Laxness | Sette maghi | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 124 Seiten

Laxness Sette maghi


1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7091-433-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 124 Seiten

ISBN: 978-88-7091-433-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Epico, ironico, poetico, provocatore, è l'inclassificabile mondo di Laxness a rivivere in questa raccolta di novelle, che brillano del fascino e della potenza narrativa dei suoi grandi romanzi. Il lungo viaggio di Zh?ng Qi?n per scoprire le terre incantate dell'India; il garzone d'albergo di Reykjavík che in una nazione senza esercito sconfigge i fascisti e l'aviazione italiana; il sogno di gloria di un giovane contadino che diventa il nuovo Napoleone chiudendosi in un ovile; il dottor Anakananda, profeta di Bruxelles, guida spirituale per corrispondenza e procuratore di Nobel su commissione, che campa sulla superstizione innata nell'uomo diffondendo felicità. Otto storie che danno voce all'Islanda - con i suoi miti e le sue solitudini foriere di sogni, misteri e ingenue saggezze - ma spaziano in terre lontane, dalla Cina imperiale alla Sicilia degli anni Venti, alla Mongolia di Gengis Khan, intessendo la Storia con il quotidiano, la leggenda con esperienze autobiografiche, uno sguardo acuto sulla società e una comprensione profonda dell'animo umano. E che hanno come sotterraneo filo conduttore la «magia» di cui è capace ogni protagonista, intesa come quelle piccole straordinarie imprese che l'uomo sa compiere, nel mondo o dentro se stesso, quando ha la vocazione di andare oltre i confini ammessi, le regole imposte, i facili conformismi, o la sensibilità di accettare i propri limiti. Con lo stesso genio Laxness crea questi otto prodigi letterari. Sette maghi: l'ottavo, viene da dire, non può che essere lui.

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Þórður il vecchio zoppo


L’abbiamo conosciuto tutti, il vecchio zoppo Þórður, quando lavorava all’essiccazione del pesce o alla manutenzione delle strade, abita qui in città da tanto tempo, e alle riunioni del Sindacato Dagsbrún si siede dove non dà nell’occhio, spesso con la tabacchiera in mano, la barba di un mese o giù di lì. Ha un’aria bonaria e un’espressione paziente, e da come sta seduto si vede benissimo che non è molto abituato a sedersi. No, non c’è proprio abituato. È originario dell’est del paese, dell’Austurland, e laggiù ha svolto lavori di ogni genere, per terra e per mare, ad esempio ha costruito una fattoria e l’ha mandata avanti per dieci anni, ma questa è tutta un’altra storia che non ho intenzione di raccontare adesso, e benché molti facciano del sarcasmo su chi si trova a dover abbandonare i propri terreni, io non voglio fargliene una colpa, chissà mai che non abbia le sue buone ragioni.

Viene chiamato «Þórður il vecchio zoppo», perché zoppica un po’. Una volta ha avuto un incidente, mi pare che sia caduto quand’era a bordo di una nave, e da allora appunto zoppica leggermente, ma la cosa non gli è di grande impedimento. Se mai trovo più preoccupante che, pur partecipando regolarmente alle riunioni del Sindacato e dando l’impressione di ascoltare con molto interesse quello che si discute, si direbbe che capisca ben poco delle dottrine di Marx e Lenin sul fatto che gli operai debbano prendere il potere, sradicare il capitalismo e godere in prima persona dei beni che sono sempre loro a produrre. Un tempo sospettavo che non credesse nemmeno alla metà di ciò che dicevano i capi del Sindacato, e che di quella metà che credeva ne mettesse in pratica ancora meno. E ogni tanto mi ponevo inconsciamente la domanda: Cos’è che rafforza il suo vigore e affila la sua volontà? Cos’è che rallegra le sue speranze e ravviva il suo coraggio?*

Abita da molto tempo, come dicevo, nel sottotetto di una vecchia casa qui in città, all’inizio viveva lì miseramente con la moglie, Dio l’abbia in gloria, e i due figli maschi, ma poi la moglie è morta e non so di preciso che fine abbiano fatto i figli, sospetto che non lo sappia nemmeno lui, mentre di sua figlia, che ha sposato un marinaio di qui, mi ha perfino raccontato che ha tre figli e mi ha detto come si chiamano e che bambini sono, e sono dei bravi bambini. Sono andato a trovarlo ogni tanto, da che è rimasto solo; si cucinava i pasti da sé su una stufa a cherosene e magari mi offriva il caffè, allora gli parlavo dell’Austurland, di come andavano le cose nella fattoria che aveva gestito e poi abbandonato, ma questa, come dicevo, è un’altra storia. Ogni tanto portavo il discorso sul movimento sindacale e sulle lotte che è necessario condurre prima che la classe operaia possa prendere il potere e cominciare a governare la nazione badando ai soli propri interessi, come insegnavano Marx e Lenin, e non a quelli altrui. Ma raramente ho conosciuto un uomo meno combattivo, non aveva mai torto un capello a nessuno, diceva, non aveva mai preso parte a una lotta, se non a quella che non cessa mai, la lotta per la vita, che la gente conduce per la miserevole ricompensa che tutti sappiamo. No, a lui non sarebbe mai saltato in mente di picchiare qualcuno, nemmeno dietro ricompensa. Voleva fare le cose come si deve. È una delle persone più miti che io abbia mai conosciuto. «Sono i bolscevichi a rovinarci la piazza», ripeteva. «A forza di insolenze e pagliacciate aizzano i maledetti capitalisti contro di noi, lasciandoci con un pugno di mosche; invece di fare le cose come si deve. L’unico modo per ottenere qualcosa è fare come si deve. Quelli sono fomentatori e casinisti, che vogliono decidere tutto loro e seminano ovunque zizzania.»

«Però hanno conquistato metà di due continenti», obiettavo io.

«Eh?»

«Hanno conquistato tutta la Russia, dal Baltico al Pacifico. E in tutta quell’area non c’è più neanche un borghese, hanno spazzato via il capitalismo. È il regno degli operai e dei poveri contadini.»

«Mah, non saprei», diceva lui. «Io non mi occupo di quello che succede all’estero. Però so che qui non perdono occasione per aizzare i capitalisti contro di noi con le loro chiacchiere, e avanzano pretese tali che a nessuno verrebbe mai in mente di accontentarli; invece di fare tutto come si deve; di portare avanti la causa senza fare troppo chiasso. Sono una macchia sul movimento operaio.»

«Già», osservavo io. «Però hanno ottenuto quello che rivendicavano nel paese più grande del mondo.»

Allora lui, tutt’a un tratto, perdeva la pazienza e diceva: «Che si vergognino, quei senzadio. So da una donna degna di fede che fanno sterminare il clero, tanto i preti quanto i vescovi. E a chi altri dovrebbe rivolgersi un’anima in difficoltà, se non a Dio?»

Infatti la domenica andava sempre alla chiesa libera ad ascoltare i sermoni spassosi e stravaganti che vi si tengono per fiaccare la tempra degli operai. Ma diceva che ad affascinarlo erano soprattutto i canti. In compenso non era mai stato al cinema, perché provava un radicato disprezzo per i luoghi dove la gente va a buttare i soldi dalla finestra. Però non dimenticherò mai quanto era contento quella domenica sera che aveva dato ai nipoti tre corone per andare al cinema; tre corone sono una bella sommetta, in questi tempi difficili. «Cosa non si fa per i bambini», ha detto con un sorriso, meravigliandosi di se stesso. «Questi benedetti bambini.»

Ma all’inizio della primavera, era tre anni fa, quindi nella primavera del 1932, nella vita di quest’operaio zoppo è accaduto qualcosa che ha avuto degli strascichi. C’è stato un decesso. Il marinaio, suo genero, è morto, giustappunto quella primavera, e ci sarebbe da aspettarsi che fosse annegato, e invece no, è morto e basta, di qualche malattia. Ha lasciato tre figli e una vedova incinta del quarto. In eredità invece non ha lasciato proprio niente, a parte la città. Sono molti gli operai che non lasciano altro che la città, ovvero la speranza che i figli in quella città trovino un posto, la famosa città che appartiene ai borghesi ma che è stata costruita dagli operai, quella splendida città in cui gli operai hanno lastricato tutte le strade e sulle quali hanno il permesso di camminare senza che nessuno li guardi di traverso, tranne il 1° maggio, ovviamente, perché in quella data si considera un mezzo sgarbo che marcino per le strade, così arrivano i figli dei borghesi con le croci uncinate e la polizia con i manganelli, a dire agli operai di andarci piano quando marciano per le strade lastricate da loro in mezzo alle case costruite da loro. Come dicevo, è quest’incantevole città l’eredità lasciata dal marinaio ai suoi figli.

Ma è stato il vecchio zoppo Þórður a spalancare le sue porte ai famigliari, e a dire che andassero pure a mangiare da lui, anziché lasciare che fosse la città ad accoglierli e la cristiana giunta comunale a invitarli a cena. E così si sono trasferiti tutti quanti e si sono seduti alla sua mensa. È a questo genere di attività che ci si riferisce, quando si parla di solidarietà internazionale della classe operaia, probabilmente perché esiste in tutti i paesi. Proprio in quel periodo è stato assunto dall’ente per la manutenzione delle strade. Quella primavera sono andato a trovarlo una sola volta, per salutarlo perché stavo per partire. C’erano anche i nipotini, che hanno parlato un po’ con me, erano bravi bambini come diceva lui, invece la vedova aveva un po’ paura di me, perché agli operai viene insegnato che quelli che lavorano con il cervello sono più signori di quelli che lavorano con le mani. Ma il vecchio zoppo Þórður le ha spiegato che non doveva avere alcun timore.

«Eh, sì, mio buon Þórður», gli ho detto. «Sono venuto a salutarti. Parto per l’Unione Sovietica.»

«Nientemeno?» ha chiesto lui.

«È il paese più grande del mondo», ho proseguito come per giustificare quel mio progetto di viaggio.

«Sì, è così che parlate voialtri», ha commentato.

«È l’unico paese al mondo in cui gli operai e i contadini poveri abbiano preso il potere nelle loro mani», ho fatto notare.

«Già», ha detto lui. «Mi pare di riconoscerlo, il tono di voialtri ragazzi istruiti, o semi-istruiti, che non avete nessun senso di responsabilità e credete che basti sbraitare: “Rivoluzione, rivoluzione”, e “Russia, Russia”, e provocare i capitalisti a tal punto che adesso si sono messi ad addestrare squadracce di teppisti che prendano a manganellate noi operai. Siete voi, palloni gonfiati e irresponsabili, a istigare questa gentaglia. Invece di fare le cose come si deve. Dai retta a me, con i borghesi le maniere forti non servono a niente. Bisogna avanzare un passo alla volta.»

«In Unione Sovietica non ce ne sono di borghesi», ho ribadito. «Li hanno spazzati via. Là, nessuno si arricchisce sul lavoro degli altri.»

«Quelli sono dei senzadio», ha protestato lui. «Hanno massacrato il clero. Vogliono raggiungere i loro ideali con l’assassinio e l’omicidio. Io non ne voglio sapere, del bolscevismo. Voglio uno sviluppo pacifico.»

Alle parole «sviluppo pacifico», sono rimasto annichilito: mi suonavano talmente strane in bocca a un povero contadino dell’est che aveva dovuto abbandonare le sue terre. Dopo di allora mi sono arrovellato a lungo, domandandomi dove diavolo le avesse imparate. Poi è arrivato il 1° maggio di quest’anno, e come la volta scorsa gli operai hanno marciato in strada in due colonne nemiche, l’una che sbraitava «rivoluzione,...



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