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E-Book, Italienisch, 443 Seiten

Martin Difficult Men

Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-3389-023-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv

E-Book, Italienisch, 443 Seiten

ISBN: 978-88-3389-023-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Sul finire degli anni Novanta, le serie televisive americane hanno riscritto le regole della narrazione classica. Uno degli aspetti più importanti di questa rivoluzione riguarda i personaggi rappresentati, non più eroi tutti d'un pezzo ma creature moralmente ambigue. Veri e propri antieroi sono, infatti, i protagonisti dei Soprano, di Mad Men, The Wire, Breaking Bad e Game of Thrones. Attraverso un racconto del dietro le quinte di queste serie e approfondite interviste a showrunner e autori coinvolti nella loro realizzazione, Difficult Men ricostruisce con grande abilità un inedito profilo degli antieroi seriali più significativi di questo inizio secolo. I villain delle serie tv riescono a suscitare la nostra empatia e ci permettono di calarci nei panni di chi si spinge oltre il lecito, ponendoci di fronte a dilemmi etici e a scelte sbagliate che non prenderemmo mai nella vita. Scopriremo inoltre che David Chase, Matthew Weiner, Vince Gilligan e David Simon, tra gli altri, sono persone reali complesse e interessanti quanto i personaggi da loro creati. Il dialogo diretto con gli autori consente a Martin di mettere a fuoco il valore di rottura di titoli che, come ha scritto il Guardian, possono essere considerati per la tv l'equivalente di Roth, Updike e Mailer per la narrativa e di Scorsese, Altman e Coppola per il cinema.

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PREFAZIONE
LA DUPLICE INQUIETUDINE DEL PROTAGONISTA E DELL’AUTORE


Quando nel 2007 il giornalista Brett Martin accettò l’invito di conoscere David Chase, il creatore dei , e di raccontare il backstage della serie, da alcuni anni la televisione era finalmente diventata uno dei centri dell’attenzione critica. Da quando il successo planetario di alcune serie tv le aveva proiettate nell’olimpo della classicità, si cercava di ragionare su questa forma narrativa, non certo inventata dal mezzo, ma che ora rivelava nuove dinamiche di creatività e ritmi inediti imposti dalla produzione industriale. Si rifletteva sul ricco repertorio di citazioni, attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, e sul bagaglio di strutture narrative «rubate» a modelli alti.

Una delle domande più ricorrenti era questa: la serialità ha sostituito il romanzo, gli ha tolto il ruolo egemone di testimone dello spirito dei tempi? Se continuiamo a cercare qualcosa in cui l’autore, attraverso dei personaggi, prende in esame alcuni grandi temi dell’esistenza, fornendo loro una lingua, allora forse era venuto il momento di dare un’occhiata non solo ai libri, al cinema, al teatro, ma anche ad altri media. Tipo la serialità americana. La fiction resta una delle poche riserve dove è possibile incontrare la «scrittura», quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia e montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia romanzesca. Intervenne anche Jonathan Franzen, buon ultimo, per ricordarci che le serie televisive «stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie tv...»

Negli Stati Uniti è sempre stato molto vivace il dibattito culturale sul ruolo della letteratura, e in particolare della tradizione del «grande romanzo americano» (si pensi ad autori come Philip Roth, Don DeLillo, appunto Franzen), nel fotografare il proprio tempo e restituirlo in tutta la sua complessità. L’aspetto più interessante di questo dibattito è che il termine di paragone che si evoca per descrivere la raffinatezza e l’articolazione dei romanzi coinvolge ora anche la televisione, chiamata in causa nel suo genere più nobile, ovvero la serialità «di qualità» che intanto si era espressa con opere come , , , , , ... Erano (sono) serie che avevano avuto la capacità, come e forse più dei romanzi, di restituire la complicatezza del reale, di esplorare temi cruciali per la sensibilità condivisa, di costruire un «racconto mondo», un universo narrativo completamente ammobiliato e arredato. Proprio il formato seriale di questi testi, basato su archi narrativi ampi, che si sviluppano per più stagioni e permettono di indagare in profondità la psicologia dei personaggi, di mostrare i collegamenti tra temi ed eventi, si era trasformato da una sorta di espediente retorico usato per fidelizzare il pubblico popolare (pensiamo a come funzionava il romanzo d’appendice a puntate) in una risorsa narrativa ricercata e raffinata. Nelle forme espressive della serialità e del romanzo, la cultura americana aveva (ha) trovato lo spazio ideale per dare forma di racconto allo sguardo sul mondo.

Quando nel 2007 ho pubblicato da Mondadori , il saggio uscì tra molte perplessità, quasi fosse un azzardo per la cultura italiana. Uno dei luoghi comuni più radicati e diffusi, tra intellettuali e non, voleva che la televisione fosse una «cattiva maestra», ricettacolo dei peggiori modelli di comportamento e condensato di tutto quello che di brutto ed esteticamente riprovevole circola nella nostra cultura. La televisione trasudava e trasuda trash, non c’è dubbio, ed era ed è piena di discorsi stupidi e insensati, ma, a furia di parlarne male, quasi non ci si accorgeva dell’esistenza di forme di racconto intelligente che, lungi dal raffigurare la deriva morale della nostra società, si rivelavano invece utili strumenti di comprensione. Questa forma di televisione «buona» era rappresentata dalla serialità. Le opere provenienti dagli Stati Uniti stavano diventando un’offerta d’eccellenza non solo nel ristretto ambito televisivo. Si cominciava a capire che non c’era mai stata una televisione tanto vitale, intelligente, ricca di risonanze metaforiche e letterarie come quella attuale. Sembrava quasi un paradosso, ma spesso si faceva fatica a trovare un romanzo moderno o un film che fossero più interessanti di una buona serie tv.

Del resto, soltanto nel 2010, con il numero 658 dal titolo «Séries, une passion américaine», i hanno dato legittimazione alla serialità televisiva. Dopo avere disprezzato per anni la televisione (di rimarchevole si ricorda soltanto un articolo di Serge Daney del 1987, in cui si intravedeva nella tv «l’inconscio a cielo aperto della società»), i si accorgevano infine della serialità: , , , e, più in generale, tutta la produzione di Hbo. Sciolti dal giuramento al cinema, ecco finalmente la scoperta di , ritratto formidabile dell’America degli anni Sessanta, sospeso fra sogno e disprezzo, tra «persuasori occulti» e il sacrosanto bisogno di lasciarsi persuadere, tra sviluppo economico ed emancipazione sociale e personale. La serialità non è mai cosa di un soggetto singolo (come lasciava intendere la «Politica degli autori» storicamente propugnata dalla rivista), e ciononostante si nutre ancora di uno scambio simbolico, si sforza ancora di «andare all’anima delle cose», per ripetere una celebre esortazione di Gustave Flaubert.

In cosa consiste dunque la novità di ? È un lavoro sul campo, come ci ha ricordato lo stesso autore in un’intervista a :

Le prime settimane che trascorsi sul set non lo vidi mai. Non era nemmeno chiaro se Chase avrebbe acconsentito a incontrarmi. Quando finalmente fui ammesso nel sancta sanctorum, rimasi impressionato. Mi colpì come un personaggio eccezionalmente misterioso e potente. Mi sembrò che il fatto di trovarsi al vertice di un programma così importante fosse un fardello molto pesante da portare, ma ebbi anche la netta sensazione che ne fosse molto orgoglioso.

E ancora:

La televisione stava diventando il centro del nostro universo artistico. Mi interessava soprattutto quale significato avesse per gli autori l’opportunità che veniva loro offerta di produrre arte all’interno di un contesto commerciale, e quanto questo li facesse impazzire ma allo stesso tempo li elevasse.1

E sul campo Brett Martin ha scoperto due aspetti interessanti.

Il primo è che i grandi protagonisti della serialità sono , antieroi, uomini inquieti, «tormentati, preoccupati e turbati dalla modernità»:

Per molto tempo era stata opinione diffusa che gli americani non avrebbero mai accolto nei propri salotti personaggi del genere: infelici, immorali, contorti e profondamente umani. Ora questi personaggi mettevano in atto un complesso gioco di seduzione nei confronti degli spettatori, spingendoli ad affezionarsi, ad appoggiare, perfino ad amare, delinquenti che si macchiavano di ogni tipo di crimine, dall’adulterio alla poligamia ( e ), dal vampirismo all’omicidio seriale ( e ). Fin dall’istante in cui Tony Soprano è entrato in piscina vestito per dare da mangiare a una famigliola di anatre è apparso chiaro che gli spettatori erano disposti a lasciarsi sedurre.

Con questi difficult men tutti abbiamo fatto i conti, non solo sul campo, ovvero nella realtà, ma anche davanti al video.

Penso a Tony Soprano, un boss mafioso, l’ultimo erede delle famiglie che spadroneggiano nel New Jersey. Tony è anche un caso clinico, un fragile depresso che ogni settimana deve incontrare una psicoterapeuta. L’impero del male si sta sfaldando, i padri storici rincoglioniscono in qualche casa di riposo, la polizia ha in mano elementi per incastrare la «famiglia», altre bande si fanno avanti.

Penso a Jimmy McNulty, alla polizia di Baltimora, all’ambiguità della giustizia. è all’ennesima potenza, con un’attenzione quasi spasmodica ai gerghi, ai particolari, alle psicologie, alle corruzioni, alla complessità dell’indagine: una vera anatomia del crimine.

Penso a Don Draper, uno strano gaudente votato non alla felicità ma alla ricerca del piacere, più per disprezzo che per cattiva coscienza: «l’universo è indifferente». Don, uno dei «Mad Men», è un edonista governato da un’etica ferrea: il piacere (sul lavoro, nel privato, con le donne) va sudato, con costanza e strategia.

Penso a Walter White di , al suo antieroismo tragico, all’ambiguità morale dell’universo in cui si muove, al quadro di un mondo al collasso emotivo ed economico. Difficile trovare altrove (in letteratura, al cinema, a teatro) un personaggio così vocato alla rovina da non opporsi alla rovina stessa.

Penso a Dexter Morgan e ai brutti sogni che procura. Non per le scene splatter, non per i molti cadaveri che fanno bella mostra di sé sulla scena del crimine, non per i modi...



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