Mínervudóttir | Metodi per sopravvivere | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 192 Seiten

Reihe: Narrativa

Mínervudóttir Metodi per sopravvivere


1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-7091-880-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 192 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7091-880-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Quando il piccolo Aron Snær, abbandonato dal padre, entra nelle vite di Árni, Borghildur e Hanna, la loro esistenza è divisa tra la rassegnazione al dolore e la speranza di una svolta. Árni insegue un amore impossibile, accompagnato dall'iperattivo labrador Alfons, che incoraggia le sue zoppicanti passeggiate verso un futuro incerto. Borghildur è una vedova alle prese con il suo lutto che si sente come un «sacco pieno di schegge di vetro», e i figli cresciuti e lontani non sanno aiutarla. Hanna è un'adolescente solitaria che non mangia più, a cui cucinarsi una pasta sembra un miracolo. Il sobborgo di Reykjavík dove vivono, un microcosmo islandese di pace stretto tra torrenti e immensi pascoli, li inghiotte in un'ovattata routine che fa da cassa di risonanza a ogni inquietudine. Finché il piccolo Aron, incrociando in diversi modi le loro strade, così sprovveduto e indifeso, fa scattare qualcosa: la compassione vince la solitudine e risveglia quel bisogno di connessione che è profondamente radicato dentro ciascuno. Forse l'unica ancora di salvezza sono le altre persone, i legami umani, la solidarietà? Con una scrittura delicata e di poetica eleganza, sotto la quale ribolle l'umanità dei suoi personaggi, Guðrún Eva Mínervudóttir dà voce a donne e uomini infelici che cercano metodi per sopravvivere e scoprono l'empatia, imparando che «in ogni parola scambiata» può celarsi «la promessa di qualcosa di straordinario».

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Hanna


Il piano del tavolo di legno chiaro sembrava intatto finché non avvicinavi l’occhio e lo guardavi di sbieco. Alla luce vivida che entrava dalla finestra si notavano i cerchi traslucidi lasciati dai bicchieri e le macchie scolorite di vino e di sugo. Il panorama consisteva in cespugli di betulla, muschio, un torrente dal corso rapido e sulla sponda opposta un monte arrotondato e dai versanti ripidi che a me per la verità sembrava semmai un colle, qualsiasi fosse la differenza tra le due cose. Adesso so che un colle è un monte più basso e più piatto sulla sommità, che si staglia isolato nel paesaggio.

Mi trovavo nella casa di villeggiatura che la mamma aveva avuto in prestito da Aðalsteinn, l’imprenditore. Era la metà di agosto, la fine di un’estate piovosa. Era tutto fitto di vegetazione e l’erba cominciava a coricarsi, il cerfoglio aveva smesso di fiorire e le betulle avevano già qualche foglia ingiallita.

Dopo aver gironzolato in casa per ore, postando foto della testata del letto intarsiata e dei fiori di plastica impolverati nella camera in cui dormivo, sfogliando vecchi libri che puzzavano di sottobosco e di vestiti usati, guardando fuori dalle finestre sprofondata in una mezza trance indotta dal cinguettio degli uccelli, mi misi a frugare nei pensili della cucina. Non mi passava nemmeno per la testa di uscire, anche se ero intorpidita per la mancanza di movimento.

Le etichette sui barattoli delle spezie erano sbiadite. Cannella, origano, pimento, sale all’aglio. Farina, zucchero, lievito. Pensai a dei * e avvertii qualcosa di simile a un uggiolio salire lungo la spina dorsale e sbocciare sulla sommità del capo. Non era fame, quella che sentivo, semmai un’avversione nei confronti del cibo. Sapevo di essere troppo magra e per questo più immatura di quanto dichiarava la mia età, ma probabilmente era proprio la mia aspirazione. Rimandare la vita.

La mamma mi aveva portata dallo psicologo e non era riuscita a trattenersi: «Mia figlia stava diventando una donna e adesso è tornata bambina», aveva esclamato con le lacrime agli occhi fissando il medico, che era alto, con le mascelle forti ma senza mento. Gli occhi di un azzurro acquoso e i capelli brizzolati tagliati corti. «Mia figlia era sicura di sé, e adesso striscia lungo le pareti. Aveva delle amiche…»

«Ho delle amiche», l’avevo interrotta io.

La mamma aveva scosso la testa: «Preferisce stare a casa a studiare invece che uscire con le amiche. Canta nel coro, la consideravano una solista promettente e adesso ha perso la voce. Aveva dei bei capelli folti, e guardi qui cos’è rimasto», aveva aggiunto, e le sue dita tremanti mi avevano solleticato il collo. Le avevo allontanate con la mano.

Era stato come se nella testa dello psicologo si fosse spenta la luce; non riusciva a prendere sul serio quella donna esagitata. Si era rivolto a me: «Mi sai dire il nome di qualche modella famosa? Sai quante calorie ci sono in una mela?»

Io gli avevo risposto di no. Il medico si era girato a guardare la mamma, trionfante.

Era stata sfortunata. Gli psicologi come categoria sono brave persone, di buon senso. Questo evidentemente aveva i suoi motivi per prendere le distanze dalle donne in assetto di guerra. Ci aveva liquidate dicendo che la ragazzina stava attraversando un’età delicata e le avrebbe fatto bene praticare uno sport.

La mia repulsione per il cibo e per l’attività fisica era più forte della comprensione che avevo per la mamma, così avevo proseguito per la mia strada sopravvivendo a succo di frutta e pane di segale secco. Ma una mezza giornata chiusa in casa tra cinguettii sfrenati e letteratura ingiallita aveva fatto più effetto delle minacce e dei rimproveri. La mia forza di volontà si era acciambellata su se stessa e si era addormentata. I bisogni fisiologici avevano avuto la meglio. Sciacquai una grossa pentola impolverata, la riempii d’acqua per metà, la piazzai sul fornello più grande e accesi. Salai l’acqua e mi misi in attesa. Alla fine persi la pazienza e versai la pasta nell’acqua prima che bollisse davvero. Regolai il timer su sette minuti e ricominciai a ispezionare il contenuto dei pensili.

Il bottino furono scatolette di tonno, olive, ketchup e vodka. Le olive erano amare, ma tenere e buone, ripiene di peperoni rossi. Svitai il tappo della fiaschetta e annusai la vodka, poi ne buttai giù un sorso. Non era la prima volta che assaggiavo l’alcol; era solo la prima volta che bevevo un sorso di un superalcolico puro. Fu come svegliarsi al rumore di vetri rotti. La fame e la vista si fecero più acute. Mi toccai lo stomaco e sentii quant’era incavato e mi prese uno sconforto completamente immotivato.

Dopo aver cercato in alcuni cassetti, adocchiai sul davanzale un mestolo di legno dentro un vaso di ceramica panciuto e lo usai per mescolare la pasta, staccando i pezzi che si erano incollati. Andai in camera a prendere il telefono e postai una foto del vaso. L’acqua bolliva con foga. Sul ripiano più in alto trovai un piattino che usai per proteggere il banco della cucina dall’estremità bagnata del mestolo. Su un altro ripiano trovai una zuppiera e ci spruzzai del ketchup. Un pezzetto di burro dal frigo ebbe lo stesso destino, come anche una metà della scatoletta di tonno. Il tonno aveva l’odore del fiato dei gatti. Era lo stesso odore della vita, e mi fece quasi compassione.

Il timer trillò. Scolai l’acqua da quei cilindretti cavi di frumento, li versai fumanti nella zuppiera e mescolai finché il pesce non si fu distribuito e il burro sciolto e amalgamato al ketchup. Con una forchetta pulita pescai le olive dal barattolo e ci decorai la pasta.

Mi sedetti a tavola con il piatto e la fiaschetta e guardai fuori, il torrente che scorreva e le betulle che si agitavano nella brezza. La vodka presa a piccoli sorsi dava al pasto un tono solenne. Mi sembrava di non essermi mai sentita tanto sola. Eppure trasalii per il disagio sentendo il motore di un’auto che si avvicinava. Non poteva essere la mamma, così presto. Mi alzai da tavola con il desiderio di sparire. Nessuno mi aveva dato il permesso di frugare tra i pensili di persone che conoscevo a malapena.

Dal vetro oscurato della porta d’ingresso vidi una jeep nera avanzare lentamente lungo il vialetto d’accesso e parcheggiare con una manovra ben collaudata in uno dei due spazi. Aðalsteinn scese dall’auto, vestito con un paio di pantaloni chiari, una camicia bianca e una giacca di lino blu. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e si girò a guardare verso il torrente, poi verso la casa.

La rabbia che mi stava salendo dentro era rivolta alla mamma; era lei che mi aveva messa in questa situazione. Poi la rabbia lasciò il posto a una disperazione impacciata, talmente intensa da sfiorare il panico. In fretta e furia richiusi il tappo della fiaschetta e la nascosi nel pensile, poi mi ritirai in soggiorno e mi piazzai sul divano con un libro.

L’odore di tonno, ketchup e burro fuso mi aveva seguito e immagino fosse arrivato anche nell’ingresso.

«Ehi?» chiamò Aðalsteinn.

Portai con me il libro e mi feci avanti senza dire una parola. Lui spalancò gli occhi per lo stupore. «Ma ciao, Hanna», disse.

«Ciao», risposi.

Avevo considerato l’eventualità che la mamma e Aðalsteinn potessero avere una relazione clandestina. La mamma aveva appena rotto con Ragnar e ce n’eravamo andate dalla sua casa sulla Seltjarnarnes. Per questo motivo alloggiavamo in maniera provvisoria nella casa di villeggiatura di Aðalsteinn e Ólafía, che erano amici di Ragnar più che della mamma. Il loro cottage era decisamente antiquato e spoglio rispetto all’arredo curato della villetta a due piani che avevano a Kópavogur.

Aðalsteinn era agile e svelto nei movimenti, aveva un sorriso mite e caldo negli occhi e faceva sempre qualche battuta che non intendeva essere veramente spiritosa, ma quasi. Era come se volesse costringere il mondo a essere un posto diverso e divertente. E spesso ci riusciva. Ma stavolta no. Fece un giro in cucina e finse di non vedere il pranzo sul tavolo. Con passi lunghi andò in soggiorno e io lo seguii. Si sedette sul divano – un pezzo di antiquariato color verde muschio, con le zampe piccole in teak – mentre io rimasi in piedi sulla soglia tenendomi stretto il libro.

«Tua mamma è al lavoro, vero?» disse. «E io ho dato per scontato che tu fossi da tuo padre. Che stupido a venire fin qui a disturbarti.»

Il silenzio che seguì la frase fu assordante. «Non stavo facendo niente di particolare», mi affrettai a dire. Su una mensola, tra libri, statuette, riviste e cornici, c’era una vecchia radio, e mi chiesi se ad accenderla avrebbe trasmesso qualcosa. Sentivo la mancanza del rumore del traffico. I cinguettii degli uccelli infiorettavano l’aria ma non la riempivano affatto.

«A volte vengo qui per starmene da solo», disse. «Per riposare un po’. Be’, sai. Ti tormentano di continuo, per una cosa o per un’altra. Non si fa mai abbastanza. E Manúela, questo poi è un capitolo a parte, come comportarsi con lei.»

Mentre scuoteva la testa mi ricordai che aveva una figliastra della mia età, molto provocante....



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