, disse. “Il fascismo è stato sperimentato, e non ha funzionato: il comunismo conquisterà il mondo, lo sanno tutti. .”
Lei drizzò la schiena, lo guardò dritto negli occhi e con la sua glaciale durezza da porcellana disse: “Ragazzo mio è arrivato il momento di mandarti al manicomio.”
“L’ho creato io, questo mondo in cui mi hai messo?” chiese il giovane in tono distaccato, continuando a fumare.
“E sarebbe ora che io ti dicessi anche qualche altra cosetta, figlio mio”, cominciò la donna, elevandosi a tali vette inaccessibili che il marito si riscosse dalla lettura del giornale e sorrise, posandole una mano sulla sua. A quel punto lei perse il filo e così diresse l’arringa verso di lui: “Ah, sorridi? Sì, magari hai anche un bel sorriso, peccato che in questo caso sia fuori luogo.”
“Dúlla cara”, disse il marito in tono supplichevole.
Io uscii dalla sala da pranzo, attraversai la cucina senza fermarmi, salii in camera mia mentre la famiglia era ancora a metà minestra, e cominciai a riflettere. Non sarebbe stato meglio fare le valigie? Ma quando stavo per raccogliere i pochi vestiti che avevo mi venne in mente che, se me ne fossi andata, non avrei avuto un posto dove dormire; né dove mettere l’harmonium. Quanto è possibile sacrificare per orgoglio? Tutto, ovviamente, se si ha orgoglio a sufficienza. Poche cose sono più grame che lasciarsi calpestare, forse nessuna… a parte restare all’addiaccio. Ed ecco la cuoca alla porta, che mi chiede se, per amor del cielo, non voglio sbrigarmi a servire il .
Quando tornai in sala, dopo aver ingoiato la rabbia e ripreso il contegno, la famiglia aveva finito la minestra e si era chiusa in un silenzio forzato; il dottore aveva ripreso a leggere il giornale. Raccolsi i piatti vuoti, servii la portata successiva e uscii. I biglietti della lotteria per il Centro Giovanile erano per terra, e lì li lasciai.
Dopo cena c’era silenzio in casa, i figli di mezzo erano usciti e si erano piazzati all’angolo della casa con i figli del primo ministro e altri rampolli di buona famiglia, a lanciare improperi ai passanti, un gioco che poteva tenerli impegnati per ore la sera; il figlio maggiore partì per destinazione ignota. L’elfetta della cuoca, quella timorata di dio, aveva due bambolotti meccanici che si facevano la pipì addosso, chiamati «bevibagna», due tesorucci da servire e riverire prima di recitare le tiritere su Gesù. E la signora era uscita in compagnia a giocare a quella specie di che chiamano , in cui ogni giocatore dice agli altri che cos’ha in mano prima di calare la prima carta. A me erano già passati i fumi della rabbia.
Dopo essere rimasta per un bel pezzo seduta all’harmonium, alle prese con queste ditone ribelli e inette a qualunque arte, finalmente mi riscossi e vidi che la porta era spalancata, e che sulla soglia c’era qualcuno; lì per lì credetti di avere le traveggole. Mi guardava un po’ aggrottato, si stava pulendo gli occhiali e sorrideva. Mi sentii raggelare, poi infiammare; mi alzai, ma le ginocchia non mi reggevano e mi si annebbiò la vista. E giuro su quanto ho di più caro che non mi era mai successo in vita mia.
“Ho sentito suonare”, disse.
“Non mi prenda in giro…”
Mi chiese chi fosse il mio maestro e io feci il comunissimo nome dell’organista.
“Ah, adesso fa anche l’organista?” commentò il dottor Búi Árland. “Be’, perché no? È sempre stato molto più avanti di noi, tanto più avanti che ha preso l’abitudine di dormire di giorno per non dover guardare questa tremenda società di delinquenti.”
“Coltiva fiori”, dissi.
“Bello svago. Piacerebbe anche a me coltivare fiori. Quando io leggevo i giornali, lui leggeva gli scrittori del Rinascimento italiano in lingua originale; ricordo che diceva di voler ignorare le notizie sulla guerra per vent’anni, finché non fosse stato possibile leggerne la storia in due minuti in un’enciclopedia. Mi fa piacere che coltivi fiori. Secondo lei dovrei mandargli i miei figli? Pensa che potrebbe fare di loro delle persone adulte?”
“Non è una domanda da poco”, risposi. “Non sa che io sono la cosa più stupida che ci sia in Islanda, e che non ho un’opinione su niente… men che meno in sua presenza.”
“Lei è una con i piedi per terra”, disse con un sorriso. “Posso vedere la sua mano?” Dopo averla esaminata, aggiunse: “Grande, ben fatta.”
Mi sembrava di andare arrosto, ero in un bagno di sudore, per il solo fatto che mi esaminasse la mano.
Si mise gli occhiali sul naso con un gesto automatico. Poi s’infilò una mano in tasca, tirò fuori cento corone e me le diede. “I suoi biglietti della lotteria.”
“Costavano in tutto cinquanta corone”, dissi io. “E non ho da darle il resto.”
“Me lo darà un’altra volta.”
“Io non accetto soldi in regalo.”
“Non si preoccupi, nessuno dà mai tanto, se può permettersi di meno. È una legge di natura. Io sono...