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E-Book, Italienisch, 539 Seiten
Reihe: Narrativa
Laxness La campana d'Islanda
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-7091-579-2
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 539 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-579-2
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È il periodo più buio della storia d'Islanda, soggiogata dal regno danese e martoriata dalle carestie, quando un giorno d'estate di fine Seicento il boia del re, su ordine di Copenaghen, porta via l'antica campana di Þingvellir, che da sempre veglia sulle assemblee dell'Alþingi e sulla vita della nazione, e poi viene trovato morto. Comincia così la picaresca avventura del contadino Jón Hreggviðsson, povero diavolo e irriducibile canaglia, zotico e poeta abituato ad affrontare ogni avversità declamando versi arguti e rievocando le gesta dei suoi avi vichinghi, che si ritrova accusato di omicidio. Pedina di una partita fra intrighi politici e ideali più grandi di lui, Jón intreccia la sua sorte a quella dell'amore impossibile tra la bellissima Snæfríður «Sole d'Islanda» e l'erudito Arnas Arnæus: lei ambita figlia di un potente eppure inafferrabile ribelle, con l'indole femminista delle eroine delle saghe, pronta a cadere in disgrazia pur di decidere per se stessa; lui votato alla missione di raccogliere tutti i preziosi manoscritti dell'età antica, preservando la poesia con cui il suo popolo riscatterà l'onore perduto. Il genio narrativo di Laxness racconta l'anima di un Paese e la sua lunga lotta per l'indipendenza attraverso questi tre indomiti, memorabili personaggi, accomunati da un'ostinazione cieca, a un tempo epica e grottesca, che li eleva a grandi eroi tragicomici. Combinando humour e pathos romantico in una vivida ricostruzione storica che a tratti si popola di orchesse e rune magiche e si colora di leggenda, La campana d'Islanda è il romanzo-monumento di una nazione, considerato tra i capolavori della letteratura nordica del Novecento.
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1
Ci fu un tempo, dicono i libri, in cui il popolo islandese possedeva un unico bene valutabile in denaro. Una campana. Questa campana stava sulla facciata della corte di giustizia di Þingvellir sull’Öxará, appesa alla trave di colmo. La si suonava all’inizio delle udienze e alla fine delle esecuzioni capitali. Era talmente antica, la campana, che nessuno ne conosceva più l’età precisa. Ma al principio di questa storia era crepata da molto tempo ed erano piuttosto anziani quelli a cui pareva di ricordarne un rintocco più limpido. Eppure i vecchi erano affezionati alla campana. In presenza del governatore generale, del magistrato e del boia, dell’uomo da decapitare o della donna da annegare, era spesso possibile, nelle quiete giornate di mezz’estate, alla brezzolina che spirava dalle cime delle Súlur o al profumo di boscaglia dei Bláskógar, udire l’eco della campana mescolarsi al mormorio delle acque dell’Öxará.
Ma l’anno in cui un’ordinanza ingiunse agli islandesi di consegnare al re tutto l’ottone e il rame, perché occorreva ricostruire Copenaghen dopo la guerra, vennero mandati uomini anche qui, a far visita all’antica campana di Þingvellir sull’Öxará.
Pochi giorni dopo lo scioglimento dell’Alþingi,1 dalla via a ovest del lago giunsero due uomini con alcuni cavalli da soma, discesero il pendio della faglia al di là della foce del fiume e attraversarono il guado. Smontarono di sella al margine del campo di lava davanti al tribunale, l’uno pallido e con guance paffute, occhi piccoli e braccia conserte come i bambini quando giocano a fare i gran signori, in una veste gentilizia sdrucita che gli andava troppo stretta; l’altro scuro, cencioso e brutto.
Dal campo di lava arriva un vecchietto con il suo cane e si para di fronte ai viandanti.
«E chi sono lorsignori?»
Quello grasso risponde: «Io sono il mandatario di Sua Maestà e suo boia.»
«Nientemeno», borbottò il vecchietto con una voce roca che sembrava venire da lontano. «Però chi comanda è il Creatore.»
«Ho una lettera patente», disse il mandatario del re.
«Immagino», rispose il vecchietto. «Ormai tutti hanno lettere. Ogni sorta di lettere.»
«Mi dai del bugiardo, vecchiaccio?» ribatté il mandatario del re.
Al che l’anziano non si arrischiò ad appressarsi ai viandanti, ma si sedette sul muretto cadente che circondava il terreno del tribunale e li osservò. Non aveva nulla di diverso da qualunque altro vecchietto: barba grigia, occhi rossi, berretto a tubo, gambe nodose, mani livide strette intorno al bastone a cui si appoggiava con sguardo vacillante. Il suo cane procedette oltre il muretto e annusò gli uomini senza abbaiare, com’è costumanza dei cani dalla ferocia dissimulata.
«Una volta nessuno aveva lettere», mormorò l’anziano fra sé e sé.
Allora il moro che accompagnava il pallido esclamò: «Ben detto, compare. Gunnar di Hlíðarendi2 non aveva nessuna lettera.»
«Tu chi sei?» chiese l’anziano.
«Ah, è un ladro di fili da pesca di Akranes, è rimasto chiuso nella Furfantaia di Bessastaðir fin da Pasqua», rispose il mandatario del re, dando un calcio rabbioso al cane.
Il moro prese la parola con un sogghigno che fece baluginare i denti bianchi. «Ecco il boia reale di Bessastaðir. Tutti i cani gli pisciano addosso.»
L’anziano sul muretto in rovina non disse nulla e nemmeno la sua espressione rivelò alcunché, ma continuò a osservarli battendo appena un poco le palpebre con uno sguardo esitante.
«Arrampicati quassù, Jón Hreggviðsson, pendaglio da forca che non sei altro», ordinò il boia reale, «e recidi la corda che regge la campana. Mi viene da ridere se penso che il giorno in cui il mio Graziosissimo Sovrano mi ordinerà di legarti la corda al collo in questo posto, non suonerà nessuna campana.»
«Niente sbeffeggi, bravi giovani», disse l’anziano. «Questa è una campana antica.»
«Sei un uomo del prete?» disse il boia reale. «Allora digli da parte mia che qui non sentiamo ragioni. Abbiamo procure per requisire diciotto campane, diciannove con questa. Le facciamo a pezzi e le carichiamo sulla nave che parte da Reykjavík. Non devo rendere conto a nessuno se non al re.» Prese un pizzico dalla tabacchiera senza offrirne al compagno di viaggio.
«Iddio benedica il re», disse il vecchietto. «Tutte le campane di chiesa che una volta erano del papa sono adesso del re. Ma questa non è una campana di chiesa. Questa è la campana d’Islanda. Io sono nato qui, sulla piana di Bláskógaheiði.»
«Hai tabacco?» chiese il moro. «Questo boia d’un boia non si spreca a offrirne un pizzico.»
«No», rispose l’anziano. «Noi di qui non ne abbiamo mai avuto, di tabacco. È stata un’annata dura. I miei due nipoti sono morti a fine aprile. Io sono avanti negli anni. Ma questa campana è sempre appartenuta all’Islanda.»
«Hai un attestato che lo provi?» domandò il boia.
«Mio padre nacque qui, sulla Bláskógaheiði», disse il vecchietto.
«Niente appartiene a nessuno senza un attestato», disse il boia reale.
«Credo che stia scritto in certi vecchi libri», disse l’anziano, «che quando quelli del continente arrivarono su questa terra inabitata trovarono la campana in una grotta sul mare, insieme a una croce che poi è andata persa.»
«La mia lettera è firmata dal re, dico io», ribatté il boia. «E tu, ladro d’un moro d’un Jón Hreggviðsson, fila subito sul tetto.»
«Questa campana non può essere fatta a pezzi», disse il vecchietto alzandosi. «Non può essere portata alla nave a Reykjavík. Accompagna l’assemblea dell’Öxará fin da quando è stata fondata, ben prima dell’epoca del re; anche prima di quella del papa, secondo certuni.»
«Non m’interessa», disse il boia reale. «Copenaghen risorgerà. È infuriata una guerra, e gli svedesi, servitori del demonio e popolo ripugnante, hanno preso la città a colpi di bombarda.»
«Mio nonno abitava a Fíflavellir, laggiù, in mezzo alla Bláskógaheiði», disse il vecchietto, come se stesse per raccontare una lunga storia. Ma venne interrotto.
Mai sovrano dal braccio possente vorrà
affibbiare una bella spilla
affibbiare una bella spilla…
Il ladro moro Jón Hreggviðsson, a cavalcioni della tettoia con i piedi che sporgevano in fuori, stava intonando le Rímur di Pontus anteriori. La campana era fissata alla trave con una fune robusta. Lui la recise con un’accetta e la campana cadde sul lastricato davanti alla porta dell’edificio.
… affibbiare una bella spilla,
a men ch’ella sia giovane e ri-i-icca!
«E adesso salta fuori che il mio Graziosissimo Signore Ereditario si sarebbe preso una terza concubina», aggiunse Jón Hreggviðsson dalla cima della tettoia, come per annunciare la notizia al vecchietto, poi guardò il filo della lama dell’accetta. «E pare sia la più grassa di tutte. Ecco la differenza fra me e Siggi Snorrason.»
Il vecchietto non rispose.
«Queste parole ti costeranno care, Jón Hreggviðsson», disse il boia.
«Gunnar di Hlíðarendi non sarebbe certo scappato di fronte a un trippone smorto di Álftanes», disse Jón Hreggviðsson.
Il pallido mandatario prese dal bagaglio un mazzuolo, sistemò l’antica campana d’Islanda sul lastricato, lo levò in alto e le diede una martellata. Ma quella non fece altro che scivolare leggermente di lato con un gemito sordo.
Jón Hreggviðsson gridò dalla tettoia: «“Sul morbido le ossa non si spezzano, brav’uomo”, diceva Björn di Öxl.»3
Ma quando il boia reale ebbe riposizionato la campana in modo da colpirla sul bordo interno, ecco che quella si spaccò in due. Il vecchietto era tornato a sedersi sul muretto diroccato. Con lo sguardo vacillante e perso nel vuoto strinse le mani nodose intorno al bastone.
Il boia prese un altro pizzico di tabacco. I talloni di Jón Hreggviðsson spuntavano dalla tettoia.
«Hai intenzione di cavalcare l’edificio fino a sera?» gridò il boia al ladro.
Dal tetto del tribunale Jón Hreggviðsson cantò:
Mai con braccio possente vorrò
affibbiare la giovin spilla
affibbiare la giovin spilla
a men ch’ella non sia grassa e ri-i-icca!
Raccolsero i frammenti in una sacca, che appesero al pomolo di una sella, dall’altra parte rispetto al mazzuolo e all’accetta. Poi rimontarono in groppa. Il moro partì per primo trainando per le redini anche gli altri cavalli in fila. Il pallido seguì lasciandosi condurre secondo creanza.
«Arrivederci, rimbambito dei Bláskógar», disse. «Porta i miei saluti – e quelli di Dio – al parroco di Þingvellir, e digli che è passato di qui Sigurður Snorrason, mandatario e boia di Sua Altezza Reale.»
Jón Hreggviðsson cantò:
Avanza, avanza con i suoi
il fiero sovrano, e con fanciulle
il fiero sovrano, e con fanciulle
il fiero sovrano, e con fanciulle,
frangon ferro gli stallo-o-oni.
Uno dietro l’altro se ne tornarono da dov’erano venuti, oltre il guado dell’Öxará, su per la scarpata al di là della foce e lungo il sentiero a ovest del lago...