Magnason | La pietra del gigante | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 149 Seiten

Reihe: Narrativa

Magnason La pietra del gigante


1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-7091-772-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 149 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7091-772-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Nere distese di lava, bianchi ghiacciai, casette in legno e edifici brutalisti: l'Islanda dei racconti della Pietra del gigante è una terra di contraddizioni, in bilico tra un passato di ristrettezze, un presente ricco e un futuro incerto. L'Islanda del recente boom economico, che lentamente si riprende dopo aver capito che il mondo non è finito nella catastrofe nucleare tanto temuta durante la Guerra fredda, ma che anzi tutto è finalmente a portata di mano. Così, se nel racconto «2093» il bisnonno ha visto per la prima volta un albero a nove anni, perché nel Nord dell'isola non crescono, in «Wild Boys» rampanti imprenditori organizzano feste grandiose a Londra, tra droga ed eccessi, per liberarsi dal provincialismo della loro giovinezza. Una liberazione che spesso nasconde rimpianti e nostalgia: quella per un mondo raccolto e tranquillo, immune alle sirene del consumismo compulsivo. È la stessa scissione avvertita dal protagonista di «Dormi, amore mio», che vive una relazione in crisi con la donna che ama da quando è adolescente, o dall'architetto deluso della «Pietra del gigante», che si sente la marionetta di uomini ricchissimi e ancora più avidi: può esistere davvero un sentimento profondo e sincero in una società così satura di cose superflue? Con slancio civile e politico e la prosa lucida del grande narratore, Magnason sembra cercare la soluzione in una forma di amore che si nasconde nei gesti più semplici e non richiede spiegazioni: le mani di un bambino che frugano tra i Lego per trovare quelli più colorati, un vecchio che mostra al nipote una sterna artica, una ragazzina che salva un bombo dalla morte tra i ghiacciai.

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Un bombo


Avevo trovato un bombo in un mucchio di neve sporca e lo avevo messo in una scatola di fiammiferi. Nessuno l’aveva notato, del resto non te lo aspetti, un bombo, su montagne dove non cresce quasi nemmeno un filo d’erba. Era l’unico essere vivente che vedevo da giorni e avevo sentito di doverlo salvare. L’insetto cominciò a sbattere le ali e la scatola di fiammiferi che tenevo sul palmo vibrava come un piccolo rasoio. Era un buon segno, in effetti, perché poche ore prima sembrava moribondo, ma adesso ero preoccupata, il bombo sarebbe potuto morire dentro la scatola prima che riuscissimo a trovare un posto sicuro in cui liberarlo.

Asciugai la condensa all’interno del finestrino e guardai fuori. Non c’era niente da vedere, soltanto distese di sabbia nera, campi di lava e crateri, il cielo era coperto e di sicuro non c’erano più di cinque gradi. Papà disse qualcosa ma io non riuscii a sentirlo, eravamo a bordo della nuova Volvo Laplander, detta Lappi, che praticamente era una specie di trattore, un avanzo dell’esercito norvegese importato in Islanda nel 1981. Era a forma di scatola, con il motore sotto l’abitacolo e coperto da una lastra di ferro rivestita che divideva i sedili anteriori, e faceva un gran baccano. Era spaziosa e aveva due file di sedili posteriori. Mio fratello si era sdraiato sulla prima e io stavo dietro e venivamo sbatacchiati a destra e a sinistra quando la macchina sobbalzava sulle strade più dissestate.

Avevo trovato un modo per ammorbidire il viaggio, mi ero creata una specie di crisalide impilando bagagli e sacchi a pelo tutt’intorno a me e tirandomi un plaid sopra la testa. Così potevo rannicchiarmi al buio e ascoltare la radio, perché l’altoparlante posteriore della macchina era dentro il bozzolo.

Papà teneva sempre la radio accesa anche se raramente riuscivamo a sentirla, tra il rumore del riscaldamento, quello del motore e i disturbi di ricezione lassù negli altipiani. Sentivo stralci di previsioni meteorologiche, di lettura della Bibbia, di radiodrammi, qualche notizia sugli scioperi, qualcosa su un sottomarino nell’arcipelago svedese, sulle trattative sul disarmo e sui progetti per lo scudo spaziale, ma soprattutto sentivo un gran fruscio ronzante. Però anche i fruscii sembravano seguire uno schema, come se ogni tanto le oscillazioni avessero un ritmo. Sapevo che le onde radio erano invisibili e le immaginavo come quelle del mare, immaginavo che il fruscio s’infrangesse contro l’auto allo stesso ritmo della risacca. Me ne stavo nel mio bozzolo al buio e sentivo l’auto avanzare fendendo il rumore che colpiva il parabrezza, si ritirava e tornava a infrangersi. A volte il fruscio era seguito da una parola o una musichetta, e allora immaginavo che le canzoni e le parole fossero come i pesci che nuotavano in quel mare.

Quando per un attimo la radio si sintonizzò, distinsi urla e pianti agitati e le grida di persone terrorizzate che bussavano alla porta di un rifugio antiatomico: «Fateci entrare, ho qui dei bambini!» Poi si sentì il rombo delle sirene antiaeree. Il bombo cominciò a dimenarsi nella scatoletta. Volevo spegnere la radio, ma i comandi erano sul cruscotto. I miei genitori, sui sedili davanti, stavano discutendo e non ascoltavano la radio, avevano aperto lo stradario ma non capivo che cosa dicevano. Rimasi rintanata nel mio bozzolo ad ascoltare le sirene e le grida finché non ridiventarono un fruscio. Guardai dal finestrino nella speranza di trovare una piccola oasi verde per il bombo, ma fuori era tutto nero e morto.

Il ritrovamento di quell’insetto era l’unica cosa degna di nota degli ultimi giorni.

Io non volevo partire, ma la mamma non ci pensava neanche di lasciarmi a casa da sola, visto che avrei compiuto gli anni proprio in quei giorni. Non era una novità: facevamo sempre un viaggetto per il mio compleanno. Il giro era tutto un su e giù, ci spostavamo per le montagne in una carovana piuttosto numerosa. C’erano due Land Rover blu, una vecchia jeep Bronco verde e una Cherokee, una Scout gialla, una jeep russa e una Econoline blu con i sedili in velluto, spessi e morbidi. La nostra Laplander procedeva piano, quindi eravamo sempre gli ultimi della colonna. Il tizio che guidava la Cherokee chiamava papà «il professore»; io lo vedevo che la cosa lo irritava, anche se non ribatteva. Gli altri erano tutti idraulici, falegnami e tecnici aeronautici con la fissa per le auto e avevano passato l’inverno a ritoccarle.

Procedevamo sussultando sulle piste accidentate, c’era chi si piantava nei cumuli di neve e nei canali scavati sulle piste dall’acqua del disgelo, e intanto io guardavo fuori, il paesaggio, i brulli campi di lava, le sabbie nere e le distese di muschio. Le macchine a volte si fermavano in posti strani e con nomi strani, e allora dovevamo camminare all’infinito, su e giù per i pendii, in zone geotermiche piene di vapore che saliva da spaccature gialle e corsi d’acqua grigi e ribollenti, finché non arrivavamo sul ciglio di una cascata. La mamma ci teneva sempre forte per mano, anche quando il precipizio era a venti metri e le fumarole ancora più lontane. La sottile crosta di argilla avrebbe potuto cedere e io e mio fratello ci saremmo cotti i piedi, avremmo potuto rotolare giù da un ghiaione oppure scivolare in un fiume e sparire in un vortice torbido e spaventoso.

In quei luoghi dai nomi insoliti provavo una strana paura, nonostante le notti estive fossero luminose. Tutta quella vastità era inquietante e sentivo una presenza che non riuscivo a definire. La cosa peggiore era andare a fare la cacca dietro un masso – infilarsi gli stivali bagnati e trovare un riparo per calarsi pantaloni e mutande, un posto dove non ti vedeva nessuno, per poi andare nel panico quando sparivano tutti, e stare attenti a non farla sull’elastico e pulirsi ben bene, e allo stesso tempo lottare con l’impazienza di tornare di corsa in tenda perché là fuori c’era . Ma ero riuscita a tenerla per due giorni.

La vastità era infinita e la pista si snodava in un paesaggio brullo e aspro. I fiumi in piena erano di un grigio bruno e i loro mulinelli sembravano gobbe, come se sotto la corrente si nascondessero dei serpenti giganteschi. Erano troppo pericolosi per essere interessanti. Quando c’era da guadare un fiume mamma e papà erano tesi e dovevamo tenere aperti i finestrini anteriori. Quelli dietro non si potevano aprire, ma loro ci dicevano di slacciare le cinture e alzavamo le gambe quando l’acqua gelida filtrava dal fondo dell’auto. Allora pensavo a cosa avrei fatto se l’automobile fosse stata trascinata dalla corrente: chissà se sarei riuscita ad arrampicarmi sul tettuccio, o a uscire a nuoto se fossimo finiti in un gorgo o in una cascata. Mi immaginavo scenari in cui l’auto era ribaltata su un fianco e l’unico modo per uscirne era strisciare sotto i sedili e passare dal portello posteriore. Pensavo alle centinaia di varianti di un possibile incidente in cui l’auto veniva portata via dal fiume e in alcune riuscivo a salvare mio fratello, in altre no.

Seguimmo il convoglio per tre giorni e alla fine percorremmo il letto di un fiume in secca che si allargava in una piccola valle. Lì piantammo le tende in un pianoro circondato dalle montagne, talmente verdi di muschio da sembrare radioattive. Il terreno era nero e aveva l’aspetto della solita roccia, ma a guardarlo meglio era morbido, come se fosse un misto di materia vivente e pietra.

Chiesi a papà se esisteva un fenomeno simile, sperando di aver scoperto qualcosa di nuovo.

«Questa è solo roccia», mi rispose.

«Ma no, guarda», dissi, mostrandogli quant’era soffice quella pietra e i filamenti che aveva, simili a radici.

«Quello è muschio», mi rispose.

Era inutile discutere con lui. In un ruscello trovai del muschio che – ci avrei giurato – era fosforescente, ma quando poi me ne portai un pugno dentro il sacco a pelo della mamma scoprii che non lo era.

Nelle altre auto c’erano dei bambini, ma loro si addormentavano subito, in qualsiasi posto ci accampassimo. Si conoscevano tutti da tanto tempo; io invece non li vedevo da quando avevo due anni. Indossavano tutti delle tute Henson e Don Cano, mentre io dei pantaloni verdi marca Hummel con su lo stemma dello Hammarby, che non c’entravano niente. Eravamo appena tornati a vivere in Islanda e io parlavo ancora con l’accento svedese.

La mamma di solito ci proibiva di allontanarci dalla tenda, ma quella volta evidentemente si trattenne dal farlo e noi corremmo dietro agli altri ragazzi fino in fondo a una discesa circondata da ripide pareti di roccia. Ci trovai un deposito di pietre gialle con ossidiane e altre che sembravano tempestate di diamanti. Me le infilai in tasca e corsi da papà.

«Sono diamanti, questi?»

«No, sono cristalli», rispose.

«Sono preziosi?»

«No», disse, ma vedendo quanto ero rimasta delusa aggiunse:

«Però se a te piacciono sono preziosi.»

Tornai di corsa nel burrone e mi arrampicai su un cumulo di neve in cerca degli altri bambini. La neve era vecchia e coperta da granelli di sabbia nera grandi come quelli del sale che si sparge per strada. Fu allora che vidi l’insetto in mezzo al mucchio di neve. Era un bombo grande, giallo e nero e peloso. Non capivo come fosse finito in quel...



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