E-Book, Italienisch, 417 Seiten
Lynch Perdersi è meraviglioso
1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-7521-562-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 417 Seiten
ISBN: 978-88-7521-562-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
David Lynch (1946) è uno dei massimi cineasti statunitensi degli ultimi decenni, vincitore di due Palme d'Oro a Cannes, due César e un Leone d'Oro alla carriera. Con film come Eraserhead e Inland Empire, passando per The Elephant Man, Velluto blu, Twin Peaks e Mulholland Drive, Lynch ha affermato negli anni un proprio personalissimo stile fatto di ambiguità, mistero, perversione, di situazioni vissute in un confine indistinguibile fra sogno e realtà. Gli autori di queste ventiquattro interviste - che ripercorrono l'intera carriera del grande regista, dal 1977 fino a oggi - scavalcano abilmente il riserbo quasi maniacale di Lynch sul significato dei propri film, riuscendo a farlo aprire a risposte mai scontate ma sempre penetranti, con ampie digressioni sulle altre forme artistiche che ama: dalla pittura alla musica, al design. Fra notazioni tecniche, aneddoti dal set, ricordi personali e vere e proprie dichiarazioni di poetica, queste pagine offrono un indimenticabile ritratto in presa diretta di uno dei registi più visionari e geniali della storia del cinema.
Weitere Infos & Material
INTRODUZIONE
DI RICHARD A. BARNEY
Per usare un’espressione alla buona, simile a quelle per cui David Lynch è famoso, si potrebbe dire che intervistarlo è in molti sensi come tentare di afferrare un serpente sinuoso, per quanto assai amichevole e loquace. Questo tratto della sua personalità e della sua carriera spiega perché la qualifica di , che spesso gli viene attribuita, non gli renda giustizia: Lynch ama conversare; prova un autentico divertimento nel raccontare storie, scambiare battute, improvvisare discorsi filosofici e via dicendo. Ben altra cosa, tuttavia, è per Lynch rivelare aspetti della sua vita privata o diffondersi sul significato dei suoi film, anche solo per esporre la sua personale visione di artista. Dunque Lynch non è tanto quanto : un bersaglio mobile per chi lo intervista, un conversatore accorto che spesso dice più cose tacendo che parlando; tutto ciò è il suo inconfondibile marchio di fabbrica.
Sono varie le ragioni per cui intervistare Lynch può essere un’esperienza tortuosa e ondivaga, e la principale è la sua documentata difficoltà col linguaggio. Sia Lynch sia le sue ex mogli e compagne hanno fatto riferimento più volte al suo cosiddetto «stadio preverbale» degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, durante il quale anche le comunicazioni relativamente più semplici fallivano a causa della sua apparente incapacità di usare le parole. Isabella Rossellini, per esempio, ha descritto numerose occasioni nelle quali, in risposta a una domanda o a un’osservazione, anziché formulare frasi coerenti Lynch allargava le braccia in gesti vaghi o produceva sibili con le labbra. Al riguardo lui stesso, durante una conversazione (del 2008) inclusa in questo volume, mi ha raccontato fra le altre cose che nelle sue prime interviste, soprattutto all’epoca di , «non avevo idea di cosa volesse dire parlare di qualcosa. Per cui non dicevo molto, e la cosa è andata avanti a lungo».
Naturalmente, come dimostrano le interviste qui raccolte, dagli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta Lynch ha compiuto uno sforzo deciso per parlare dei suoi film in maniera sempre più efficace. Accantonando per il momento la questione di come gli intervistatori cerchino di addomesticare il suo personalissimo modo di esprimersi, c’è una chiara differenza, per esempio, fra le locuzioni imprecise e zoppicanti delle prime interviste sul e l’ e le conversazioni molto più composte e articolate con gli intervistatori del nel 1990 e del nel 1999. Ciononostante, Lynch rimane un regista che intrattiene col linguaggio un rapporto problematico: le sue frasi – sempre sostenute da un enorme entusiasmo – si muovono tuttora con un ritmo sincopato che può lasciare avvinti o sconcertati. E le espressioni popolaresche o gergali di cui sono infarcite le sue dichiarazioni – da «una favola» a «proprio fico» a «fantastico!» – hanno quasi sempre lo scopo di spiegare uno degli aspetti più difficili dei suoi film: quella che Lynch chiama «astrattezza», una suggestività atmosferica che per lui non va ridotta a una formula intellettuale o ingabbiata in una descrizione definitiva.
Questo ci porta al secondo motivo della ritrosia di Lynch a discutere le proprie opere, cioè l’impegno, fin dagli esordi, a creare un’estetica cinematografica basata sul valore essenziale del non-identificato e del non-detto. In quanto fautore dell’idea che i film possano e debbano far sognare gli spettatori, Lynch mira a produrre opere vividamente concrete ma anche evocative e misteriose, e in questo senso non meraviglia che fin dalla sua prima intervista del 1977, con Stephen Saban e Sarah Longacre, la parola sia una di quelle da lui usate con più frequenza. Non si tratta, però, del generico «mistero» che nel corso di una specifica narrazione verrà risolto o dissipato. Al contrario, lo scopo di Lynch è creare dei film misteriosi, tali cioè da indurre un senso di meraviglia che susciti e al tempo stesso frustri – in un ciclo potenzialmente infinito – il desiderio dello spettatore di dare un senso alle immagini e alle storie che gli vengono offerte. Questa preoccupazione, peraltro, fa sì che nelle interviste Lynch eviti accuratamente di dissolvere tale aura misteriosa fornendo quelle che lui percepisce come «soluzioni» superficiali agli enigmi creati dai suoi film. Nel 2001, per esempio, lo interrogai riguardo a e ottenni in risposta un lunghissimo silenzio. Quando gli chiesi se la mia domanda fosse troppo difficile, lui replicò con un secco: «No, è che non voglio dire troppo».
Altrove, durante un’intervista con Chris Hodenfield (non inclusa in questo volume), ha espresso il concetto in modo più articolato: «È molto pericolosa, l’industria del cinema. Perché nessuno saprà mai che film essere, se il regista deve parlarne e convincere la gente a parole».1 Dunque per Lynch è assolutamente necessario, discutendo dei suoi film, , nel vero senso della parola. Le circonlocuzioni non sono dettate da diffidenza o ritrosia, ma dalla volontà di lasciare che siano gli spettatori a ricavare il senso.
La combinazione dello sviluppo di abilità linguistiche con l’adesione ai propri principi estetici ha prodotto quella cosa spesso idiosincratica e sempre avvincente che è l’ In termini di contenuto, Lynch è più che disposto a parlare del processo di lavorazione dei suoi film, piuttosto che del significato di certi elementi precisi, sebbene esistano delle eccezioni notevoli a questa regola, come il suo perdurante rifiuto, fin dal 1977, di rivelare come abbia creato il «bambino» in Inoltre, come hanno ammesso in altri casi sia Lynch sia i suoi intervistatori, ogni discussione sull’origine di un singolo personaggio o elemento della trama può facilmente essere letta come una «guida» autorevole all’interpretazione delle sue opere: un’altra tentazione da cui Lynch si guarda sempre attentamente.
Col tempo, Lynch ha sviluppato un vocabolario dai significati speciali e, proprio perché si è sforzato tanto nel corso degli anni per crearlo, vi attinge costantemente quando parla dei suoi film, ma sempre spiegandoli solo fino a un certo punto. Spesso, per esempio, descrive alcuni aspetti dei suoi film come «bellissimi», «mozzafiato» o «magici»; come fondati su principi di «armonia», «contrasto» o «equilibrio»; grazie ai quali l’«umore» o l’«emozione» generati aiutano a creare un «mondo» di cui «ci si innamora» e che può «lasciare spazio a un sogno». L’ispirazione per alcune immagini particolari, così come l’emozione che esse vogliono suscitare, è spesso «nell’aria», un «dono» proveniente da una fonte che non può essere localizzata con precisione. Questi termini per Lynch non sono semplici formule di comodo bensì assumono sfumature diverse nel contesto della situazione o conversazione specifica e soprattutto, sebbene lui li definisca di rado, acquistano senso in virtù della frequenza con cui li adopera. Dunque proprio come Lynch, secondo cui la «grana» delle parole è tanto importante quanto il loro significato letterale, i lettori delle sue interviste devono disporsi ad avere pazienza, a raggiungere gradualmente la comprensione del testo per via intuitiva anziché soltanto analitica.
Se da un lato è inevitabile, quindi, che l’intervistatore e il lettore abbiano la sensazione costante che Lynch sappia più di quanto non dica, dall’altro emerge chiaramente dai testi qui raccolti che durante la lavorazione dei film Lynch preferisce spesso non sapere troppo sui possibili esiti. Come fa notare a Michel Ciment e Hubert Niogret, anziché ridurre un progetto a un’idea troppo semplificata, «è un bene non saperne troppo su quello che stai per fare». Questo approccio è condensato in modo chiarissimo nella metafora che Lynch usa probabilmente più di frequente per descrivere il processo con cui crea un film: il regista «pesca» delle «idee» che arrivano alla rinfusa e seguendo un ritmo tutto loro da un «oceano» di possibilità. Secondo Lynch, questa modalità fa sì che egli non abbia mai il quadro complessivo dei suoi film fin quasi dopo la postproduzione. Inoltre egli immagina che il suo compito consista principalmente nel mantenersi fedele a queste idee, e le contrappone alla nozione di «tema», che imporrebbe uno schema riduttivo alla capacità del film di svilupparsi in modo più organico (si leggano in proposito le osservazioni da me raccolte su nel 2001). Quando descrive in un’intervista come ha raccolto le idee per un certo film, Lynch evita di specificare quali fossero esattamente tali idee (sempre per timore di condizionare l’opinione degli spettatori) e soprattutto di rivelare quale ha avuto per prima, perché potrebbe essere adottata come fondamento o origine che spieghi tutto il resto. Dunque la natura enigmatica delle idee vale tanto per il regista quanto per i suoi spettatori-lettori. Come Lynch fa notare a Stuart Dollin, «credo che per me sia sempre questione di sensazioni o intuizioni. Non c’è troppa elaborazione intellettuale».
La terza ragione per cui le sue interviste sono serpentiformi, e tendono a scivolare in ogni direzione, risiede nel gran numero di ruoli artistici che Lynch di volta in volta ha ricoperto nella realizzazione dei suoi film, da a . Pur essendo famoso...